Se ci si interroga su quale sia il mito che, in Occidente, è più diffuso nello spazio e più resistente nel tempo, pochi dubbi possono sorgere: sono i cicli arturiano e del Graal. Non c’è nazione in Europa priva di racconti, monumenti, reliquie, edifici e miti medievali o ancor più antichi in cui si affaccino, in forme varie, questi cicli di saghe. Artù e i suoi cavalieri godono di una straordinaria longevità, come dimostrano ancora, oggigiorno, il cinema (da Excalibur sino al recente King Arthur), la letteratura fantasy e il romanzo storico medievaleggiante (si pensi ai cicli di Cornwell o di White).
Molti esempi sulla diffusione delle leggende arturiane si possono trarre anche al di fuori dei confini del nostro continente. Per esempio, Henry Corbin aveva sostenuto, con una serie di precisi documenti, la presenza e l’origine del mito del Graal nell’area persiana (e, più precisamente, nella corrente sufica dell’esoterismo islamico). Altri avevano trovato le tracce di questi cicli persino nella remota India.
Se, dunque, un mito ha una diffusione tanto grande, esso deve avere al tempo stesso una profondità e una possibilità di letture altrettanto notevole. È una legge, questa, che pare sovvertita nel mondo contemporaneo. Qui pare infatti avere successo solo ciò che è vano e insignificante. In realtà, basta osservare il tempo da una posizione più distaccata per rendersi conto di come tutto muti celermente, chi ha un giorno il successo si trovi l’indomani nella polvere e la fama sia fuggevole. I filosofi tradizionalisti si sono interessati ai cicli arturiani e del Graal proprio per la loro caratteristica profondità. Dante parlava al proposito di polisemia, ossia di molteplicità di possibili interpretazioni, nessuna delle quali incompatibile con le altre. Al vertice di tutte le letture sta quella simbolica, poiché quello dei simboli, come spiegò efficacemente René Guénon, è il linguaggio in cui si esprime la metafisica, che si rivela così nell’esoterismo.
Nel 1937 Julius Evola aveva dato alle stampe Il mistero del Graal e la tradizione ghibellina dell’impero, un’opera in cui le radici celtiche e i significati delle saghe venivano analizzati proprio nella prospettiva simbolica. Dopo di allora passarono molti anni prima che, nel 1980, Dominique Viseux scrivesse L’iniziazione cavalleresca nella leggenda di Re Artù, un libro eccellente sul significato dell’iter di ricerca e realizzazione spirituale del cavaliere arturiano, in cui le figure della Dama, del Graal, della Cerca venivano analizzate nuovamente nella prospettiva simbolica. Oggi quel libro è stato ripubblicato in italiano dalle Edizioni Mediterranee, nella collana “L’opera segreta” diretta da Gianfranco de Turris. Non è un libro soltanto per chi si interessi con passione febbrile della leggenda di Artù, ma anche per quanti siano rimasti incantati, almeno una volta, udendo il racconto di quei leggendari cavalieri. Tramite esso, infatti, si può accedere a una comprensione più autentica di quel fascino.
* * *
Dominique Viseux, L’iniziazione cavalleresca nella leggenda di Re Artù, Edizioni Mediterranee, Roma 2004, pp. 208.
Tratto da La Padania dell’11 gennaio 2005.
Lascia un commento