Vorrei ma non posso

Il 23 novembre dell’anno appena trascorso è approdato nelle sale cinematografiche italiane il colossal che il regista inglese Ridley Scott ha dedicato alla controversa figura di Napoleone Bonaparte. Non dimentico delle sensazioni suscitate in me negli anni scapestrati dell’adolescenza da quell’insuperato capolavoro della fantascienza che è Blade Runner, (il primo dei due, quello con il compianto Rutger Hauer nei panni dell’androide Roy Batty che nella scena finale rammenta le navi da combattimento in fiamme a largo dei bastioni di Orione), memore dell’androgina bellezza di una giovanissima Sigourney Weaver (alias tenente Ellen Ripley) che, incapsulata in una navicella di salvataggio, affronta lo spazio profondo indossando solo un paio di slip nel film d’esordio della saga di Alien e tratto in inganno da un battage pubblicitario artatamente manipolato, mi sono risolto ad investire il costo del biglietto per trascorrere un paio d’ore nella rassicurante oscurità generata dal proiettore. Mai delusione è stata tanto cocente!

Sulla scia di André Malraux ho sempre pensato che, a prescindere dal giudizio storico e politico che si può avere del suo operato e al netto di una mia debolezza sentimentale per François de Charette e gli chouans ribelli di Vandea, alimentata dalla lettura del Victor Hugo inaspettatamente reazionario e sanfedista di “Novantatrè”, Napoleone Bonaparte eserciti su noi moderni un fascino che tocca corde profonde, difficilmente comprensibili in un’ottica prettamente razionale. Siamo sedotti in maniera irresistibile dalla sua immagine perché, figli del Novecento, lo avvertiamo istintivamente come un nostro consanguineo. Quel suo essere centauro, metà guerriero e metà legislatore, l’ossessione che lo divora di poter intervenire sugli eventi per determinarne il corso, il dinamismo luciferino che lo consuma regalandogli notti insonni, l’abilità alchemica di fondere Realtà e Mito in un messaggio messianico, ne fanno una sorta di spartiacque tra il mondo antico morente e la Modernità in dolorosa gestazione. Il Secolo Breve, con la sua incrollabile fede, rivelatasi poi illusoria, nella possibilità di conciliare uomo e Tecnica, individuo e massa, forza e grazia, libertà e ordine sublimando il tutto in una palingenesi immanente è senza alcun dubbio frutto della sua follia visionaria. Napoleone appartiene a quella ristrettissima cerchia di individui che non sono destinati a condurre una vita umana, ma ad essere l’essenza di memorie future. Ora che non abita più qui, adesso che da presenza si è fatto assenza, la sua ombra incombe su di noi, suoi eredi, e ci interroga. Come si diventa ciò che si è? Quale oscura energia ha condotto un misconosciuto ufficiale nato in un’isola di granito ricoperta dai boschi a cingere la corona imperiale nella cattedrale di Notre Dame?

Le piramidi d’Egitto, Amiens, Wagram, Tilsit. Per diciotto anni il piccolo, grande còrso ha vissuto senza tregua, quasi avesse il Demonio alle calcagna, alla guida di mezzo milione di soldati che hanno fatto tremare l’Europa ed il mondo, costruendo intorno alla propria persona quella che lo scrittore francese Sylvain Tesson, in quello struggente omaggio postumo al suo Imperatore che è Beresina. In sidecar con Napoleone (edito in Italia da Sellerio) ha definito “una leggenda dai contorni macedoni”. Poi, all’improvviso, il sorriso della Fortuna che lo ha colmato di tanti regali favori si è tramutato in un ghigno beffardo e una marcia della morte attraverso le steppe russe ha posto fine repentinamente a quel miraggio. Solo due anni più tardi, il triste epilogo nella prigione galleggiante di Sant’Elena. Nel mezzo, estremo, disperato colpo di coda, la fuga rocambolesca dall’isola d’Elba, lo sbarco a Marsiglia, la corsa a tamburo battente contro il tempo verso Parigi al fine di riconquistare il trono perduto, con il popolo che al suo passaggio si solleva in armi come un’onda anomala e l’ultima, infausta mano giocata a Waterloo. A consumare da due lati la candela di una vita spesa sempre sul filo di lama, quella “febbre d’avventura e d’Impero” a suo tempo evocata da Piero Buscaroli nelle sue memorie novecentesche.

Di tutto questo, della familiarità dell’uomo di Ajaccio con il senso del tragico che ha indotto perfino Adolf Hitler, entrato vincitore nella Ville Lumière, a deporre una corona di foglie di quercia sulla sua tomba all’Hotel des Invalides, nel pretenzioso lungometraggio realizzato da Ridley Scott non rimane alcuna traccia. Lo spettatore si trova, suo malgrado, a dover fare i conti con un prolisso e melenso romanzo rosa incentrato sul rapporto morbosamente freudiano tra un improbabile Joaquin Phoenix prestato ad un ruolo decisamente fuori scala per le sue modeste doti di attore e una Vanessa Kirby senza dubbio molto più conturbante e spregiudicata della vera Giuseppina Beauharnais. La liaison dangereuse tra i due occupa gran parte della scena, a scapito delle vicende storiche che sono relegate sullo sfondo e trattate in maniera sbrigativa. Unico momento degno di nota, lo spettacolare incendio che le truppe dello Zar Alessandro I in ritirata appiccano a Mosca perché non cada nelle mani dell’invasore. Fosco presagio di sventura per tutti coloro che hanno l’ardire di voler espugnare la Russia. Una lezione della quale i moderni epigoni di Napoleone non sembrano aver fatto tesoro. Ma questa è un’altra storia…

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