Solo gli imbecilli possono credere che ciò che accade all’altro capo del mondo non ci riguarda. Nell’era della globalizzazione che, in un certo senso, ha già abolito lo spazio e il tempo, tutti i grandi avvenimenti che si producono in un posto o nell’altro del globo ci toccano allo stesso modo. E ci toccano tanto più in quanto la globalizzazione segna anche la fine di una configurazione generale del mondo e l’inizio di una nuova configurazione definita da Carl Schmitt come un nuovo “Nomos della Terra”.
Il vecchio Nomos eurocentrico era sparito all’indomani della Prima Guerra Mondiale. Dopo il 1945, la Terra è stata sottomessa al condominio americano-sovietico, a sua volta crollato con la fine della guerra fredda. La domanda che oggi si pone, con un’acutezza che cresce ogni giorno, è la seguente: ci dirigiamo verso un mondo unipolare, che sarebbe inevitabilmente dominato dalla sola grande potenza oggi esistente, gli Stati Uniti, o verso un mondo multipolare – un pluriverso – costituito da grandi insiemi geopolitici e da crogioli di civiltà continentali, che potrebbero essere altrettanti poli di regolazione della globalizzazione?
Si possono rimproverare molte cose agli americani, ma certamente non di dimenticare di pensare il mondo di domani. Al contrario, essi lo pensano, e lo pensano globalmente, il che ha loro permesso di trovare un diavolo di ricambio. Come ieri utilizzavano il comunismo sovietico come contraltare, per fungere da testa di ponte del “mondo libero”, così oggi strumentalizzano l’islamismo per imporsi ancora ai loro alleati e convincerli a partecipare a una lotta il cui obiettivo è di consolidare il loro dominio assoluto sul mondo. Le grandi linee di questa offensiva globale erano tracciate fin dal settembre 2000, ancor prima dell’arrivo di George W. Bush alla Casa Bianca, nel “Progetto per un nuovo secolo americano” (Project for a New American Century) il cui titolo parlava da solo.
Previste almeno dall’inizio degli anni novanta, le guerre in Afghanistan e in Iraq, continuazione della prima guerra del Golfo del 1991 e dell’attacco della ex Jugoslavia ad opera della NATO (1991-2001), rientrano in un programma più vasto tendente, da una parte, ad assumere il controllo delle fonti di produzione energetica, dall’altra parte a impedire l’emersione di ogni rivale ovunque sia nel mondo. L’accerchiamento della Russia, la liberalizzazione dei mercati e le “riforme” imposte sotto l’egida del FMI nell’Europa dell’Est e nei Balcani, che hanno avuto come conseguenza la destabilizzazione delle economie nazionali, vanno nella stessa direzione. Si tratta di ricolonizzare una vasta regione estendentesi dai Balcani all’Asia centrale, assicurandosi al tempo stesso l’egemonia del Mare sulla Terra. Guerra e globalizzazione vanno così di pari passo. La militarizzazione sostiene la conquista di nuove frontiere economiche miranti ad imporre la società di mercato su scala planetaria.
Tuttavia, niente si svolge come previsto. Una serie di trionfali conquiste militari doveva trasformare il Golfo Persico in un condominio americano-israeliano, ma l’Iraq sprofonda un po’ di più ogni giorno nella guerra civile e nel caos. Niente è sistemato in Afghanistan, ridiventato, sotto la guida americana, il primo Stato narco-trafficante del mondo. E, malgrado gli sforzi dispiegati, all’orizzonte si profilano nuove potenze: la Cina in primo luogo, ma anche l’India e il Brasile. Il bilancio militare annuale degli Stati Uniti (400 miliardi di dollari) rappresenta oggi l’equivalente del prodotto interno lordo di un paese come la Russia. Ma nell’epoca delle guerre asimmetriche, la superiorità tecnica e militare non è più necessariamente decisiva. Lo abbiamo visto in Iraq come in Libano: il ricorso a massicci bombardamenti aerei – in attesa delle armi nucleari tattiche che potrebbero essere impiegate domani contro l’Iran – non riesce a venire a capo di una resistenza popolare agguerrita, ben addestrata e che gode dell’attivo sostegno della popolazione.
George W. Bush è già riuscito a far uccidere in Iraq più americani di quanti ne siano morti nelle torri del World Trade Center. A Washington come a Tel Aviv, si conduce una politica fondata sul principio che non c’è un partner per la pace e che la potenza militare permette di raggiungere tutti gli scopi ricercati. La verità è che non esiste soluzione militare per problemi fondamentalmente politici.
La nuova aggressione israeliana del Libano, concepita e preparata da lunga data in concertazione con Washington, aveva l’obiettivo di distruggere la resistenza libanese, preparare nuove guerre contro la Siria e l’Iran, destabilizzare lo Stato libanese e distruggere le sue infrastrutture. Essa rientrava in un piano generale di ristrutturazione del “Grande Vicino Oriente” voluto dagli Stati Uniti, che doveva tradursi nello smantellamento di diversi Stati (Libano, Iran, Siria, Giordania, Egitto, Arabia Saudita) e nella generalizzazione del caos. Per adesso, tale aggressione si è conclusa con una vittoria di Hezbollah, ormai sostenuto da una vasta maggioranza di libanesi di tutte le confessioni, e con un insuccesso totale dell’esercito israeliano che, malgrado i massacri cui si è abbandonato, non è riuscito a raggiungere nessuno dei suoi obiettivi. Ma la guerra in Libano era solo il primo round della guerra contro l’Iran. Perciò, la stessa demonizzazione orchestrata intorno alle “armi di distruzione di massa” che si presumeva l’Iraq possedesse, si sviluppa oggi prendendo a pretesto le legittime ambizioni nucleari di Teheran.
Anche in America Latina, dove gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente decine di volte in un secolo, i tempi sono cambiati. È finita l’epoca delle guerriglie, delle brutali dittature militari e dei colpi di Stato fomentati da Washington. La contestazione tende ormai ad esprimersi democraticamente – con la forza della politica, non con la politica della forza. Ed essa è sempre meno conforme agli interessi americani.
Nel periodo di transizione che attraversiamo, restano beninteso numerose incognite. Nessuno sa cosa farà la Cina della formidabile potenza di cui si sta dotando. Incertezze simili pesano sulla Russia, dove Vladimir Putin, a quanto pare più preoccupato di ristabilire l’autorità dello Stato che di soddisfare le richieste del popolo, non riesce a venire a capo della sua guerra coloniale in Cecenia. Nel mondo arabo-musulmano, il fatto più importante non è un qualunque “scontro di civiltà”, ma la rivalità e talvolta la lotta violenta che oppongono sunniti e sciiti. Si delineano alleanze continentali e transcontinentali (gli assi Parigi-Berlino-Mosca, Mosca-Pechino-Teheran, Caracas-Buenos Aires-Rio de Janeiro) che minacciano la talassocrazia americana.
Su questo scacchiere, la grande assente è l’Europa. Lungi dal pensare il mondo di domani, essa si preoccupa solo di gestire gli affari del presente. Non ha una specifica volontà, non cerca di dotarsi dei mezzi della potenza. A poco a poco, la vediamo cedere alle esigenze di Washington. E i paesi che la compongono sono incapaci persino di intendersi sulle finalità della costruzione europea.
Eppure, le scadenze sono là. Un nuovo “Nomos della Terra” si instaurerà comunque. Mondo unipolare o multipolare? La gara di velocità è iniziata.
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Il presente articolo (la cui traduzione è di Giuseppe Giaccio) è stato inizialmente pubblicato su Diorama Letterario n. 280 (2006) e successivamente incluso sul sito Les amis de Alain de Benoist.
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