Ogni volta che viene pubblicato un libro di inediti di Andrea Emo, filosofo veneto, viene da esclamare: finalmente! I suoi aforismi, per l’eleganza dello stile dal tratto a volte algido e, in altri casi, descrittivo o passionale, non possono determinare che l’immediato coinvolgimento, intellettuale ed emozionale, dell’accorto lettore. L’impressione che ho tratto dalle pagine di Verso la notte e le sue ignote costellazioni. Scritti sulla Politica e la Storia, edito da Gallucci per la cura di Massimo Donà e Raffaella Toffolo, è stata liberatoria. Questo volume emiano, è bene precisarlo preliminarmente, emenda dai luoghi comuni che gravano, da troppo tempo, sul dibattito teorico relativo alla categoria del Politico. La cosa, è ribadita in due chiarificatrici postfazioni, dai curatori dell’opera omnia emiana, Massimo Donà e Romano Gasparotti. Il testo è impreziosito, inoltre, dalla prefazione di Emanuele Severino. Lo scritto del pensatore bresciano è un evidente riconoscimento della potenza filosofica di Emo, e consente al lettore di fare i conti con due Vie filosofiche significativamente presenti nel panorama speculativo italiano contemporaneo oltre che nella storia delle idee occidentali. La prima, con Parmenide e Severino, dice l’eternità degli enti, la seconda con la sequela teoretica che discende dalla linea eracliteo-neoplatonica, esplicitata in termini definitivi da Emo nel Novecento, dice che l’eternità la si può amare solo nella presenza, nell’atto individuato e determinato, la cui positività si configura come negazione della Negazione originaria.
Severino si limita a collocare il contributo emiano all’interno dell’attualismo. Più in particolare Emo, muovendosi nel clima neoidealista primo novecentesco, avrebbe sviluppato una posizione sintonica rispetto a quella di Ugo Spirito. Per Spirito l’atto: “…non può più essere la soluzione, ma è il problema, cioè (come per Emo) l’interrogazione” (p. 12). Ciò significa che Emo, oltre l’apparecchiatura scenica del linguaggio attualista, implicante la negazione di ogni Immutabile, alluderebbe e rinvierebbe, come altri dello stesso ambiente, all’avvento di un essere oltre il divenire.
Gli scritti di Gasparotti e Donà entrano, invece, nella viva carne dell’argomentazione storico-politica emiana. Anche in questo ambito, l’aristocratico patavino-veneziano, è pensatore fuori dal coro. Il suo dire non si limita ad una funzione nostalgico-consolatoria. Per dirla con Gomez Davila, egli non crede che il pensare consista nel costruirsi una salda dimora in cui trovare rifugio dall’inclemenza del tempo presente, dall’età della ribellione delle masse. Emo si pone equamente distante dai teorici della fine della storia, adoratori di un presente mesto che si fa credere invalicabile attraverso l’instaurazione dell’eterno regno della merce, quanto da coloro che pensano possibile, sic et simpliciter, una restaurazione dell’Ordnung, del Valore. Donà ci ricorda che per Emo la politica era: “Un gioco cinico, privo di morale” (p. 397). Convinzione di fondo, tragica, condivisa con quei Sapienti ai quali guardò sempre con estremo interesse. Questi avevano ben compreso che senza polemos : “…neppure l’amore avrebbe mai potuto suggellare l’eterno ripristinarsi dell’ordine” (p. 399). Il reale è metamorfosi, coincidenza di essere e nulla, integrazione provvisoria degli opposti. In Politica, perfino Platone, strenuo oppositore della sofistica, riconobbe al filosofo-reggitore la possibilità della menzogna. Nessuna Libertà si dà senza conflitto, come ammoniva Eraclito, contro Omero e la sua predicazione della Pace perenne. Essa è negazione della vita, in: “…conformità ad un vero che solo il Sacro sembra poter custodire” (p. 400). Nella storia cose ed eventi, tornano eternamente ma solo: “…nella forma del radicalmente nuovo” (p. 401) e ciò, ogni volta ci stupisce, ci meraviglia e sorprende, ci costringe a parlare di eterogenesi dei fini. L’altro ci appare pienamente come ignoto, solo quando è espressione del medesimo: la Storia e la vita sono un giardino di contraddizioni. Per avere accesso all’esegesi emiana della Politica e della Storia è necessario pensarle entrambe mosse dalla dinamica temporale: “Anche il tempo per Emo si crea mediante il proprio distruggersi, come le epoche, come le forme politiche, come gli ideali e le cose tutte” (p. 403). Il tempo si distruggere per rinascere, così l’eterno rimarrà sempre futuro rispetto a quel che sarà stato: “…continuando a vivere solo nella e della morte di quest’ultimo,…del passato, sancita sempre e comunque dal presente” (p. 404). Presente inviolato come la mitica Età dell’Oro.
La storia di Emo, suggerisce Donà, è simile all’immagine cinematografica che, nel farsi guardare si dilegua, permettendo alla successiva di stupirci. Così come al cinema viviamo la più reale delle illusioni, la Storia, emianamente intesa, rivela sempre la possibilità dell’impossibile. È apertura inesausta dell’origine.
Gasparotti, nel suo saggio, muove dalla considerazione che per Emo l’esistenza umana è intrinsecamente politica. Il pensatore patavino costruisce le proprie tesi sull’archi-modello greco, nel quale il polítes acquisisce l’identità nell’orizzonte universalista della Polís. Modello inconciliabile con la posizione maturata nella tradizione latina, che fa della civitas: “…la sommatoria delle relazioni risultanti tra concittadini” (p. 372). Il dramma politico della contemporaneità, incarnato dalle democrazie liberali, sta nel aver pensato di poter conciliare i due modelli ora ricordati. Per questo Emo avrebbe potuto sostenere, con Badiou, che: “Il nemico di oggi non si chiama Impero o Capitale. Si chiama Democrazia” (p. 373). Democrazia moderna è organizzazione iper-razionalista del mondo, che impedisce ai popoli di: “…individuarsi concretamente…costringendoli a vivere quali puri nomi di un’immediata universalità astratta” (p. 373). In ciò il tratto epi-demico della democrazia moderna, che si sovrappone ai popoli, elevando a unico dio la massa anodina (monoteismo democratico) e che, attraverso il Gestell, dispiega pienamente la ratio della tecno-scienza. Il progetto prometeico, suggerisce Gasparotti, trova il proprio compimento: “Tutto ciò che accadrà io esattamente conosco in anticipo e nessun accidente inaspettato può cogliermi”, così aveva argomentato, profeticamente, Eschilo. Lo Stato veterotestamentario e terapeutico non lascia essere l’individualità: “…che è un paradosso come tutto ciò che è spirituale, è soltanto in quanto si nega” (p. 378) e, in quanto tale, è il luogo della libertà. La vera libertà si accompagna alla potenza: la cosa era stata colta, all’inizio del Novecento, non solo da Emo, ma anche da Julius Evola. Tale libertà: “…si dà eventualmente nella capacità effettuale di porre infinitamente all’opera l’azione autotrascendente…rivoluzionaria, di colui che è, solo in quanto possibilmente può,…nel senso che ciò che è sempre possibile è l’impossibilità del possibile stesso” (p. 379). Gasparotti, rileva come Emo, in tutto il suo iter speculativo sia rimasto fedele a questa idea di libertà, mentre Evola avrebbe, con l’adesione al tradizionalismo integrale, con il riferirsi a modelli storico-politici del passato, vissuto una regressio rispetto a tale posizione iniziale.
La cosa ci pare vera solo in parte. Proviamo a spiegarci: la libertà-potenza dell’idealismo magico è, a nostro parere, rimasta come fuoco inesausto, anche nelle opere successive di Evola, non spento del tutto neppure dall’incontro con la Tradizione di Guénon. La Tradizione in Evola, per questa ragione, ha avuto una declinazione dinamica, non statica e contemplativa. Ma, al di là di questa precisazione, condividiamo la conclusione cui Gasparotti giunge, in merito al senso originario della tradizione in Evola: “La quale non stava nell’impotente adesione a qualcosa di già dato, bensì poteva instaurarsi solo nella capacità di essere attivamente fedeli alla misteriosa chiamata proveniente dal non-luogo di una profondità e di una altezza, che travalica e sovrasta tutto ciò che è dato, immediato, obiettivo” (p. 383). Questa lettura è la medesima che Emo fornisce in merito alla relazione rivoluzione-tradizione: “Ogni tradizione ha origine in una rivoluzione, in un atto rivoluzionario. Anzi, ciò che fa la vitalità, la bellezza, il senso di una tradizione, è il perdurare in essa del senso e del significato di quell’atto rivoluzionario (cioè originale, autonomo)” (p. 196). L’atto emiano-evoliano è perenne autonegarsi, è il dissolversi di ogni factum, per questo l’atto è immagine, dal che si evince la rilevanza teoretica del confronto Emo-Klages, impostato da Gasparotti.
Conclusivamente, l’azione politica veritativa emianamente intesa dovrebbe costituirsi, questa la tesi cui perviene Gasparotti, secondo “uno schema non predisposto”. Solo a questa condizione: “la politica…diventa il laboratorio sempre aperto di una continua pratica dell’improvvisazione…il cui perenne experimentum consiste nel sottoporre al “battesimo del nulla” ogni mera figura di significato e quindi ogni forma politica e ogni sistema economico politico” (p. 393). Dalle solari evidenze della governance, del mondo amministrato, risorgerà il “pensiero immaginante” a vocazione museale, in grado di esplicare, nell’azione, la propria creatività. Ci avvieremo, allora, “verso la notte e le sue ignote costellazioni”.
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