Vae victis!

Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa, dirette a tamburo battente verso la capitale del Reich in fiamme, forzano i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz, rivelando al mondo il cuore di tenebra della Germania hitleriana. Canonizzato da una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2005, l’evento è riconosciuto a livello internazionale come Giorno della Memoria, momento apicale di una religione civile volta a risarcire il popolo ebraico delle sofferenze patite attraverso una rituale demonizzazione del passato: additare alla pubblica riprovazione un fatto come monito, per impedire che esso possa ripetersi. Nella percezione diffusa dell’opinione pubblica l’Olocausto ha assunto così un carattere di unicità dogmatica, direi quasi teologica, sebbene non sia certo l’unico genocidio nella storia del genere umano.

Fosco Maraini ha osservato, a tal proposito, che le Civiltà sono endocosmi, vale a dire che ciascuna sviluppa, quasi fosse una realtà organica, un’idea di se stessa e, per contrapposizione speculare, una concezione di ciò che è altro da sé. In virtù di questo assioma i Maya, gli Aztechi, gli Incas che sono stati addirittura cancellati dalla faccia della terra non godono della medesima considerazione nell’elaborazione culturale del dolore di cui è fatto oggetto il popolo ebraico in quanto, agli occhi dell’Occidente, le popolazioni precolombiane sono collocate, a torto o a ragione, in una posizione lontana rispetto a noi nello spazio come pure nel tempo e della morte dei “selvaggi” nessuno intende dolersi. Al contrario, nel caso specifico dell’Olocausto, un atto preordinato di eliminazione sistematica è stato perpetrato ai danni di un popolo ritenuto civile ed è questo, in definitiva, a renderlo intollerabile.

Alla stringente razionalità di tale postulato sfugge però la posizione a suo modo dissonante assunta dallo scrittore Carlo Coccioli (1920 – 2003), che nel suo romanzo L’erede di Montezuma, apparso presso Vallecchi nel 1964 e ora riproposto dalla torinese Lindau in una nuova edizione coniata per celebrare il centenario della nascita dell’Autore, ci offre una rappresentazione vivida e potentemente evocativa dell’Impero azteco colto nel momento culminante del suo sanguinoso, drammatico epicedio ad opera dei Conquistadores.

In una capanna nel cuore della foresta tropicale giace, legato mani e piedi come un predone, Cuauhtemoc, undicesimo e ultimo signore di Tenochtitlan. Nell’ora della disfatta, in attesa che i suoi carcerieri decidano della sua esecuzione e di quella dei pochi fedelissimi scampati al massacro inflitto loro da Cortés, il sovrano, pressato dall’imminenza della morte, affidandosi alla carezza consolatrice del ricordo rievoca in retrospettiva le fasi salienti della propria tormentata esistenza. Scrittore estraneo per innata ritrosia alle logiche delle consorterie culturali di casa nostra fino al punto di scegliere un volontario esilio a Città del Messico, snobbato in vita dalla grande editoria per quella sua ossessiva attenzione ai temi della religiosità e alla poetica degli archetipi guardata con sospetto perché ritenuta antimoderna e quindi reazionaria, amico intimo di Alfredo Cattabiani, che per Rusconi ha pubblicato negli anni alcune delle sue opere più significative, sodale di Curzio Malaparte con il quale ha intrattenuto una fittissima corrispondenza epistolare rimasta ancora in gran parte inedita, in queste pagine Carlo Coccioli nulla concede al vieto stereotipo del buon selvaggio caro a Rousseau, usato di norma per alimentare la stucchevole retorica di una visione orizzontale e inclusiva delle società primitive violate dalla verticalità dell’imperialismo coloniale.

Quello che si para dinnanzi agli occhi del lettore attraverso le parole del protagonista è anzi un mondo spietato e aduso alla violenza, un universo arcaico e disertato da qualsivoglia edenica dolcezza, dove i giovani rampolli delle classi dominanti trascorrono gli anni dell’apprendistato temprando i propri corpi al digiuno e alla sopportazione del dolore al fine di purificarsi e rendersi degni al cospetto di un variegato pantheon di divinità zoomorfe che, nel corso di elaboratissime cerimonie religiose, esigono tributi di sangue umano per placare la propria sete. Quando, annunciata da segni celesti e premonizioni oniriche, da un capo all’altro dell’Impero si diffonde con la rapidità del fuoco la notizia dell’arrivo lungo la costa di strani Esseri dalla pelle diafana con bardature di metallo, emersi dalle profondità degli abissi brandendo una croce, guidati da quella che si ritiene sia una prefigurazione di Quetzalcoatl, il Dio Serpente Piumato, lo scontro con gli invasori è salutato dai custodi del culto quale unico mezzo per adempiere alla profezia sul compimento dei tempi ultimi e propiziare così, nell’ottica di una concezione ciclica della Storia, la rigenerazione del cosmo. “Era l’epoca in cui, impaziente, attendevo che mi si facesse gustare il sapore della guerra”.

Fedele al destino tragico della sua gente, Cuauhtemoc è andato incontro alla propria sorte e ha difeso il suo mondo dalla minaccia incombente. Alla fine gli Esseri hanno trionfato e l’Aquila ha morso la polvere… ma in ogni caso il volere degli Dèi non è stato disatteso.

Carlo Coccioli, L’erede di Montezuma, Lindau, Torino 2020; pag. 530 € 24,00.

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