Il «General Grant», dal nome del comandante Ulysses S. Grant, futuro presidente degli Stati Uniti d’America, era un bel tre alberi in legno di quercia, lungo 54 metri e con una stazza di circa 1.000 tonnellate; era stato varato a Bath, nel Maine (New England settentrionale), nel 1864.
Al comando del capitano Henry Loughlin, viaggiava fra Boston e Melbourne, in Australia, per trasportare lana, cuoio e pellami. Il 3 maggio 1866, quasi nuova com’era, uscì dal porto di Melbourne per tornare sulla costa orientale degli Stati Uniti, via Capo Horn. Aveva imbarcato anche alcune decine di minatori che viaggiavano con le famiglie e con l’oro che avevano estratto; in tutto, sulla nave viaggiavano ottanta uomini fra passeggeri e membri dell’equipaggio.
Il viaggio si presentava lungo e difficile, perché si era alle soglie della stagione invernale (che, nell’emisfero Sud, è rovesciata rispetto al nostro) e perché avrebbe dovuto svolgersi, per tutta la smisurata ampiezza del Pacifico, senza mai toccare alcuna terra dopo la Nuova Zelanda, e affrontando le temibili tempeste dei Quaranta Ruggenti, portate dai venti prevalenti occidentali. Inoltre, il passaggio di Capo Horn era notoriamente una delle imprese marinare più problematiche, a causa delle mutevoli e spesso proibitive condizioni atmosferiche, che avevano disseminato quelle acque dei relitti di decine e decine di sfortunate imbarcazioni.
Paradossalmente, però, il dramma del «General Grant» non venne provocato dalle tempeste, ma dalla strana caduta del vento, che, a un certo punto, si trasformò addirittura in bonaccia: fu quella l’origine del disastro. La mancanza di vento e il sopraggiungere della nebbia, mentre la nave si trovava a passare a mezzogiorno della Nuova Zelanda, provocò la perdita della rotta: il capitano non riuscì a fare il punto e, quando fu avvistata terra, egli ritenne erroneamente che si trattasse dell’isola Enderby, all’estremità settentrionale del gruppo delle Auckland, mentre invece si trattava dell’Isola Disappointment (Isola della Delusione), posta 10 km. ad ovest dell’isola principale, chiamata anch’essa Auckland (mentre la seconda, per grandezza, è l’isola Adams, posta a sud).
Se il «General Grant» si fosse trovato dove Leighton credeva, la manovra di virare a nord per poi rimettere la prua ad est sarebbe stata giusta, poiché le avrebbe consentito di filare oltre l’arcipelago, in mare aperto; invece, trovandosi dove si trovava, quella decisione si rivelò fatale: dopo aver virato di bordo verso nord, esso riprese la sua corsa verso est e così andò dritto verso la costa occidentale dell’isola Auckland. L’errore di valutazione era stato dovuto in parte alla nebbia, in parte al sopraggiungere dell’oscurità: nel buio della notte, nessuno si rese conto che il punto era sbagliato e, quando apparvero a prua le alte e minacciose scogliere dell’isola principale, era ormai troppo tardi per allontanarsi. Il vento era del tutto caduto, le vele pendevano flosce dalle alberature e un tentativo di fermare la deriva della nave gettando l’ancora andò a vuoto, per l’impossibilità di agganciare il fondale.
Adesso il movimento delle onde portava la nave dritta verso la costa: essa era stata risucchiata nel gioco della marea e, nel cuore della notte, andò a cozzare con violenza inaudita contro le rocce, al punto di incastrarsi nel mezzo di queste e di aprire una sorta di grotta, mentre gli alberi si spezzavano e rovinavano sul ponte e lo scafo, squarciato, si inclinava e cominciava ad imbarcare acqua. Il terrore della morte spinse quegli uomini, quelle donne e quei bambini a prendere ciecamente d’assalto la lancia più grande, che immediatamente si capovolse sotto il peso di tanti sventurati, sempre nel buio delle prime ore del mattino; altre due barche più piccole riuscirono ad allontanarsi, ma solo quindici uomini, a quel punto, erano rimasti in vita.
Anche così decimati, i naufraghi dovettero faticare alquanto per riuscire a mettere piede sull’isola di Auckland; il fatto che dieci di essi riuscirono poi a sopravvivere per un anno e mezzo dipese da tale manovra, perché, se si fossero rassegnati a sbarcare sull’isola Disappointment, piccolissima e priva di risorse, senza alcun dubbio sarebbero morti tutti di fame e di sete, oltre che di freddo. Fu grazie alle foreste che crescono sul versante sottovento dell’isola Auckland che poterono costruirsi dei ripari: senza quel legname e senza quell’erba, che permisero loro di improvvisare dei ricoveri di fortuna, non avrebbero resistito neppure qualche giorno. Dopotutto, essi erano i naufraghi sulla terra più meridionale del mondo, a parte la punta estrema dell’America del Sud: le Isole Auckland, infatti, sono situate a 50° 42’ di latitudine Sud, oltre il limite estremo dell’ecumene (l’isola Stewart, la terza e più meridionale dell’arcipelago neozelandese, ultima terra allora abitata dell’intera Oceania, si trova a 47°00’ S).
Fra parentesi, vale la pena di ricordare che le Isole Auckland rappresentano il limite australe della vegetazione arborea nell’emisfero orientale (in quello occidentale, essa arriva fino alle isole meridionali della Terra del Fuoco, a Sud del Canale Beagle, dunque fino a 55°59’ di latitudine). I boschi delle Auckland sono rappresentati in gran parte dal cosiddetto Daisy Tree, che si potrebbe tradurre con «Albero margherita»: si tratta della «Olearia lyalli», appartenente all’ordine delle Composite e alla famiglia delle Asteracee, il quale si presenta come un piccolo albero dal fusto sovente contorto (o piegato dalla forza dei venti), vagamente simile al faggio, ma con il tronco molto più esile e contorto, nonché cosparso di muschi e di vegetazione fungina, come effetto del clima estremamente umido e piovoso dell’arcipelago e diversissimo, quindi, da quello mediterraneo (cfr. il nostro articolo Il limite antartico della vegetazione arborea, pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 12/06/2006).
Le Auckland – che coprono, complessivamente, una superficie di poco più di 600 kmq.: circa il doppio, per fare un confronto, dell’Arcipelago Toscano – erano disabitate, così come lo sono tuttora; due sole volte l’uomo aveva osato tentare un insediamento stabile su quelle estreme, difficili terre alle soglie dell’Antartico. La prima volta fu ad opera dei Polinesiani, di cui si sono trovati resti archeologici, soprattutto sull’isola Enderby, che la datazione al radiocarbonio sembra far risalire al XIII sec. d. C.; la seconda volta era stata nel 1850, quando Charles Enderby concepì un progetto di colonizzazione fondato sull’agricoltura e la caccia alla balena, e un certo numero di Maori affluirono a Port Ross, un golfo ben riparato che si trova sulla costa nord-orientale dell’isola principale, ma essi, dopo due anni, dovettero gettare la spugna e rinunciare all’improbo tentativo, abbandonando l’arcipelago e rientrando nella Nuova Zelanda.
Scoperte, come si è visto, dal cacciatore di balene Abraham Bristow nel 1809 (ma si sa che ancora nel corso del XIX secolo esse vennero frequentate saltuariamente dalle imbarcazioni dei pescatori maori provenienti dall’isola del Sud della Nuova Zelanda), le Auckland godevano già, all’epoca del «General Grant», di una fama piuttosto sinistra fra i marinai, d’altronde ben meritata, poiché erano state teatro di alcuni naufragi che si erano verificati in circostanze analoghe a quelle sopra descritte: tra le vittime, si ricordano la nave «Grafton», nel 1864, e la «Invercauld», nel 1865; altri ebbero luogo negli anni successivi, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, fino a quello del «Dundoland», nel 1907, che avvenne davanti all’isola Disappointment.
La spesa eccessive e le difficoltà logistiche dissuasero il governo britannico (che avrebbe passato la mano a quello neozelandese solo nel 1947) dal farvi installare un faro, sicché si ripiegò, nell’anno della perdita del «Dundoland», sulla costruzione di un rifugio per eventuali naufraghi, con scorte di viveri e altro materiale di sopravvivenza, presso Port Ross, la località più favorevole alla presenza umana. Solo durante la seconda guerra mondiale, dal 1942 al 1945, sarebbe stata stabilita una stazione meteorologica a scopo militare, poi abbandonata. Così, quando i quindici sopravvissuti del «General Grant» presero terra, non esisteva anima viva in tutto l’arcipelago e sarebbero passati ben diciotto mesi prima che una baleniera si trovasse a passare da quelle parti. Vissero così, come dei moderni Robinson Crusoe, lontano da tutto e da tutti, e senza potersi avvalere di quasi nessun beneficio della civiltà, poiché avevamo perduto ogni cosa nell’abbandonare precipitosamente la loro nave.
La drammatica vicenda è stata così rievocata dallo scrittore e viaggiatore scozzese John Wright nel suo libro Alla ricerca dei tesori sommersi (titolo originale: Encyclopedia of Sunken Treasure, London, Michael O’Mara Books Limited, 1995; traduzione dall’inglese di Fabrizia Fossati, Casale Monferrato, Edizioni Piemme, 1997, pp. 244-8):
«La “Generale Grant” salpò da Melbourne il 3 maggio [1866], trasportando ventiquattro uomini di equipaggio e cinquantasei passeggeri, molti dei quali erano minatori che ritornavano a casa dai giacimenti auriferi di Victoria e che portavano, quindi, con sé le proprie ricchezze. La nave passò da Port Phillip e virò poi verso il Bacino dell’Australia Meridionale facendo rotta verso est, prendendo la “Great Circle Route” (Rotta di Circolo Massimo), virando poi ancora verso sud per incontrare i venti occidentali. La “Generale Grant” passò dalla Nuova Zelanda e dalle Isole Auckland facendo rotta per Capo Horn. La prima settimana il tempo rimase bello con vento freddo proveniente da ovest. L’11 maggio il barometro cominciò a scendere, il vento cambiò da sud-ovest, portando densi banchi di nebbia. Nei due giorni seguenti il capitano Loughlin non riuscì a determinare la posizione della nave. Raddoppiò le vedette. Il 13 maggio, alle 10 di sera, venne avvistata terra a tribordo di prua. Loughlin, pensando che si trattasse del gruppo più a nord delle Isole Auckland, virò verso nord. Questo fu un grosso errore perché la terra avvistata era in realtà Desappointment Island, che si trova a ovest delle Isole Auckland. Alle 11 di sera il vento era calato, c’era bonaccia; le vedette avvistarono nuovamente terra a circa tre/quattro miglia verso est. Il capitano ordinò di aumentare le vele e l’equipaggio si tenne pronto quando la “Generale Grant” iniziò a muoversi. Per prendere quel poco vento che c’era, venne issata inutilmente ogni vela ”tutto ciò che poteva cogliere un alito di vento e dare un po’ di presa al timone… una brezza, per quanto leggera, poteva salvare la nave e permetterle di passare fra le isole” (K. Eunson, The Wreck of the G. Grant, Sydney, 1974, p 42).
Ma la marea e le correnti portarono lentamente la nave verso le scogliere torreggianti e le rocce frastagliate dell’isola più grande. Venne fatto un tentativo per ancorare la nave, ma non si riuscì a trovare il fondale. All’una del mattino del 14 maggio la nave entrò in un gorgo e colpì le rocce con una tale violenza che il timone si frantumò. Il boma di mezzana si ruppe, cadde sul ponte, uccidendo il timoniere. Quando la nave urtò contro le rocce, queste si aprirono, mostrando un anfratto piuttosto basso. L’impeto del mare spinse la nave all’ingresso della caverna: l’albero di trinchetto si ruppe, i pezzi caddero giù insieme ai cordami, l’albero urtò contro il soffitto della caverna, frammenti di roccia e detriti caddero sul ponte superiore e a dritta del castello. All’alba le onde erano aumentate e la nave venne spinta contro le rocce aguzze. Lo scafo si incagliò nella caverna rocciosa, e con le ondate che spazzavano ciò che restava dei ponti, la nave affondò lentamente. La “Generale Grant” aveva una barcaccia e altre due scialuppe, decisamente insufficienti per ottanta naufraghi. Quaranta passeggeri si pigiarono nella barcaccia, ma le ondate la fecero capovolgere. Tre sopravvissuto riuscirono a raggiungere le altre due scialuppe sotto le gru laterali. Billy Sanguilly, uno dei membri dell’equipaggio, annotò in seguito:
“A poche persone può capitare di vedere una scena di tale disperazione come quella che noi stavamo vivendo, e un numero ancora minore di persone riuscì a sopravvivere per poterla raccontare. Il mare piombava sulla poppa, spazzando il ponte. Sulla barcaccia sui stiparono tutti coloro che erano riuscirti a mettervi piede. In parte era già piena d’acqua e alcuni poveracci, che erano vicini alla falla, caddero e annegarono prima ancora che la scialuppa abbandonasse la nave. Donne che tenevano stretti loro bambini, uomini che tenevano stretto il loro oro furono visti in balia delle onde quando l’acqua invase i ponti superiori della “Generale Grant”. Uno sciagurato ha visto sua moglie e i suoi due figli fare questa fine senza poter muovere un dito per salvarli, mentre l’ultimo uomo a salire sulla barcaccia ha quasi perso la vita nel tentativo di convincere una madre a salvarsi senza i suoi bambini. Mi trovai all’improvviso a lottare nell’acqua, immergendomi sotto quella gente, cercai di nuotare quanto più lontano possibile e quando riemersi vidi che potevo farcela a raggiungere le altre scialuppe. Solo tre persone, delle quaranta che si erano accalcate sulla barcaccia, riuscirono a raggiungerle. Gli altri lottarono per qualche istante, poi finì tutto.”
Quando la “Generale Grant” colò a picco, affogarono sessantacinque persone. Molti dei minatori portavano indosso le pepite e la polvere d’oro in borse di fortuna, il peso dei loro tesori non dette loro scampo. Le donne, secondo l’uso dei tempi, indossavano gonne voluminose e sottogonne, che rifiutarono di togliersi. L’acqua di mare inzuppò i tessuti e le sfortunate affogarono per il peso dei loro abiti. Alla fine i superstiti furono solo quindici, suddivisi in due piccole scialuppe.
In una c’era una donna. Il capitano Loughlin affondò insieme alla sua nave. Quando le due scialuppe abbandonarono la caverna, le ripide scogliere dell’isola che si stendevano da nord a sud, sembravano non permettere alcun approdo, né la possibilità di trovarvi rifugio. Venne convenuto quindi di fare rotta verso la Disappointment Island, a circa quindici miglia a nord-ovest. Dopo undici ore trascorse a remare, i naufraghi erano sfiniti e decisero di fermarsi su di un’isoletta rocciosa e di trascorrervi la notte. La mattina seguente il mare era piatto e riuscirono quindi a passare intorno all’estremità nord dell’isola più grande che si trova più vicino a Sarah’s Bosom, chiamata così da “Sarah”, la nave che era appartenuta allo scopritore dell’isola, il capitano Abraham, che l’aveva scoperta nel 1806. Era l’isola di Auckland.
I superstiti riuscirono a costruire dei ripari utilizzando gli arbusti e con l’erba. Abbondavano le otarie e gli uccelli marini, che fornivano la carne fresca. Un membro dell’equipaggio aveva pochi fiammiferi; solo uno era abbastanza asciutto per dare fuoco al’esca. Una volta rifocillati, i naufraghi sentirono rinascere le speranze di sopravvivere. Dopo alcuni mesi Bartholomew Brown, primo ufficiale della “Generale Grant”, decise di tentare di raggiungere la Nuova Zelanda, a 300 miglia a nord. Prese con sé altri tre uomini e partì con delle provviste di carne affumicata di otaria, uova di uccello, e acqua conservata nella vescica delle otarie, rinforzata dalla pelle dell’animale. Dato che non c’erano a disposizione né carte, né strumenti, sapevano solo che avrebbero dovuto navigare basandosi sui punti stimati. Il 22 gennaio 1877 i quattro uomini lasciarono Sarah’s Bosom e di loro non si seppe mai più nulla. Brown non aveva compreso quanto i venti dominanti, le maree e le correnti avrebbero spinto la loro piccola imbarcazione verso le desolate regioni del Bacino dell’Australia Meridionale. David Asworth, uno dei superstiti, avrebbe scritto in seguito alla famiglia di uno dei dispersi, raccontando del loro coraggio:
“Eravamo uniti da un legame che solo coloro che hanno sofferto insieme possono avere. La nostra sola speranza di salvezza – insieme alla Provvidenza di Dio – era proprio la piccola scialuppa e quattro uomini coraggiosi che si offrirono volontari. Non si può descrivere quella scena. Il Vostro caro fratello era convinto – più degli altri – che partire fosse una buona idea, e fu per tutti un fulgido esempio di fede, coraggio e pazienza nel sopportare le sofferenze che Dio, nella Sua saggezza, ci aveva inflitto… Noi eravamo poche creature, logore, disperate, ciò che restava dell’equipaggio di una bella nave, attorniate da pericoli di ogni sorta.”
Mano mano che le settimane si trasformavano in mesi gli abitanti dell’isola iniziarono a soffrire di scorbuto e David McLelland, il marinaio più anziano, si tagliò la mano e morì per l’infezione che ne seguì. Il 21 novembre 1867 venne avvistata una nave e vennero accesi dei segnali di fumo. Il capitano Gilroy dell’”Amherst”, al suo primo viaggio alle Isole Auckland, stava cercando un posto per ormeggiare. Stava cacciando le otarie e scoprì i dieci che erano sopravvissuti per ben diciotto mesi al naufragio della “Generale Grant”».
Tutta la costa occidentale dell’isola Auckland, battuta dai venti occidentali, è alta e rocciosa, interamente dritta e uniforme; mentre quella orientale, sottovento, sembra appartenere a un altro mondo: pullula letteralmente di baie e di rientranze, anzi, di veri e propri fiordi, che incidono l’isola così profondamente da tagliarla, quasi, in una gran quantità di sezioni longitudinali. In breve, chi giunge all’isola dai due opposti versanti, ha quasi l’impressione di trovarsi in presenza di due regioni del tutto diverse, con prati fioriti e rigogliose foreste di alberi non alti – perché qui siamo al limite australe della vegetazione arborea -, ma robusti e dal fittissimo intreccio, sulla costa che guarda a levante; mentre su quella di ponente la catena montuosa interna precipita bruscamente verso il mare, rendendo pressoché impossibile l’approdo, a causa degli alti fondali. Fu una vera sfortuna che la «General Grant» giungesse davanti all’isola da questo lato, senza possibilità di manovrare con le vele per l’assenza del vento; così come fu una disdetta quasi unica la bonaccia che la sorprese nel momento meno opportuno, proprio davanti a quella terra, su di una rotta che non avrebbe più presentato terre emerse e neppure scogli per migliaia di miglia, fino al lontanissimo Atlantico. A ciò si aggiunse il fattore imponderabile della nebbia, che fece sbagliare al capitano la stima della posizione in cui la nave si trovava.
Come esperimento di sopravvivenza in quelle estreme terre meridionali, si può dire che l’avventura dei naufraghi del «General Grant» fu un discreto, benché involontario e doloroso, successo. Dieci uomini su quindici, due terzi del totale, riuscirono a sopravvivere a un inverno, una estate e un altro inverno australi, in condizioni pressoché proibitive e senza poter utilizzare né il legname, né, tanto meno, gli attrezzi che avevano lasciato a bordo, a cominciare dalle esche per accendere il fuoco. Ciò di cui soffrirono maggiormente furono le conseguenze dello scorbuto, la malattia provocata dalla carenza di vitamina C, dovuta alla totale mancanza di frutta fresca e specialmente di agrumi e alla dieta esclusivamente carnivora. Contro di esso non c’era rimedio e anche gli organismi più robusti dovettero sopportarne gli effetti assai debilitanti.
La bellezza selvaggia dell’isola, l’ambiente assolutamente incontaminato e le incandescenti aurore polari, per cui è famosa quell’area a mezzogiorno della Nuova Zelanda (visibili anche dall’isola Stewart, il cui nome maori, Rakiura, significa «cieli fiammeggianti»), furono di magro conforto per quegli uomini, che avevano perduto nel naufragio parenti ed amici, oltre che tutte le loro ricchezze, e che cominciavano a disperare di essere mai salvati e restituiti alla vita civile.
Quanto all’oro che la nave trasportava – oltre a quello dei minatori, forse vi era anche un carico governativo sotto forma di lingotti, ma tale ipotesi non ha trovato positive conferme – va detto che esso non è mai più stato ritrovato; e questo nonostante che si siano avvicendate diverse spedizioni con il preciso obiettivo di localizzarlo e recuperarlo. Anzi, nemmeno il relitto è mai più stato individuato: neanche un po’ di fasciame, neanche qualche oggetto della «General Grant» è mai stato visto, a dispetto del fatto che le prime spedizioni di ricerca siano state effettuate fin dall’anno successivo al salvataggio dei naufraghi, per iniziativa di alcuni di questi, e nonostante la notevole limpidezza dei fondali presso la dirupata costa occidentale dell’isola Auckland, ove ebbe luogo il naufragio. È come se non solamente l’oro, ma la stessa nave che lo trasportava, si siano volatilizzati nel nulla.
Un bel rompicapo per gli amanti dei misteri.
Il mare, ancora una volta, ha saputo essere geloso custode dei suoi segreti.
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Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.
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