Tenebrosi lumi

1794. Il Terrore giacobino imperversa per le strade di Parigi annunciato dal sinistro sibilo della ghigliottina e, in una gelida notte d’inverno, un gruppo di sanculotti rapisce l’anziano pittore François Corentin per affidargli un compito estremamente delicato: dipingere i membri del Comitato di Salute Pubblica, il famigerato consiglio privato presieduto da Maximilien Robespierre che ufficialmente non esiste, dato che nessuno sa con esattezza chi ne siano i componenti, ma di fatto è il governo ombra della nuova Francia. Nelle segrete della chiesa di Saint Nicholas des Champs l’allievo di Tiepolo attende febbrilmente alla titanica impresa ed immortala sulla tela il vero volto della Rivoluzione: un’assemblea di eroi fratelli che sono in realtà dei mostri, delle divinità sanguinarie autoproclamatesi tali dinnanzi al cadavere decapitato di Luigi XVI. Può un’assemblea sorretta dalla volontà popolare esercitare il potere in maniera dispotica e ledere le libertà individuali quanto un tiranno?

Sembra esserne convinto in maniera incrollabile lo scrittore Pierre Michon. Classe 1945, autore pluripremiato, ben accetto nei salotti buoni della Rive Gauche che se ne contendono i favori e pertanto in alcun modo imputabile agli occhi dei corifei della cultura dominante di caldeggiare viete posizioni revisioniste, non ha tuttavia timore di smascherare i lati in ombra del dogma giacobino, forse perché, a differenza del collaborazionismo e dell’epopea di Vichy che sono considerati ancora tabù, si tratta di un episodio collocato rispetto ai contemporanei in una posizione sufficientemente lontana nello spazio e nel tempo per poterne parlare con disincanto se non con serenità. Ma questa è una mia cattiveria, verso la quale spero che i lettori si mostreranno indulgenti.

Dopo aver tratteggiato nelle pagine dello stregonesco racconto La Grande Beune (apparso Oltralpe nel 1995 e da noi l’anno scorso nel prestigioso catalogo Adelphi) il profilo arcaico e senza memoria dell’altra Francia, quella profonda, sanfedista, superstiziosa, contadina e vandeana, che sotto la superficie di una formale accettazione degli ideali repubblicani sopravvive a dispetto delle ingiurie del presente, nel romanzo Gli Undici Michon affronta il tema sempre attuale del 1789 e ci restituisce con realistica efficacia le atmosfere cupe di quell’epoca shakespeariana, tragico punto di non ritorno, inquietante paradigma orwelliano di tutti i futuri possibili. La presa della Bastiglia ed il rovinoso crollo dell’Ancien Régime che ne è seguito, con la complessa e ramificata impalcatura di ideali aristocratici e privilegi di casta ad esso legati, sono – piaccia o meno – entrati di prepotenza a far parte dell’immaginario simbolico occidentale e, dato che in Francia come ovunque nel mondo il passato fatica a passare, con buona pace delle anime candide, a distanza di tre secoli ancora tormentano il nostro subconscio, evocando suggestioni e suscitando accesi dibattiti. Un quesito irrisolto riposa nella parte più nascosta di questo agile scritto che nel suo stile sotterraneo, umbratile e tellurico non disdegna più di qualche concessione a Barbey d’Aurevilly e Villiers de L’Isle – Adam, paladini incompresi della radicata e feconda tradizione dei racconti crudeli: Pierre Michon sembra domandarsi quale sia stata l’effettiva portata di quell’evento epocale. Si è trattato, come volevano Jules Michelet e Victor Hugo, della tumultuosa irruzione sul palcoscenico della Storia di giovani forze fino ad allora conculcate, capaci d’infondere con il loro slancio creativo nuova linfa nelle vene esauste della Francia, ponendo in tal modo le premesse per la codificazione di un epos nazionale rinnovato? Oppure la mattanza rivoluzionaria ha tenuto a battesimo la reificazione dell’egualitarismo illiberale, rappresentando l’epifania violenta ed indiscriminata di quella desacralizzazione della politica a suo tempo denunciata con vigore da Joseph de Maistre sulla quale la Modernità ha innalzato i propri lugubri simulacri nutrendo di vite umane lo spirito di rivalsa dei diseredati?

Come dimostra la bellissima (e caldamente consigliata) biografia di Saint – Just data alle stampe nelle scorse settimane da Stenio Solinas per l’editore vicentino Neri Pozza, la questione è più che mai aperta e vitale. Nell’offrire il proprio contributo per nulla banale all’inesausta diatriba, Pierre Michon pare voler suggerire, forse sulla scia della profetica lezione di compatrioti illustri come Alexis de Tocqueville e Chateaubriand, che la verità, come spesso accade, risiede altrove. Se la Rivoluzione ha inferto senza dubbio il colpo di grazia al Medioevo morente, facendo tabula rasa di un meccanismo sociale ormai sclerotizzato che, nato dal diritto delle armi, ha assunto strada facendo la fisionomia perversa di un privilegio ingiusto e alla fine di un sopruso inviso, nondimeno il volto altero e tempestoso della Marianna rivela una sostanziale comunione d’intenti con il tanto esecrato assolutismo monarchico del quale ha sancito con troppa leggerezza la condanna a morte nella politica accentratrice e statolatrica che, intrapresa dal Comitato di Salute Pubblica per ragioni d’emergenza sanitaria come si direbbe oggi, ha poi condotto, in un crescendo dall’esito inatteso e a suo modo beffardo, Napoleone Bonaparte sul trono. Come in una sorta di mutazione alchemica, nella sua furia iconoclasta il demone rivoluzionario si è tramutato nel proprio opposto, finendo per divorare senza alcuna pietà gli stessi che lo hanno evocato, primo fra tutti Robespierre. Dall’oscurità magmatica nella quale è rimasto troppo a lungo rinchiuso lo spirito del tempo si è librato ad ali spiegate sul mondo e, al suo seguito, sono poi comparsi in rapida successione gli Stati nazionali e la leva di massa, gli insanabili odi di parte che hanno alimentato le guerre mondiali, la mobilitazione totale preconizzata da Ernst Jünger a fondamento dei totalitarismi ideologici, con la loro pretesa di palingenesi immanente così illuminista nella sua ansia omnicomprensiva. In altre parole dal cuore di tenebra della Rivoluzione francese è scaturito il Novecento, lunghissimo secolo breve che ci illudiamo di aver lasciato alle nostre spalle. Esiste forse qualcosa di più attuale?


Pierre Michon, Gli Undici, Adelphi, Milano, 2018; pag. 134 € 16,00.

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