Straziami, ma di frustate saziami…

La sola immagine coeva e sicuramente autentica che si conosca di lei, un quadro di anonimo fiammingo attualmente conservato al Kunstmuseum del Palazzo di Schönbrunn a Vienna, la ritrae, giovanissima, ai tempi in cui fu data in sposa a Ferenc Nadasdy, con i capelli raccolti dietro la nuca da una rete di perle, secondo la moda francese dell’epoca ed il viso, pallidissimo, coronato da un collare rigido di foggia spagnola. Nella convenzionale fissità della figura, lo spettatore non può non restare colpito dallo spettrale bagliore dello sguardo, che tante trasposizioni pittoriche, fumettistiche e cinematografiche successive avrebbe ispirato, involontario riverbero della sua anima tenebrosa. La spaventevole epopea di Erzsébet Bathory, la Dama Nera conosciuta come Elisabetta nell’Occidente latino, colei che amava bagnarsi nel sangue delle fanciulle, rivive oggi nelle pagine del capolavoro di Valentine Penrose (1898 – 1978), La contessa sanguinaria, un classico dell’erotismo punitivo troppo a lungo dimenticato che ora viene finalmente riproposto nel prestigioso catalogo del milanese Studio Editoriale a sessant’anni dalla sua contestatissima apparizione in Francia.

Ostracizzata dalla cultura ufficiale in ragione delle sue scelte di vita controcorrente orgogliosamente esibite, come la chiacchieratissima relazione con la pittrice Alice Rahon, la poliedrica artista che nella sua scapestrata giovinezza fu tra le stelle più luminose della Rive Gauche, amica di Paul Eluard, sodale di Louis Aragon e Pierre Drieu La Rochelle, torna così ad occupare il posto che le spetta di diritto tra i grandi reprobi della letteratura, accanto a Leopold von Sacher Masoch e al Marchese de Sade. Attingendo ai verbali del processo che le fu intentato nel 1610, giunti a noi grazie al resoconto del Padre gesuita Laszlo Turoczi che li diede alle stampe nel 1729, la scrittrice surrealista, seguendo le orme di quanto Georges Bataille aveva fatto a suo tempo per Gilles de Rais, il famigerato Maresciallo di Giovanna D’Arco, stupratore e pluriomicida reso celebre da Charles Perrault nelle vesti di Barbablù, si china sulla sua non meno abominevole eroina e, forte di una prosa tersa e vibrante, inserisce la torbida vicenda di morte e delirio che la vide protagonista nella cornice di un grandioso affresco dell’Ungheria a cavallo tra XVI e XVII secolo.

Una terra selvaggia ed inospitale quella degli ardimentosi e spericolati cavalieri magiari discendenti di Arpad, infestata dalla magia nera e dalla superstizione, dove le fitte foreste di abeti proteggevano dagli esorcismi dei vescovi antichi culti agresti legati ai demoni delle rocce e agli spiriti delle fonti, un mondo ancestrale dove gli istinti più brutali si dibattevano ancora nella nebbia della barbarie primitiva. Lì, all’ombra della contesa corona di Santo Stefano, era nata Erzsébet e nello sbocciare di quel fiore notturno, venuto alla luce sotto gli auspici sinistri della luna piena, si compiva tacitamente il destino della stirpe guerriera dei Bathory: i suoi antenati si erano distinti infatti con feroce, sistematico zelo al servizio degli Asburgo inalberando contro i Turchi l’antico vessillo con i tre denti di lupo. Imparentata con Istvan Bathory, Voivoda di Transilvania e futuro Re di Polonia, legata per via dinastica all’Imperatore Rodolfo II, il lunatico sovrano tante volte evocato nei racconti praghesi di Leo Perutz e Max Brod, ossessionato come lei da una morbosa attrazione per l’occulto, dall’animale totemico della sua schiatta la spietata Erzsébet aveva ereditato l’istinto predatorio che impietosamente riversava sulle sventurate vergini che le venivano offerte in sacrificio.

Come in una discesa agli Inferi penetriamo nelle segrete del castello di Csejthe, inoltrandoci, quasi fosse un romanzo gotico, attraverso lugubri camere di tortura dove, frustate a sangue, mutilate, marchiate a fuoco e poi sgozzate, morirono più di seicento ragazze rastrellate dagli sgherri della Contessa nelle campagne circostanti. Assistiamo attoniti e sgomenti alle allucinanti scene di follia criminale nel corso delle quali Erzsébet Bathory ululava di sadico piacere mente sulle sue spalle veniva fatto scivolare da servi compiacenti il sangue ancora caldo delle sue giovani e inermi vittime, nel quale s’immergeva completamente nuda perché convinta che quelle abluzioni potessero preservare in eterno la sua bellezza. Simbolo di una femminilità androgina che, svincolata dal suo ruolo canonico, rivendica per se stessa una prerogativa ambita, quella dell’esercizio illimitato del potere, tradizionalmente attribuita alla controparte maschile, Erzsébet è senza dubbio una delle più riuscite incarnazioni di un archetipo, la belle dame sans merci di cui parlava Mario Praz in un suo saggio celeberrimo, destinato ad imperitura fortuna letteraria. Nondimeno l’improvvisa morte dell’influente consorte, caduto facendo strage d’infedeli, la privò d’un tratto del favore imperiale che le aveva fin a quel momento garantito l’impunità: arrestata con l’accusa di blasfemia fu condannata ad essere murata viva nei sotterranei della sua dimora, tra i cui ruderi la leggenda vuole che il suo fantasma compaia ancora di tanto in tanto.

Valentine Penrose, La contessa sanguinaria, Studio Editoriale, Milano, 2020; pag. 212 € 22,00.

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