Il lettore delle pagine di questa rubrica di informazione culturale e libraria è cosciente dell’importanza che attribuiamo al lavoro teoretico di Massimo Donà. Abbiamo spesso prestato attenzione alle sue opere in quanto, nel panorama filosofico italiano, egli rappresenta una voce fuori dal coro. La pars construens del suo sistema di pensiero svolge un ruolo “sovversivo” nei confronti delle presunte certezze solari oggi dominanti la scena speculativa, siano esse di derivazione metafisica oppure afferenti all’analitica. Il pensatore veneziano non solo ha strutturato in opere specialistiche il suo “sistema” ma, in un’altra serie di significativi scritti, è andato alla ricerca dei precedenti dell’Altra filosofia di cui è uno dei massimi interpreti. Dopo aver dedicato la sua attenzione, in questo senso, al pensiero di Leopardi (Misterio grande. La filosofia di G. Leopardi, Milano 2014), ultimamente i suoi sforzi si sono diretti all’analisi del teatro di Shakespeare. I risultati conseguiti in argomento sono leggibili nel volume Tutto per nulla. La filosofia di William Shakespeare, da poco nelle librerie per Bompiani (euro 13,00).
Quale importanza attribuisce Donà all’opera del grande drammaturgo inglese? Lo esplicita un aforisma di Cioran scelto ad hoc dal nostro autore “La Verità? È in Shakespeare; un filosofo non potrebbe appropriarsene senza esplodere insieme col suo sistema” (Sillogismi dell’amarezza, Milano 2001). Altra domanda: fondamentalmente, allora, in cosa consisterebbe la verità “sovversiva” resa evidente dal Bardo inglese? Nel fatto che egli, inaugurando profeticamente la modernità, pensò e presentò a beneficio del suo pubblico in uno, sia la “polemicità” del mondo che la dinamicità metamorfica dell’esistere. Da ciò l’incertezza che ha connotato il dibattito critico attorno alla sua stessa effettiva personalità. Shakespeare è letto come colui che, tra il 1588 e il 1613, nel reinventare la prassi teatrale occidentale mise in scena l’impossibile che, come ricorda Donà, può dirsi solo in forma drammatica. Esso, infatti, può dar luogo tanto ad un trionfo quanto ad un naufragio irredimibile. Paradossale situazione questa, data dal fatto che l’universo shakespeariano e le sue complesse connessioni, hanno al fondo “…un principio che, non potendo essere giustificato da nulla, e da nulla per ciò stesso “causato”, dà luogo ad un evento di pura libertà” (p. 58). Per tale ragione, i personaggi centrali del narrato delle vicende del Bardo inglese sono “indifferenti”, si fanno immagine del principio infondato che tutto domina, del nulla. Ciò implica che “bisogna essere disposti ad infrangere ogni legge o rassicurante paradigma” (p. 29), perché tutto sembri possibile.
Nei drammi dell’inglese, analizzati da Donà organicamente ed in modo coinvolgente e partecipato per trarre da essi il contenuto segreto che si mostra nei cenni e nelle allusioni dei personaggi, emerge, come Goethe colse, la confusa varietà della vita, nella quale è altresì rinvenibile una misteriosa unità, un’identità inconsistente. Andrea Emo, del resto, ricorda l’autore, ebbe a dire del drammaturgo “Shakespeare è nascosto nei suoi personaggi; quale di essi è il suo autore? Nessuno sa quale è la certezza, la filosofia di Shakespeare; forse la rinuncia a tutte le certezze. L’assoluto che diviene diversità” (Quaderni di metafisica, Milano 2006). La cosa fu esemplarmente esplicitata da Borges nella risposta che Dio dà al Bardo ne L’Artefice “Neanche io sono; io sognai il mondo come tu sognasti la tua opera, mio Shakespeare, e tra le forme del mio sogno sei tu che, come me, sei tanti e nessuno”. Insomma, ciò che risulta essenziale ed irrinunciabile nella teoresi shakespeariana va individuato nel fatto che il drammaturgo non solo comprese la dimensione polemologica dell’esistente, ma ne individuò anche la causa: l’esser se stessa di ogni vita può trovar conferma solo in qualcosa che dice sempre anche la presenza di un altro. L’identico può riconoscersi solo in relazione al diverso. Le cose non sono mai quel che dicono di essere, il positivo, il determinato è maschera del negativo e dell’indeterminato originario, ed ha la medesima “sostanza” dei sogni. A Shakespeare va attribuito il merito di aver colto come ogni vita si opponga innanzitutto a sé stessa, di aver riportato nei suoi drammi alla luce il tragismo greco, che quel popolo espresse nella paradossale intuizione eraclitea dell’uno-tutto, posto oltre i confini segnati dal principium firmissimum di identità, la cui lusinga viene meno nei narrati vitali dei drammi dell’inglese.
Tale contesa è stata letta, ricorda Donà, da René Girard quale “desiderio mimetico”: ci sentiamo amici e nemici dei nostri simili ma anche di noi stessi. La volizione desiderativa, la nostra azione e presenza nel mondo, ha quindi inevitabilmente il sigillo di tale doppiezza, conseguenza dell’impossibilità di porci in pace presso l’uno o l’altro degli opposti. A trionfare nei drammi di Shakespeare allora è la passione in quanto “complice di quel che è irreale, e si accompagna al nulla” (p. 21). Il nulla come protagonista di un desiderio patito, di un desiderio accettato attraverso il desiderare dell’amato, come si evince in molti luoghi della drammaturgia shakespeariana. Questi ci paiono i pre-requisiti teoretici essenziali per aver accesso al testo di Donà.
Il filosofo veneziano si sofferma in particolare sulle seguenti opere del drammaturgo: Re Lear, Macbeth, Otello, Amleto, Sogno di una notte di mezza estate. Nella prima tragedia viene messa in scena nientemeno che la struttura aporetica del fondamento, che dice l’impossibilità di distinguere “ragione” e “follia”. Si tratta di una radicale messa in discussione della logica diairetica, nel narrato tragico incarnata da Re Lear, che governa la realtà al modo dell’identità, dividendo e distinguendo. Egli inizierà a vedere realmente solo divenendo folle: comprenderà finalmente che l’ordine di cui si era fatto garante era effimera copertura del caos. Il tragico inglese, a dire di Donà, avrebbe qui riscritto, ben oltre le intenzioni di Aristotele, il quarto libro della Metafisica, evidenziando le conseguenze logiche ed esistenziali sottaciute dallo Stagirita. L’incontrovertibilità identitaria, infatti, implica la controvertibilità, come in Re Lear mostra con chiarezza la figlia del Re, Cordelia. La “follia” scioglie così i legami, restituendo il mondo alla danza infinita di Dioniso. La stessa visione si mostra in Macbeth. Le streghe della scena iniziale, con la loro magia, infondano “…il sospetto che quella dell’opporsi da parte degli opposti fosse la più “patetica” e fallace delle illusioni” (p. 90).
Quel che preme conclusivamente rilevare è che Donà dimostra come in tutte le tragedie di Shakespeare “…nei momenti culminanti della narrazione, finisca per sprigionarsi una forza cosmica vocata a mettere tutto in questione…forse si tratta della stessa forza da cui nasce la domanda filosofica; dotata, invero, di una non minore forza eversiva” (p. 105). L’unica potestas atta ad evocare un Nuovo Inizio.
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