Troy, Texas, USA, anno 2004. Oppure Troia, Troade, Asia Minore, XIII secolo a.C.? Trattandosi della famosa città narrata da Omero, evidentemente si tratta di Troia ovvero Ilio, e tutti ne sappiamo qualcosa avendo bene o male studiato e anche tradotto l’Iliade. Ma se dovessimo dar retta a quanto leggiamo sui giornali del prossimo film con Brad Pitt, forse dovremmo pensare che si tratti di Troy, Texas, USA: infatti è così che viene in genere chiamata.
E’ consentito allora rivolgere un accorato appello ai pubblicitari, agli uffici stampa, alle pubbliche relazioni, al cosiddetto marketing delle case di produzione e di distribuzione cinematografica? Siate gentili, siate cortesi, siate umani, sì umani: non trasformateci sui manifesti e locandine anche la città di Ettore, Eurialo, Anchise, Elena e Cassandra, e la guerra che vide le gesta di Achille e di tanti eroi achei e troiani, in un sobborgo del West americano, o in una specie di Brooklyn, dove si svolgono scontri fra pellerossa e cow boy, o fra bande di delinquenti! Oramai tutto viene condito in salsa americana, quasi tutti i titoli dei film, anche i più ovvi, i più elementari, i più banali, i più traducibili come The Mother o The Company non vengono più tradotti, ormai dobbiamo accettare che le vie delle nostre città assomiglino alle vie di una città degli States, va bene, ma per favore, per pietà non lasciate in inglese anche il nome di una citttà dell’Asia Minore! Così come traduceteci, siate gentili, anche il titolo del film che sta per uscire subito dopo quello di Brad Pitt: non Alexander, ma Alexandros o almeno Alessandro Magno…
Altrimenti, cari signori, non sarete molto diversi da coloro i quali, ignorando che si tratta di una parola latina che significa «confine», pronunciano il titolo della ormai nota rivista di geopolitica Limes all’inglese: Laims! No, per carità.
E’ questo un vezzo così stupido e incomprensibile cui sembrerebbe facile porvi fine, e invece al contrario si diffonde sempre più: per conformismo, pigrizia mentale e forse anche per risparmiare sulla stampa dei manifesti, non so. In realtà, non c’è il minimo motivo per non tradurre i titoli inglesi: se si volesse mantenere anche il titolo originale, lo si può mettere come sottotitolo, e qualcuno intelligentemente già lo fa. Se si ama tanto l’idioma della superpotenza, se si vuole diffonderlo sempre più come nuova «lingua franca», allora perché non si sottotitolano i dialoghi? Non è che ci toccherà andare a vedere il controverso film di Mel Gibson, filologicamente parlato in aramaico e latino (con inflessione americana?), con il titolo The Passion? Non sarebbe grottesco?
E’ tanto difficile fermare questo moda idiota e inutile che essa sta contaminando anche le case editrici italiane: ogni tanto infatti si vedono in libreria opere di autori americani e inglesi che conservano i loro titoli originali. Ma perché mai? Per non parlare di opere italiane, soprattutto di narrativa, che anch’esse prediligono titoli in inglese. Ma perché mai? Quale distorsione mentale è dietro a questo fenomeno? Sono gli Uffici Marketing che lo chiedono e impongono? Che cosa pensano di ottenere? E gli uffici editoriali perché si sono adattati a simili pensate? Anche entrando in libreria dovremo avere fra poco la sensazione di vivere a New York o Los Angeles? Non è che si dovrà invocare una legge apposita che obblighi a tradurre il titolo dei film, con sotto quello originale?
Per favore, volete costringerci alla fine a insegnare a scuola che è esistito un «cavallo di Troy», o magari un Troy’s horse?
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Tratto da Il Tempo del 28 marzo 2004.
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