Merritt, il navigatore sulle rotte del mito e della fantascienza

Di tutti i romanzi di Abraham Merritt, il più carico di reminiscenze mitologiche – e, quindi, di simbolismi – è certo Il vascello di Ishtar (The Ship of Ishtar, 1924), il cui impatto sui lettori è dimostrato dall’essere stato considerato, nel corso di un referendum del 1938, il miglior romanzo pubblicato da «Argosy» dall’epoca della sua fondazione (1888).

Oggi ci sembra che l’opera di Merritt conservi ancora intatti il suo fascino e la sua freschezza, conseguenza della stessa matrice mitica – e quindi, per definizione, a-temporale – dei suoi motivi ispiratori.

Questa caratteristica della produzione complessiva dello scrittore americano, non lo si dimentichi, è anche all’origine di moltissime vocazioni letterarie (da Lovecraft a Ira Levin): il senso del meraviglioso che da essa promana, la costruzione di sempre nuovi universi alternativi alla realtà americana degli anni Venti e Trenta, la diretta contrapposizione tra un «mondo sciocco» (l’espressione è dello stesso Merritt) e altri, in cui il mistero, le passioni, l’avventura, l’esaltazione delle facoltà fisiche e intellettuali sono ancora possibili, rende stridente il contrasto con le narrazioni realistiche dello stesso periodo. Narrazioni nelle quali, viceversa, viene raffigurato un mondo da cui (come notano i personaggi de Il vascello di Ishtar) è scomparso il «buon gusto», in cui nessuno fa più il «vichingo», in cui le contese sono divenute «troppo diverse» e in cui, infine, come nota Zubran il persiano, «i nuovi Dei sembrano così sciocchi».

Fra i cinque romanzi dedicati da Merritt alle «civiltà parallele» (gli altri trattano dell’occulto nel mondo moderno), Il vascello di Ishtar è il più radicalmente alternativo, per quanto riguarda l’universo nel quale è ambientato. Il mondo sui cui mari fosforescenti naviga il vascello della Dea babilonese non coesiste con la realtà che conosciamo. Non si trova in caverne sotterranee o sul fondo di vulcani spenti, tra le cime delle Ande o nelle desolazioni dell’Antartide. È un universo parallelo, segue una «linea storica alternativa» (per dirla alla Larry Niven), un tempo diverso da quello della civiltà occidentale del ventesimo secolo.

In più, come s’è detto, è un universo mitologico, retto quindi da criteri magico-simbolici. Di conseguenza (seguendo i concetti espressi per la prima volta da Roger Caillois vent’anni fa) in esso il fantastico è naturale, è nella logica delle cose e dei fatti. Non produce una frattura nella realtà comune, né irrompe creando terrore, angoscia o semplicemente stupefazione: al contrario, assume proprio i connotati dell’insolito, dell’anormale, di circostanza fuori della realtà.

È in questo universo magico-mitico che viene attratto l’archeologo John Kenton. Come? Col metodo, caratteristico di Merritt (…): attraverso la potenza e la suggestione del simbolo. (…)

Nel Canto VI dell’Eneide, Enea, alla ricerca del ramo d’oro che gli consentirà di aprire le porte dell’Ade, viene aiutato da due colombe. Questi uccelli sono sacri alla Dea Venere, ne sono il simbolo: proprio da tale segno l’eroe comprende di essere aiutato dalla sua genitrice divina. Fuor di metafora, si può dire che il simbolo è un «segno di guardia», che indica la via conducente dall’umano al divino e individua la strada dell’elevazione spirituale. In questo senso, il suo valore (come hanno riconosciuto mitografi e studiosi delle religioni) è pressoché universale. Parlando di Ishtar, che è in certa misura il corrispettivo di Venere nella mitologia babilonese, lo stesso Merritt le assegna come animali sacri le colombe, la cui apparizione annuncia la presenza operante della Dea.

Questo riferimento vale anche a dimostrare come (non sappiamo se consapevolmente o meno) lo scrittore americano abbia impiegato il valore del simbolo nel senso additato dalle tradizioni mitico-religiose. In effetti, il più antico testo magico occidentale, la Tavola di Smeraldo, attribuito a Ermete Trismegisto, evidenzia il collegamento tra realtà umana e realtà superiore, microcosmo e macrocosmo: «Ciò che è in alto è come ciò che è in basso, e ciò che è in basso è come ciò che è in alto, a fare il miracolo di una Cosa Unica». (…)

L’immagine dominante del libro di Merritt, in cui è racchiusa più efficacemente la sua sensibilità nei confronti dell’universo mitico, è il vascello di Ishtar, la mistica nave che trasporta al di là della condizione umana il suo carico d’immortali. Il vascello e tutti i suoi significati sono racchiusi però anche nel suo simbolo, il gioiello d’avorio ed ebano donato a Kenton, l’archeologo. Basta contemplarlo per immergersi nell’altra realtà. In diverse approssimazioni, Merritt scrive: «Sotto di lui il mare azzurro in movimento, sopra, la prua curva come una scimitarra del vascello di Ishtar. Non era più un modellino di gemme. No! Era la nave incantata che viaggiava in quello strano mondo» (cap. XVI); «Kenton comprese che la nave d’ombra era l’imbarcazione vera, mentre il ninnolo foggiato sull’altare ne era il simbolo! Capì che simbolo e realtà erano una cosa sola, vincolati da una saggezza ancestrale, creati da antichi poteri in modo che alle disgrazie e alle fortune dell’uno corrispondessero quelle dell’altro. Una duplice forma: un simulacro e una realtà. Eppure uno!» (cap. XXXII); «La sorte della vera nave si rifletteva nel manufatto che ne era il simbolo!» (cap. XXXV). Parole che, come si è detto in precedenza, sembrano veramente adombrare nel giornalista-scrittore americano una conoscenza del valore effettivo del simbolo.

Tratto, col gentile consenso dell’Autore, da Il Giornale del 13 gennaio 2018.

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Giornalista, vicedirettore della cultura per il giornale radio RAI, saggista ed esperto di letteratura fantastica, curatore di libri, collane editoriali, riviste, case editrici. E' stato per molti anni presidente, e successivamente segretario, della Fondazione Julius Evola.

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