Percorsi incrociati

Qualche giorno fa un amico di antica data al quale ho fatto dono del saggio Sulla Russia di Ivan Aleksandrovic Il’in (1883 – 1954), fresco di stampa per i tipi della casa editrice Aspis, conoscendo i miei trascorsi (anche se sarebbe più corretto definirli percorsi, dato che il passato sempre si rinnova) di militanza nell’ambito della Destra radicale si è detto stupito di come possa districarmi con noncuranza tra la lettura di Céline e La Rochelle e l’occhio sacro della Rivelazione evocato dallo scrittore russo senza avvertire per questo la benché minima contraddizione e trovandomi sempre – parole sue – perfettamente a casa mia. Nella sua estemporaneità, l’attonita e un po’ apprensiva osservazione è indice di quanto la guerra attualmente in corso ad Est abbia generato, anche in persone culturalmente ben attrezzate, dei cortocircuiti psicologici, disarticolando vecchi schematismi pavloviani e creando per reazione, secondo il principio alchemico del solve et coagula, nuove sintesi e sinergie inaspettate.

La rabdomantica intuizione di Camilla Scarpa, rediviva Dolores Ibarruri, di strappare all’oblio un pensatore pressoché sconosciuto alle patrie lettere e tuttavia indispensabile per comprendere nel profondo il russkij mir, ci offre l’opportunità di fare un po’ di chiarezza sul tema sempre spinoso delle appartenenze e dei relativi schieramenti. E’ inveterata e radicatissima convinzione della storiografia ufficiale che i grandi totalitarismi del Novecento abbiano operato secondo una conventio ad excludendum, rappresentando, tanto sul piano concettuale ed ideologico che su quello della prassi, ciascuno la negazione dell’altro.

In realtà, come ha osservato a suo tempo Curzio Malaparte, illustre testimone diretto del ciclopico scontro, Nazionalsocialismo e Bolscevismo si sono divorati a vicenda perché diversamente uguali. Identica è la concezione di matrice hegeliana dello Stato inteso come antemurale alle pulsioni distruttive del capitalismo finanziario che, lasciato a se stesso, tende per sua natura a fagocitare il corpo sociale, come pure speculare è il prometeismo insito nell’idea di poter operare in controtendenza rispetto all’andamento prevalente della Storia per modificarne il corso, laddove la mobilitazione totale evocata da Jünger viene additata da entrambi i sistemi quale unica possibile palingenesi immanente atta a colmare il vuoto metafisico generato dalla morte di Dio. Se nella riflessione di Il’in, che sceglie la Germania quale luogo del proprio esilio all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre, questo volontarismo, figlio dei tempi nuovi, si salda alle suggestioni escatologiche derivate dell’Ortodossia, assumendo i tratti di un’utopia regressiva che vede nella Russia il risultato della mistica comunione tra lo Zar ed il suo popolo, secondo una chiave di lettura innervata da tempo nella mentalità russa che riecheggia Merezkovskij e Solov’ev, non è difficile ravvisare, al di là delle differenze formali e terminologiche, più di qualche essenziale affinità tra le sue argomentazioni e quelle poste in essere da pensatori come Ustrjalov, Trubeckoj e Berdjaev che, nel delineare la fisionomia del patriottismo sovietico, insistono sugli elementi di continuità tra l’Autocrazia dei Romanov ed il presente bolscevico, cogliendo nel Comunismo nient’altro che una dinamica di modernizzazione del Paese, dietro la quale pulsa ancora e sempre il cuore antico della Russia arcaica ed eterna, la stessa Santa ‘Rus alla quale Stalin fa appello nel chiamare il popolo alla difesa di Stalingrado.

A dispetto di certi manicheismi semplicistici, non si può non rilevare che entro il medesimo orizzonte culturale e simbolico si muovono – incredibile dictu – anche quegli esponenti della Rivoluzione Conservatrice tedesca i quali, nei travagliati anni di transizione dalla Repubblica di Weimar al Terzo Reich, guardano all’Unione Sovietica come ad un modello di riferimento, senza per questo contravvenire agli obblighi dell’etica prussiana. Paradigmatica a questo riguardo è l’originale analisi di un altro filosofo dimenticato, Walter Schubart (1897 – 1942), che in un’opera enigmatica come L’Europa e l’anima dell’Oriente prospetta la necessità di conciliare il titanismo tecnocratico e razionalista dell’anima faustiana con le vertiginose altezze e le abissali profondità della religiosità ortodossa, in un’ardita sintesi, che certo non sarebbe dispiaciuta ad Ivan Il’in, nel segno di due numi tutelari di rango come Nietzsche e Dostoevskij.

Se questo inaspettato connubio non ha posto le basi per la creazione di un blocco continentale alternativo alla talassocrazia anglosassone, secondo la lezione aurea di Schmitt e Haushofer, la causa è da ricercarsi in prima istanza nella miopia geopolitica dei Tedeschi che, accecati dal loro sciovinismo e da un pregiudizio antislavo di matrice ottocentesca, si sono lanciati nella folle impresa dell’Operazione Barbarossa, contravvenendo ai patti e alimentando nel contempo la malapianta del nazionalismo ucraino che, tornato oggi alla ribalta della cronaca quale fattore d’instabilità, ha infranto, forse in modo irreparabile, l’unità dell’ecumene panrusso. Parafrasando il mai sufficientemente citato Pierre Drieu La Rochelle, potremmo dire che non hanno saputo insegnare l’Eurasia.

Ivan A. Il’in, Sulla Russia, Aspis Edizioni, Milano, 2023; pag. 120, € 20,00.

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