Knut Hamsun era, nel 1940, una specie di monumento nazionale della sua patria, la Norvegia. Era il suo scrittore vivente più illustre, conosciuto in tutto il mondo; dopo il drammaturgo Ibsen e dopo il pittore Munch, nessun altro artista norvegese aveva raggiunto la sua fama, la sua popolarità. Per di più era – o passava per essere – un ardente nazionalista; di conseguenza si era compiaciuto di posare a poeta-vate, ad araldo dei valori patriottici: un po’ come D’Annunzio in Italia, al quale lo lega la comune appartenenza al clima letterario del Decadentismo.
Hamsun (il cui vero nome era Knud Pedersen) era nato a Lom, presso Gudbransdal, il 4 agosto del 1859; all’inizio della seconda guerra mondiale aveva, quindi, la bella età di ottant’anni compiuti. Era diventato quasi sordo e con la moglie Marie Andersen, una ex attrice che per lui aveva detto addio alla carriera, e che gli aveva dato tre figli, esisteva un clima da “danza macabra”, un po’ come in Scene da un matrimonio di Bergman: odio-amore, ma più odio che amore. Semplicemente, erano troppo vecchi per pensare a dividersi (anche se lei era assai più giovane di lui) e, ormai, la frustrazione e il rancore repressi li tenevano insieme al posto dell’amore, che se n’era quasi tutto andato fin dai primi anni di vita in comune. Marie, inoltre, era una simpatizzante nazista sfegatata: nel loro paese era stata l’unica elettrice (in Norvegia esisteva già il suffragio universale, maschile e femminile) a votare per il Nasjonal Samling, il partito filo-nazista di Vidkun Quisling, che vedeva in Hitler una sorta di Wotan della riscossa germanica.
Figlio di contadini (dai quali ereditò un profondo, viscerale amore per la terra), Hamsun aveva esercitato i mestieri più disparati ed era emigrato per due volte negli Stati Uniti d’America – nel 1882-84 e nel 1886-88 -, come tanti europei alla fine dell’Ottocento: in cerca, se non di fortuna, almeno di pane. Ma entrambe le volte, dopo averli girati in lungo e in largo, ne era rimasto totalmente deluso: la società americana gli era sembrata la negazione di tutto ciò in cui credeva, la negazione di ogni valore spirituale, il trionfo delle due cose peggiori che – secondo lui – avesse prodotto la modernità: l’urbanesimo selvaggio e la democrazia come paravento della plutocrazia capitalista. C’era un solo paese al mondo che Hamsun detestasse più ancora degli Stati Uniti, ed era l’Inghilterra: quest’isola di scaltri mercanti e di finanzieri senza scrupoli che avevano mobilitato mezzo mondo contro la Germania per spezzarne la rapida ascesa economica e politica, per tenere l’Europa debole e prona all’invadenza della sterlina. Allo scoppio della prima guerra mondiale, infatti, Hamsun non fece alcun mistero della sua aperta simpatia per la causa della Germania.
Dopo vari tentativi infruttuosi di farsi strada nel mondo delle lettere, Hamsun aveva raggiunto prepotentemente il successo con il romanzo autobiografico Fame, nel 1890, in cui – contro l’ottimismo positivista e il realismo naturalista – aveva rivelato la sua vena decadentistica di scrittore attratto dalla vita dell’inconscio, dal sogno, dal mistero. Nel 1895 aveva consolidato il successo con quello che da molti è considerato il suo romanzo migliore, certo uno dei più suggestivi e poetici: Pan, in cui esalta la mistica unione dell’uomo con la natura e l’incanto quasi paganeggiante di un ritorno alla vita dei boschi, dei monti, del mare, del libero cielo: un po’ il corrispettivo nordico (continuando il paragone con D’Annunzio) de La pioggia nel pineto e, in genere, del fresco e primigenio panismo di Alcyone.
Altri libri avevano ulteriormente diffuso il suo nome, in patria e fuori: il romanzo Misteri, del 1892, in cui si adombra il super-uomo nietzschiano; la raccolta di poesie Il coro selvaggio, del 1904, i cui temi dominanti sono la natura e l’eros; e soprattutto il romanzo Il risveglio della terra, elegia al mondo contadino che va scomparendo, del 1917. Con quest’opera, Hamsun supera la fase del ribellismo anarchico, dell’esaltazione dell’eroe vagabondo e sembra trovare un punto di equilibrio nell’epos del contadino colonizzatore, legato alla terra da un rapporto di amore viscerale in cui – con il senno di poi – alcuni critici hanno voluto vedere le premesse ideologiche di quella mitologia völkisch del “sangue e della terra” che ha costituito una delle componenti dell’utopia regressiva del nazionalsocialismo. Ma la realtà è che nel “panismo” di Hamsun si esalta bensì la terra, ma non la nazione e tanto meno il sangue; dunque, tutta la sua fama di “scrittore nazionalista” è in gran parte frutto di un equivoco. Troppo forte restava in lui la componente anarcoide e antiborghese, perché lo si possa classificare puramente e semplicemente come uno scrittore reazionario; e, se è vero che altri intellettuale di matrice anarchica hanno del pari aderito al fascismo – pensiamo, nel caso dell’Italia, a figure come Lorenzo Viani e Berto Ricci -, è altrettanto vero che ogni caso andrebbe valutato a sé, e il caso di Hamsun è paradigmatico quanto al contesto culturale nel senso più ampio, ma va anche considerato nella sua specifica particolarità.
Ad ogni modo, quando egli pubblica Il risveglio della terra siamo ancora in piena prima guerra mondiale; e la giuria che deve assegnare il Premio Nobel, imbarazzata dalla divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi contrapposti in una lotta all’ultimo sangue, anche di tipo ideologico, cerca i suoi candidati soprattutto fra i letterati scandinavi, per non compromettersi con nessuno dei due blocchi belligeranti (sia la Danimarca che la Norvegia e la Svezia rimangono neutrali per tutta la durata del conflitto). Così, nel 1920, la scelta cade proprio su Knut Hamsun, che viene investito dell’altissima onorificenza. Ha ormai più di sessant’anni e quindi, anche per lui, vale la regola secondo la quale il Nobel, in teoria destinato a incoraggiare, anche finanziariamente, dei giovani autori non ancora del tutto affermati, è divenuto in realtà fin dall’inizio una sorta di riconoscimento tardivo agli scrittori ormai molto avanti nella loro carriera letteraria, se non addirittura avviati sul viale del tramonto.
Negli anni fra le due guerre egli scrive ancora, ma sempre di meno. L’ultima opera significativa è la trilogia formata dai romanzi Vagabondi del 1927, Augusto del 1930 e Ma la vita continua del 1933. Divenuto una sorta di monumento vivente, l’anziano scrittore è ormai la controfigura di se stesso: impersona la gloria letteraria della sua giovane patria e si gode l’ammirazione e il rispetto dei suoi concittadini, dei quali si considera un po’ la guida spirituale.
Ed ecco che scoppia la seconda guerra mondiale e, nell’aprile del 1940, l’esercito e la marina germanici invadono la Norvegia neutrale (insieme alla Danimarca), sia per assicurarsi delle basi navali che le permettano di contrastare l’inevitabile blocco marittimo inglese, sia per garantirsi i rifornimenti di minerali ferrosi che affluiscono, per ferrovia, dalla vicina Svezia, e dei quali l’industria tedesca ha un disperato bisogno per cercar di vincere la guerra. L’esercito norvegese, supportato da un effimero sbarco di truppe anglo-francesi, tenta di resistere; battuto, deve deporre le armi, mentre il sovrano e il governo riparano a Londra. La maggioranza del popolo norvegese subisce l’occupazione come un dramma nazionale e molti giovani fanno la scelta di passare alla lotta di resistenza. Quisling, invece, costituisce un governo collaborazionista che fornisce ogni aiuto possibile ai Tedeschi, come e più di quello di Pétain nella Francia di Vichy.
È allora che Knut Hamsun fa la scelta più grave della sua vita: quella di affiancare il governo di Quisling e, quindi, anche gli occupanti tedeschi. Una scelta drammatica, cui lo spingono sia il suo viscerale odio anti-inglese, sia la sua entusiastica ammirazione per la Germania, dalla quale spera che il suo Paese riceva, a guerra finita, un posto d’onore fra le nazioni “teutoniche”. Ha perfino un colloquio privato con Hitler di più di un’ora, cosa che lo compromette definitivamente agli occhi dei suoi compatrioti. Dei suoi figli, il più grande compie una scelta ancor più radicale e si arruola nelle SS tedesche. Eppure, per tutta la durata della guerra, le famiglie dei giovani partigiani catturati dai nazisti verranno a bussare alla sua porta, per chiedere il suo intervento affinché i loro cari vengano liberati o, almeno, perché sia loro risparmiata la temutissima deportazione in Germania. E lui, vecchio e sordo, già investito da una marea di accuse scandalizzate, d’insulti e maledizioni, fa quello che può, si adopera meglio che gli riesce per quei disgraziati.
L’occupazione tedesca della Norvegia è lunghissima (ne ha dato una versione, a suo modo, lo scrittore americano John Steinbeck nel romanzo La luna è tramontata: non una delle sue cose migliori) e si conclude solo al termine del conflitto, nel maggio del 1945: è l’ultimo angolo d’Europa che vede ammainare la svastica, dopo ben cinque anni dal primo sbarco ad Oslo e nei fiordi di Trondheim e Narvik.
E arriva, puntuale, inevitabile, il momento della resa dei conti. Quisling è processato e fucilato per alto tradimento, e anche Hamsun viene arrestato e processato. Vecchio di ottantasei anni, quasi completamente sordo (e il suo orecchio aperto sul mondo è proprio quello della moglie Marie, la fervida nazista), egli deve rispondere, alla sbarra, dell’imputazione più grave per un cittadino-patriota: collaborazione col nemico invasore. L’ammirazione dei suoi connazionali è svanita, al suo posto è subentrato un disprezzo implacabile, un ostracismo totale: moralmente, egli è già stato condannato ancor prima che gli avvocati, della difesa e dell’accusa, aprano bocca. Il pubblico ministero gli fa capire chiaramente che egli potrà ridurre i danni al minimo se accetterà, dopo una perizia psichiatrica, la formula dell’incapacità di intendere e di volere: una soluzione “pulita” e abbastanza elegante, anche se terribilmente ipocrita; quella, per intenderci, che viene collaudato con l’altro insigne poeta compromesso col fascismo, l’americano Ezra Pound. Ma Hamsun rifiuta con sdegno: orgoglioso com’è, e come è sempre stato, respinge un simile, umiliante ripiego. Se dovrà essere condannato, almeno avrà affrontato il suo destino a viso aperto: egli non è pentito, non intende chiedere scusa o perdono; non vede di che cosa debba vergognarsi. Ai suoi giudici domanda, imperterrito: “Volete fucilare il vostro vecchio poeta?”. Ed è questo atteggiamento, fiero e intransigente – che in altri tempi era molto piaciuto ai suoi tanti ammiratori, e specialmente ai giovani – che ora gioca contro di lui. Sbagliare è umano, pensano i bravi Norvegesi nel 1945, ma perseverare è diabolico. Visto che non si pente, non merita alcuna indulgenza, alcuna attenuante: anzi, proprio perché era un prestigioso intellettuale, proprio perché era il poeta-vate del suo popolo, la sua colpa è tanto più grave. È una colpa imperdonabile: c’è voglia di durezza, dopo gli anni cupi dell’occupazione.
A rendere ancora più grave la posizione dello scrittore c’è il fatto che egli non ha mai dubitato di Hitler; fino all’ultimo ha visto in lui il generoso artefice di un’Europa profondamente rinnovata nel segno del germanesimo. Ancora il 7 maggio 1945, dopo la caduta di Berlino in mano ai Sovietici e il doppio suicidio di Hitler e di Eva Braun, egli aveva scritto per il defunto dittatore un commosso necrologio (cfr. l’introduzione a K. Hamsun, Pan, Milano, Mondadori, 1981, p. 16), in cui lo definiva:
“campione di giustizia… figura di riformatore fra le più grandi, il cui destino storico è stato quello di battersi in un’età di inaudite barbarie, che ha finito per travolgerlo”.
A ben guardare e col distacco che è possibile solo oggi, a oltre sessant’anni di distanza – e che non è un vantaggio da poco – il processo a Knut Hamsun è stato il processo emblematico a tutta una cultura, a tutto un mondo, a tutta un’Europa. Abbiamo accennato al caso di Ezra Pound, che dalla radio italiana auspicava la vittoria di Mussolini e di Hitler e la sconfitta della sua madrepatria. Ma si potrebbero fare parecchi altri nomi illustri: da Giuseppe Ungaretti a Giovanni Gentile, da Céline a Drieu la Rochelle, da Heidegger a Carl Schmitt, da Mircea Eliade a Petr Nikolaevic Krasnov. La verità è che furono molti gli intellettuali che si schierarono dalla parte dell’Asse, e che non furono pochi gli Europei che considerarono preferibile la vittoria di Berlino, Roma e Tokyo a quella di Londra, Mosca e Washington. Oggi questa verità non piace, e nel 1945 piaceva ancora meno. Perciò non si parlava dei milioni di Russi, di Croati, di Slovacchi, di Ungheresi, di Romeni, di Finlandesi che si erano battuti, fin quasi all’ultimo, per la vittoria di Hitler e Mussolini; e non si parlò affatto delle tremende rappresaglie che Stalin, Tito ed altri governi dell’Europa post-bellica si presero su quei “traditori”. Erano diventati traditori perché l’Asse aveva perduto la guerra, ma sarebbero stati ricordati come eroi se l’avesse vinta.
E non si trattava solamente di fervidi nazisti. Croati e Slovacchi, ad esempio, lottavano puramente e semplicemente per l’indipendenza della loro patria; e così i Finlandesi. I Russi “bianchi” avevano combattuto per poter tornare nella loro patria, lasciata con infinita tristezza dopo l’avvento del potere bolscevico. Gli Italiani che avevano seguito Mussolini nella tragica avventura di Salò, poi, in molti casi avevano creduto di rappresentare l’onore della patria, compromesso dall’armistizio di Badoglio e dal cambiamento di fronte, nel settembre del 1943. Ed è certo che molti fascisti del periodo repubblichino non furono né i peggiori del regime, né degli opportunisti. I Cianetti, i Pavolini, i Bombacci sapevano che la loro era una battaglia perduta. Molti erano personaggi di secondo piano o ex pezzi grossi che il regime aveva relegato nell’ombra, dopo essersi trasformato in una dittatura conservatrice di vecchio stampo. Ma alcuni ex fascisti di sinistra, alcuni nostalgici di Piazza San Sepolcro, del fascismo rivoluzionario delle origini, c’erano ancora, e furono quelli che scelsero di andare a morire con il Duce. Si erano illusi fino all’ultimo di poter far rivivere il fascismo della prima ora, anticapitalista e antiborghese, e avevano cercato di spingere Mussolini ad affrettare le nazionalizzazioni della grande industria. Gli altri, i fascisti in doppio petto, i cinici parassiti del ventennio, erano spariti come nebbia al sole dopo il 25 luglio del 1943. In gran parte si salvarono, ma senza onore; e più di qualcuno riuscì a riciclarsi nell’Italia repubblicana e democratica del dopoguerra, senza alcuno scrupolo di coscienza. È altrettanto vero che nella Repubblica di Salò non mancarono le figure dei violenti, dei sadici, dei criminali: quando mai un regime arrivato al crepuscolo ha potuto esprimere le sue qualità migliori? Ad ogni modo, noi oggi siamo in grado di apprezzare delle sfumature, di operare delle distinzioni, che nell’immediato dopoguerra passarono del tutto inosservate: si voleva fare giustizia sommaria, purificare nel sangue il ricordo terribile degli anni della guerra.
Né va dimenticato che molti, in Europa, anche fra gli intellettuali, avevano espresso giudizi lusinghieri su Mussolini e anche su Hitler, quando ancora le loro stelle brillavano alte e la tragedia del secondo conflitto mondiale non ne aveva offuscato la fama. Nella maggior parte dei casi, essi cercarono poi di far dimenticare tali apprezzamenti (compreso quel Winston Churchill che, a suo tempo, aveva parlato in termini così calorosi ed elogiativi del fascismo e del suo Duce). Era in atto una grande rimozione della memoria storica; e le folle che avevano applaudito il Duce affacciato al balcone di Palazzo Venezia, il 10 giugno 1940 (e che ancora lo avevano applaudito al Teatro Lirico di Milano, solo pochi mesi prima della fine della guerra), ora non ricordavano più, non volevano ricordare. Preferivano saziare lo sguardo con altri spettacoli, come quello di Piazzale Loreto, con i corpi di Mussolini, della Petacci e dei gerarchi appesi a testa in giù al palo di un distributore di benzina.
Altri intellettuali europei, più onesti con se stessi, non ritrattarono e confermarono quei giudizi anche in anni successivi, quando la cosa era assai più malagevole. Per citarne uno solo fra tutti, possiamo ricordare il caso dello scrittore spagnolo Manuel Iribarren, che nel suo libro Los grandes hombres ante la muerte (traduzione italiana I grandi davanti alla morte, Alba, Edizioni Paoline, 1957, p. 430-432) scrive:
“Nella morte di Hitler, concorrono circostanze terribili, che la convertono in una paurosa tragedia moderna, di fronte alla quale impallidisce il fantasma di Macbeth. Hitler, volontariamente chiuso nei sotterranei della Cancelleria, ultimo baluardo della resistenza tedesca, non può sfuggire al suo crudele destino. L’esercito russo sta chiudendo Berlino in una morsa inesorabile; e le sue bombe, messaggere di distruzione e di morte, piovono da ogni lato. Due idee lo sostengono fino al’ultimo istante: l’idea che «ogni sconfitta può essere madre d’una futura vittoria», e quella di morire in difesa della civiltà occidentale.(…)
“Hitler manifestò il proposito d’uccidersi, e giunse in effetti a uccidersi, non per paura della morte, ma per rispetto a quello che rappresentava la sua persona. Egli era il capo d’un popolo grande ed eroico, e doveva impedire che i nemici della Germania profanassero la sua dignità. Questo nobile atteggiamento richiama alla memoria quello del re Saul che, morti i figli e a punto di cadere egli stesso nelle mani dei suoi nemici, dice allo scudiero: «Sfodera la spada e uccidimi, affinché non vengano questi incirconcisi a uccidermi e a schernirmi».
Ma nel 1945 nessuno aveva voglia di fare troppe distinzioni, di andar tanto per il sottile. La vittoria era andata alla parte giusta, i malvagi avevano perduto e ora dovevano render conto dei loro atti. Il genocidio degli Ebrei e degli Zingari, le atrocità delle SS, le rovine in cui era piombata l’Europa chiedevano vendetta; ed era giusto. Ma nessuno parlava dei massacri di Katyn, dei 10 milioni di Russi periti nella collettivizzazione delle campagne voluta da Stalin; nessuno parlava della pianificazione della distruzione delle città tedesche voluta da Churchill; nessuno delle atomiche sganciate su due indifese città giapponesi piene di vecchi, donne e bambini. Nessuno parlava delle decine di migliaia di ustascia e di cetnici che le forze di Tito fucilavano e facevano sparire; nessuno parlava delle foibe, nemmeno in Italia. Si voleva che i buoni fossero tutti da una parte, e i cattivi tutti dall’altra. Solo a prezzo di una tale semplificazione si pensava di poter girare pagina, dimenticare l’orrore di quei sei anni di guerra, tentar di ricostruire un’Europa migliore, un mondo nuovo.
Le ferite erano troppo fresche, Marzabotto, Lidice, Oradour erano tropo recenti. Auschwitz, Buchenwald e Dachau erano ancora rossi di sangue innocente. Qualcuno doveva pagare: anche un poeta sordo e quasi novantenne che i suoi connazionali avevano tanto amato, del quale erano stati tanto orgogliosi e al quale si erano poi rivolti, per cinque anni, per chiedergli di intercedere a favore dei loro congiunti caduti nelle mani della Wehrmacht o, peggio, della Gestapo. Il sentimento patriottico (un patriottismo giovane, perché la Norvegia era divenuta uno Stato indipendente solo nel 1905, con re Haakon VII), offeso ed esacerbato dalla lunga umiliazione, schiumava e chiedeva vendetta. I Norvegesi avevano salutato il ritorno dall’esilio del loro re e del loro governo, che avevano visti partire in fretta e furia nel 1940, a bordo delle navi britanniche, sotto l’incalzare dei Tedeschi. Adesso la maggior parte di loro pensava che Hamsun aveva avuto il torto, semplicemente, di vivere troppo a lungo. Se fosse morto qualche anno prima, sarebbe sceso nella tomba onorato e rimpianto. Ora doveva prepararsi a farlo vilipeso e maledetto.
Arrestato sotto l’accusa di collaborazionismo dopo la partenza dei Tedeschi, era stato dapprima confinato in un ospedale a Grimstadt, poi in un ospizio per anziani a Landvik, infine in una cinica, per essere sottoposto a perizia psichiatrica. Il processo ebbe inizio solamente nel dicembre del 1947, a due anni e mezzo dalla fine della guerra; ma gli animi non si erano affatto rasserenati, era ancora troppo presto; e quel vecchio imbarazzante non si decideva a morire.
Rifiutando l’avvocato, volle difendersi da sé. Sostenne di aver collaborato con i Tedeschi per evitare alla sua patria il destino del vinto, il destino della Polonia; e anche perché sperava di vederle assegnato un posto d’onore, a guerra finita, accanto al vincitore. Ricordò di aver fatto quanto poteva per aiutare tutti coloro che, durante gli anni dell’occupazione, avevano cercato e chiesto il suo aiuto. Ma non rinnegò la sua buona fede e, cosa più grave di tutte – agli occhi dei giudici – non mutò giudizio sulla Germania, non sputò sullo sconfitto. Fu condannato a una forte ammenda e lasciato libero. Aveva ormai ottantotto anni.
Ritornato a Nöhrlom nel 1948, ebbe ancora la lucidità di scrivere un ultimo libro importante, Per i sentieri dove cresce l’erba, sorta di diario degli anni dell’internamento, prima di spegnersi il 19 febbraio del 1952. Aveva novantadue anni e mezzo e non aveva fatto alcuna autocritica, fino all’ultimo.
Storici e studiosi di letteratura si sono interessati al suo caso, al suo collaborazionismo, al suo processo; e, in genere, hanno cercato di individuare le premesse necessarie di quanto poi accadde già nella sua poetica e nella sua concezione del mondo degli anni dei suoi primi capolavori, nell’ultimo decennio dell’Ottocento. Secondo tale modo di vedere, quella di Hamsun sarebbe stata la cronaca di una catastrofe annunciata perché, mezzo secolo prima dell’invasione della Norvegia da parte dell’esercito tedesco, la sua avversione per l’urbanesimo, per il liberalismo, per la democrazia e la sua esaltazione panica e superomistica della vita degli istinti non avrebbe potuto avere esiti diversi da quelli che poi ebbe, fra il 1940 e il 1945. Anton Reininger, ad esempio (nell’introduzione a Pan, ed. cit., pp. 11-12), sostiene con la massima linearità una simile impostazione della “questione Hamsun”.
“Quando nel 1940 le truppe tedesche occupano la Norvegia, ha inizio il periodo più tragico nella vita dello scrittore. Egli si mette a disposizione del governo collaborazionista e deve perciò affrontare alla fine della guerra un processo per tradimento. Quasi novantenne scrive il suo ultimo libro, Per i sentieri dove cresce l’erba, la commovente testimonianza di una vecchiaia umiliata dalla storia. Ma anche adesso, parimenti ai suoi eroi, Hamsun rifiuta di assumersi la propria responsabilità. Chi si sa al servizio della vita non può riconoscete le categorie politiche e storiche, sentite quali sovrastrutture di importanza secondaria.
“Combattendo le proprie inclinazioni anarchiche e desiderando superare le proprie lacerazioni di intellettuale fluttuante fra le classi sociali, ma in ogni caso antiborghese, Hamsun si era infine rifugiato nelle semplificazioni di una Weltanschauung che con gli anni si allontanava sempre di più dalla realtà sociale e ai suoi sviluppi effettivi, per sostituirle la fantasmagoria di un’utopia regressiva”.
Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca il bilancio che dell’intera vicenda fa lo scrittore svedese Per Olov Enquist (nato nel 1934), nel suo libro Processo a Hamsun (traduzione italiano Milano, Iperborea, 1996, pp. 34-36):
“Infine rimane la domanda più importante: perché?
“Non per emettere sentenze, che non è più necessario, né per giustificare, che è ancor meno necessario. Ma per noi stessi, come riflessione.
“Hamsun era un intellettuale, un grande scrittore, uno dei migliori premi Nobel che ci sia dato leggere; perché possiamo ancora leggerlo, e i suoi romanzi sopravvivranno a quelli della maggior parte dei premi Nobel. Solo che volle giocare anche un ruolo politico.
“I posteri hanno definito quel ruolo ‘traditore della patria’. Una delle questioni che sorgono, allora, è quella del vero rapporto di Hamsun con la sua patria. Forse ne amava la terra. Ma il concetto di ‘norvegese’ è complesso, nel caso di Hamsun. Lo definivano sempre un grande nazionalista e patriota, ma era davvero nazionalista, o piuttosto il contrario? Gli piaceva davvero la nazione che si chiamava Norvegia?
“Che ne amasse la terra è palese. Ma la nazione? L’innamoramento per il sogno hitleriano di un’Europa a egemonia tedesca non lo colse così di sorpresa.
“No, un semplice nazionalista non lo era proprio. Amava la terra, ma non per questo la nazione; ma si può davvero fare una distinzione del genere? Nel caso di Hamsun, credo di sì. Il risveglio della terra è un sogno di vita naturale, ma non certo un inno alla nazione norvegese. Molto di ciò che contribuì a creare l’immagine di un Hamsun nazionalista (per esempio l’aver riacquistato la Casa editrice Gyldendal alla Norvegia) aveva altri significati. Gli scrittori e gli intellettuali serbi che hanno creato il nazionalismo della Grande Serbia gettando le basi della tragedia alla quale stiamo assistendo, sono piuttosto agli antipodi di Hamsun.
“Nazionalismo è il vocabolo impreciso e inutilizzabile dell’enigma Hamsun. Ma questa ambiguità è uno dei fili conduttori per capire le ragioni del suo comportamento.
“Il grande problema non è tuttavia personale, né riguarda solo Hamsun. Il problema non è che egli scelse di giocare un ruolo politico, ma che trasferì la propria autorità da un campo in cui, attraverso l’impegno, l’assiduità, l’ostinazione, il talento e la vivacità intellettuale, era arrivato fin dove era possibile arrivare – cioè il campo della scrittura – a un campo, quella della politica, nel quale non fu in grado di penetrare i problemi. Le virtù sulle quali aveva costruito la propria autorità erano in qualche modo troppo nobili per la politica. Oppure non ne ebbe l’energia. O credette di essere troppo vecchio. O era troppo sordo, troppo stanco, o troppo arrogante, o troppo orgoglioso.
“L’orgoglio! Scelse di guardare lontano, e di non abbassare gli occhi sulla realtà.
“Il grande sogno europeo di Hitler gli pareva un’idea brillante, alla peggio una costruzione puramente teorica, ma ad ogni modo un’utopia affascinante. Come fosse la realtà, e come sarebbe stata, e la totale mancanza di strumenti democratici all’interno del nazionalsocialismo, e tutto il resto, dal terrore all’oppressione al razzismo alle camere a gas, lui non lo vide, perché aveva lo sguardo puntato troppo in alto.
“Questa sindrome di Hamsun è senza tempo. L’altra manifestazione di questa sindrome è la torre d’avorio della scrittura: disinteresse per l’esterno, presunzione e un’indolenza la cui alternativa è l’isolamento. L’altra faccia dell’orgoglio.
“Anche questo fa parte della sindrome di Hamsun, ed è una malattia piuttosto diffusa nel nostro tempo. Ma in fondo non è che un altro lato dello stesso problema.
“Essere capaci di vedere lontano, e al tempo stesso guardare vicino, ecco l’alternativa. Non è facile. Ma chi ha mai detto che dovrebbe esserlo. E questa difficoltà è alla fine l’unica cosa che ci rimane.”
Questo è un perfetto esempio di quella che si potrebbe definire una prosa “politicamente corretta”. Enquist esordisce affermando di non voler rubare il mestiere al giudice e finisce per indossare i panni dello psichiatra. Si gloria perfino di aver isolato il bacillo di una nuova malattia, sinora sconosciuta alla Scienza: la “sindrome di Hamsun”; una malattia dalla portata universale e, secondo lui, particolarmente virulenta ai nostri giorni. In effetti, l’operazione culturale portata avanti dallo scrittore svedese è analoga a quella condotta dai giudici americani di Ezra Pound: l’imputato è solo parzialmente colpevole, perché affetto da una serie di evidenti turbe psichiche. E ne fa anche l’elenco: presbiopia, disinteresse per il mondo esterno, presunzione, indolenza, solitudine, orgoglio. Peccato che tutti questi sintomi ricordino assai più l’armamentario del moralista di professione che quello del medico.
No, non ci siamo.
Si dice di non voler giudicare, e poi si presenta all’imputato il conto, salatissimo, delle sue negligenze: avrebbe ben dovuto sapere delle camere a gas e tutto il resto. Ma non si chiese ai Russi se sapevano di Katyn, né agli Inglesi se sapevano dell’inferno di Dresda, quando centinaia di migliaia di profughi dell’Est, in gran parte donne e bambini, furono arsi vivi alle bombe incendiarie di Churchill. Bambini che cercavano di dimenticare la guerra almeno per qualche ora, festeggiando il Carnevale del 1945 in una città dove si erano rifugiati per sfuggire all’Armata Rossa; una città che non presentava alcun obiettivo strategico, né industriale, né militare. Hamsun, inoltre, non era tedesco; non aveva vissuto in Germania durante la guerra; e molte cose poteva non saperle davvero, come non le sapevano milioni di Europei.
Né ci convince la tesi di Anton Reininger, secondo il quale la vera colpa di Hamsun fu non tanto quella di aver sbagliato, schierandosi con una parte politica malvagia, quanto quella di non aver voluto assumersi la propria responsabilità davanti alla storia.
Che cosa significa assumersi la propria responsabilità? Hamsun se la assunse in pieno, la rivendicò con imbarazzante fierezza: per questo fu processato, condannato e moralmente “cancellato” dai suoi compatrioti. Andò incontro a una vera e propria damnatio memoriae, unico fra tutti gli intellettuali del Novecento. Non cercò di riciclarsi e di passare dalla parte del vincitore, come fece Curzio Malaparte e come fecero tanti, tanti altri in ogni parte del mondo.
O forse “assumersi la propria responsabilità” vuol dire fare piena e incondizionata abiura delle proprie idee? È questo il prezzo che si chiede a un intellettuale, nella condizione in cui venne trovarsi Hamsun nel 1945, per essere “perdonato” e riammesso, in qualche modo, nel consorzio degli uomini civili? Se è così, evidentemente egli giudicò che fosse un prezzo troppo alto, e si rifiutò di pagarlo.
Con ciò, non intendiamo autonominarci avvocati difensori di Knut Hamsun.
Vogliamo solo dire che un artista può benissimo fare delle scelte politiche sbagliate, ma bisogna essere abbastanza onesti da riconoscere che, nell’Europa fra il 1914 e il 1945, furono davvero in molti ad avere le idee alquanto confuse. E se, oggi, alcuni di noi credono di poter tracciare una linea netta fra chi aveva avuto ragione e chi aveva avuto torto, facciano pure, ma sappiano che ciò è solo una deformante semplificazione della realtà.
La realtà, in quei trent’anni terribili, fu spaventosamente complessa. I torti e le ragioni si sovrapposero e s’intrecciarono in un groviglio pressoché inestricabile. Oggi si dimentica troppo facilmente, ad esempio, che 3 milioni e mezzo di Tedeschi dei Sudeti erano veramente stranieri in patria nella Cecoslovacchia di Versailles; e che Danzica era veramente una città tedesca, tedeschissima (la patria di Schopenhauer, come Königsberg era stata la patria di Kant) e non polacca. Inoltre, gli storici odierni tendono a dare per scontato, con una specie di senno del poi, che la democrazia liberale avrebbe potuto risolvere i problemi dell’Europa fra le due guerre, se solo questa non si fosse lasciata prendere dalla tentazione delle “scorciatoie” totalitarie. Ma la democrazia liberale, di fatto, non fu di alcun aiuto alla Repubblica di Weimar, quand’essa dovette fare i conti con alcuni milioni di disoccupati provocati dal crollo della borsa di Wall Street. E a chi facesse notare che gli Stati Uniti, ove la crisi era nata, seppero rimettersi in piedi senza ricorrere al totalitarismo, si può rispondere che l’economia tedesca già due volte era caduta e altrettante si era rialzata (nel 1919 e nel 1923), e che quasi certamente nessuna democrazia avrebbe retto a una simile prova per la terza volta in dieci anni; che la Repubblica di Weimar dipendeva in larga misura dei prestiti statunitensi, che appunto nel ’29 vennero a cessare; e che il vero motore della ripresa americana non fu affatto il New Deal rooseveltiano, come la vulgata liberale vorrebbe far credere, bensì l’intervento nella seconda guerra mondiale, che fu il volano della ripresa economica d’oltre Atlantico.
Ma lasciamo perdere tutto ciò. Troppo lungo sarebbe il discorso, e qui non vogliamo tentare una interpretazione complessiva delle cause dell’avvento dei totalitarismi e dello scoppio della seconda guerra mondiale. Vogliamo semplicemente ricordare, a quanti avessero la memoria un po’ corta, che nella primavera del 1940 (e, in diversa misura, anche negli anni successivi), moltissimi Europei non percepirono la guerra come uno scontro tra le forze del Bene (le democrazie occidentali, poi affiancate dall’Unione Sovietica) e quelle del Male (i totalitarismi del Patto Tripartito), bensì come uno scontro tra forze ugualmente malvagie, nel quale era inevitabile inserirsi per tutelare almeno alcuni valori essenziali e, nel caso dei piccoli popoli, l’indipendenza e la sopravvivenza nazionale. E lo stesso discorso può farsi allargando lo sguardo dall’Europa al mondo. Il nazionalista indiano Chandra Bose o il Gran Muftì di Gerusalemme si rivolsero per ricevere aiuti a Hitler e Mussolini (e ai Giapponesi, nel primo caso), perché convinti che la vittoria della Gran Bretagna avrebbe significato la schiavitù dei loro rispettivi popoli – e, nel caso dei Palestinesi, qualche cosa di peggio. Con ciò non si vuole “riabilitare” personaggi sicuramente discutibili, come lo fu il Gran Muftì, animato da un implacabile antisemitismo; si vuol solo dire che le cose non erano semplici e non erano riconducibili a un’alternativa secca fra libertà e schiavitù, fra civiltà e barbarie, come poi si è cercato di far credere.
Tornando ad Hamsun, e anche ad altri intellettuali che fecero delle scelte politiche analoghe, forse la cosa migliore sarebbe riconoscere che non era cosa facile essere cittadini d’Europa in quegli anni e che gli intellettuali, e specialmente gli artisti – proprio per la loro peculiare forma mentis – non seppero vedere meglio degli altri, né da lontano, né da vicino.
Alcuni ebbero la ventura di trovarsi, a giochi fatti, dalla parte “giusta”, ossia quella del vincitore. Pablo Picasso, ad esempio, è passato alla storia dell’arte come l’autore del quadro-denuncia Guernica, ossia come un artista che saputo antivedere gli orrori del nazismo fuori della Germania. Ma la storia si è dimenticata di domandargli di render conto degli orrori dello stalinismo, dei quali – nella sua robusta fede marxista – non parve accorgersi minimamente.
Knut Hamsun e Pablo Picasso: ecco un tipico esempio di come il tribunale dei vincitori abbia adoperato, a guerra finita, due pesi e due misure. Col risultato – sia detto per inciso – che i quadri di Picasso, anche quelli decisamente brutti, sono stati contesi dalle gallerie di tutto il mondo come capolavori assoluti di un grande genio; mentre i romanzi di Hamsun, anche quelli decisamente belli, sono stati coperti sovente da una immeritata patina di oblio.
Forse la morale di tutto il “caso Hamsun” è proprio questa.
La storia non fa sconti a nessuno, se ci si viene a trovare dalla parte sbagliata quando giunge la resa dei conti.
Ma della onestà morale e intellettuale di ciascuno, fa fede anzitutto la propria coscienza.
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Tratto, col gentile consenso dell’autore, dal sito Arianna Editrice.
sergio da concordia
avrei letto un commento che riguardasse non tanto in parallelo il
picasso bensì elia ehrenburg e le sue incitazioni ai soldati russi nel
1944, poi la sua nomina di presidente al comitato mondiale per la pace,
sino alla morte.