Facendo riferimento unicamente a due racconti di Edgar Allan Poe, Il gatto nero e Il demone della perversione, tenterò di estrapolare il pensiero essenziale dello statunitense. Se il primo racconto è esemplificativo di esso, nel secondo il letterato di Boston esprime delle riflessioni che lo esplicitano. Senza fare troppo o per nulla riferimento a quanto viene narrato nei due racconti parlerò soprattutto del pensiero del loro autore.
Innanzitutto si sbaglia, a mio parere, ad attribuire a Poe, se non una religiosità puritana, una sensibilità di questo tipo. Lo scrittore non avrebbe uno spiccato senso del peccato, quanto piuttosto la viva consapevolezza di quanto è sano, incorrotto e felice. Tali caratteri sarebbero forse per costui da attribuire all’animalità. La ripugnanza per il dolore vissuto dai propri simili (specie da chi appartiene alla propria specie) e il perseguimento di piaceri massimamente, oppure assolutamente, godibili, farebbero del mondo animale un luogo, per quanto possibile, felice e conciliato.
Poe, a mio parere, respinge invece quanto per costui costituisce il duplice risvolto della tendenza umana ad auto-ingannarsi, a mentire in maniera ipocrita a se stessi e agli altri. Da un lato le religioni (specie le più recenti), che prenderebbero per bontà alcuni atteggiamenti di pura repressione. Dall’altro la laica mentalità razionale, illuministica, che reinterpreta come convenienti quegli stessi fenomeni che la religione considera positivamente. Il protagonista del Gatto nero, oltre ad aver commesso crimini e crudeltà contro altri, non si rende conto del misfatto commesso contro se stesso, che lo consegnerà alla giustizia. Ovvero misconosce la sua perversa natura, oltre a provare ipocritamente colpa per quanto infligge agli altri.
La coscienza umana ha carattere intrinsecamente perverso. Più l’uomo e le società evolvono, più egli si corrompe, degenera. Il mondo animale, al contrario, si conserverebbe intatto nella sua innocenza proprio perché tende a permanere poco cosciente.
L’uomo ama la malvagità, ne è attratto. Ecco perché, ad esempio e in primo luogo, la persona mite e gentile suscita, più o meno inconsciamente, antipatia, stimolando magari la voglia di offenderlo (se non, addirittura, di nuocergli materialmente). Il cattivo, al contrario, piace, affascina (che lo si riconosca, che lo si ammetta o meno).
Ma ad essere appetibile è la cattiveria in generale, rivolta indifferentemente contro se stessi o gli altri. Ciò perché procura danno, dispiacere. E l’uomo, cosciente (perverso), ama il dispiacere. Se è vera l’ipotesi quasi rousseauiana cui sopra ho fatto riferimento, allora procurare dolore all’altro non può essere davvero godibile. Ogni perversione è tale che il godimento è di regola suscitato da tutto quanto eccede la misura. Quest’ultima è la giusta norma adeguandoci alla quale risulteremmo davvero appagati, ovvero felici.
Il Demone della perversione che guida l’uomo, il genio che lo manovra, è costituito dagli eccessi. In altre parole la felicità gli è preclusa. All’uomo non resta, di conseguenza, che risolversi, arbitrariamente, indifferentemente, per atteggiamenti di tipo sadico o per comportamenti di segno (apparentemente) opposto, di tipo masochistico.
Più le società progrediscono, maggiormente la loro organizzazione assume le fattezze del più infernale meccanismo. Fame, guerre, disparità, oppressione, repressione, monotonia, inaridimento, glacialità, dissolutezza, crimine, sono fenomeni che tendono sempre più ad accrescersi o a intensificarsi. La più orribile indigenza, o le più usuranti attività (sia mentalmente che fisicamente), sono prodotte da opulenti vessatori che oltre a godere, più o meno consapevolmente, di tali loro iniquità, non traggono neanche vera gioia dai loro più o meno leciti profitti, magari lavorando strenuamente al solo scopo di tesaurizzare ulteriormente, oppure, nella più auspicabile delle ipotesi, dedicandosi ai più viziosi lussi e diversivi.
La chirurgica e penetrante lucidità di cui Poe, personaggio maledetto, dispone, gli fa avvertire tragicamente la propria scissione. È l’angosciante sensazione poetica che i suoi racconti trasmettono al lettore. Il loro senso verte sull’irrimediabile dannazione dell’uomo moderno. Ma allora, in fondo, nessuno sfugge alla condanna della propria coscienza.
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