La casa editrice Solfanelli ha recentemente pubblicato Museologia e Tradizione, un libro che raccoglie gli articoli di Riccardo Rosati per il mensile Il Borghese incentrati su questo specifico tema, sinora abbastanza inesplorato da un punto di vista non conformista. Peraltro, l’affiancamento dei termini “museologia” e “tradizione” ad alcuni può apparire ovvio, ad altri stridente: i primi sono inclini a ricondurre a una generica attitudine conservatrice sia la Tradizione, che in questa accezione sarebbe forse però meglio indicare con l’iniziale minuscola, sia la museologia, e più nel complesso ogni tensione alla conservazione di elementi del passato; mentre coloro che individuano una dicotomia tra i due termini tendono a contrapporre la Tradizione, intesa in senso attivo e vivente, a quello “spirito museale” che, per Jünger, procede allo stesso passo di marcia del nichilismo. In questa accezione, piuttosto negativa, la museologia viene intesa allora come un mero collezionismo, che sorge solo al declino dello spirito creativo.
Gli scritti di Riccardo Rosati, che sono stati raccolti organicamente in tre sezioni (una più generale su musei e museologia; una specifica su singoli musei; e una terza, per così dire più “politica”, su fatti e prospettive della museologia italiana) offrono invece la prospettiva su un diverso e più proficuo abbinamento dei due termini che danno il titolo al libro.
Il cardine cui è ancorata questa impostazione si può trovare in un passo che ci riporta alle origini della musealità:
“In Grecia, dove tutto nacque, si comincia col raccogliere nei templi i doni fatti alle divinità. Rammentiamo per giunta che la stessa fondazione del Museo, per volere di Tolomeo, intorno al 280 a.C. ad Alessandria d’Egitto, avviene prima come luogo sacro dedicato alle Muse, per diventare nei secoli un centro per l’accumulazione di oggetti preziosi. Infine, la mitica Biblioteca di Alessandria che ci dimostra come non sia possibile creare una vera raccolta di Beni Culturali sprovvista di una apposita sezione libraria. La parola museo è di origine latina. Essa deriva a sua volta dal greco mouseion: “posto delle Muse”. È utile a tal proposito rammentare come le stesse Muse siano figlie di Mnemosine, che nella mitologia dell’antica Grecia è la personificazione della memoria. Per tale motivo è d’obbligo considerare qualsiasi tipo di istituzione museale come “sacro scrigno della memoria” di una specifica collettività”.
Il museo deve essere quindi inteso come luogo della memoria – e quindi pienamente “tradizionale”, nel senso proprio dell’aggettivo; ma non vi è solo questo, perché anche la vocazione collezionistica, che ha effettivamente dato vita a moltissimi importanti musei del mondo contemporaneo (rectius a qualunque museo, se il termine è inteso nell’accezione sufficientemente ampia) assume un aspetto diverso rispetto a quello contro il quale metteva in guardia Jünger. Lo “spirito museale” non è, nella prospettiva di Rosati, la fuga inorridita dell’inconsapevole reazionario di fronte all’avanzata del deserto, ma il risultato storico della innata tensione al bello-e-buono. D’altra parte, lo stesso Jünger ha dedicato interessanti riflessioni al collezionismo, a partire dai frutti delle sue “cacce sottili”, che convergono proprio con l’impostazione di fondo di Museologia e Tradizione.
A ben vedere, una certa luce negativa sulla museologia è data proprio dall’eccesso dello spirito analitico e catalogatore: la si avverte, in modo più o meno cosciente, visitando alcuni musei che sin nell’architettura espositiva, nell’illuminazione, nella disposizione ripetitiva dei pezzi o nelle didascalie tendono a schiacciare il visitatore, trasmettendo un senso oppressivo di polverosa specializzazione. Questo eccesso difficilmente è in grado di suscitare entusiasmo o anche semplice interesse per ciò che è esposto. E’ qualcosa di analogo alla contrapposizione tra l’apparente aridità della filologia iperspecialistica e lo spirito “vivo” del mondo antico, su cui si è spesso soffermato Evola.
Eppure, all’estremo opposto, vi è un ancor peggiore pericolo: il museo-baraccone, quello in cui per rendere “viva” l’esperienza del visitatore, gli si costruisce un percorso attraverso un campionario di mescolamenti tra il serio e il faceto, tra l’autentico e il contraffatto. E’ lo stile disneyano applicato al museo, che si riscontra spesso all’estero, fatta eccezione per la maggior parte dei musei più importanti.
A intorbidire ancor più le acque è inoltre la diffusa confusione sull’accezione di “museo”, giacché, come osserva Rosati,
“Il “caso” dell’arte contemporanea è, per un museologo degno di questo nome, di facile soluzione. È sufficiente riflettere sul seguente sillogismo: il Museo custodisce la Storia, le raccolte di arte contemporanea non lo fanno, ragion per cui esse non sono dei musei; perciò chiamarle in tal modo è improprio. Allora se non sono musei, cosa sono? Riteniamo che questi luoghi siano da considerarsi come dei contenitori, spesso progettati da architetti di chiara fama, dove vengono ospitati degli eventi; talvolta interessanti, seppur nella maggioranza dei casi siano essenzialmente dei momenti di ritrovo per gruppi di radical chic bisognosi di darsi un tono culturale”.
In conclusione, il libro di Rosati apre anche prospettive molto incoraggianti, se non altro in termini di possibilità. Vista la grande ricchezza del patrimonio che l’Italia può vantare, i musei possono essere volano di un’autentica rinascita, nella quale, ad avviso di chi scrive, l’aspetto economico ha un ruolo soltanto secondario, tanto sotto il profilo degli investimenti necessari che sotto quello dei potenziali ricavi, sebbene entrambi siano estremamente elevati. Ciò che principalmente conta, è quanto i musei possano incidere sulla consapevolezza del proprio passato, il che è imprescindibile presupposto per un risollevamento dallo stato di prostrazione in cui versa l’Italia odierna.
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