L’attuale dibattito sulla bioetica è quantomai adatto a riconsiderare il concetto di uomo. Troppi sedimenti devozionali, morali e filosofici si sono innestati sulla naturale complessità dell’essere umano. Che è un organismo vivente fatto di una fisiologia e di un apparato razionale-sensitivo. Troppi interessi dogmatici e ideologici che, col tempo, hanno contribuito a offuscare questa immagine di totalità funzionale. Fino alle derive degli ultimi decenni, intese a frantumare l’idea olistica di uomo in una serie di proclamazioni astratte e razionali, all’origine di innaturali dualismi. Tra queste, ad esempio, si può citare l’ambiguo “diritto alla vita”. A pensarci bene, un assurdo logico, simile al “diritto alla felicità” presente nella Costituzione americana. Un’astrazione. Esso ci appare, piuttosto, come un rovesciamento della tradizionale “volontà di vita”. In base a questa, è infatti il bios che regola i diritti e non viceversa. Distribuendo il bene e il male, la salute e la malattia, la sanità mentale e la demenza, è il bios a decidere i destini, molto prima che una qualsiasi attività terapeutica intervenga poi “di diritto”, a correggere il tipo di esistenza cui ognuno di noi è assegnato.
Eppure, nonostante le preclusioni del pensiero contemporaneo, favorevole a un indiscriminato assegnamento di valore alla vita – sia questa un dono o una condanna –, è di anni recenti il rinato interesse per un ripensamento del significato di persona: sacra unità di corpo e anima, alla maniera antica, oppure scissione tra uomo e cittadino, tra vita e diritto, tra corpo e cura, secondo le intellettualizzazioni progressiste e umanitariste? Già Michel Faucault nel secolo scorso aveva sondato i significati della genealogia. Filosofia e storia, diceva, non sono dialettica democratica, ma lotta e affermazione del tipo. Qualcosa che investe tutto l’uomo, compreso il suo corpo. Lo scontro e il conflitto, dunque, sono alla base della realtà ben più della proclamazione teorica dei diritti, innestata sull’apologia dell’inerme e sulla coltivazione del patologico.
Il potere, la società, tutta la vicenda umana come sintomo di valori ereditari: Faucault arrivò a parlare di una «funzione genealogica del racconto storico». Su questa scia, segnaliamo gli studi recenti di Roberto Esposito: Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale e, di poco precedente, Bìos. Biopolitica e filosofia (entrambi pubblicati da Einaudi), in cui si ripercorrono i tentativi moderni di ricucire la scissione “illuminista” tra corpo e anima. L’uomo come organismo, insomma, di cui fa parte a medesimo titolo sia l’elemento fisiologico sia quello anìmico o spirituale. Il lato “animale” dell’uomo, lungi dall’essere demonizzabile come “inferiore” in virtù di evasioni trascendenti o razionaliste, ha visto nel pensiero moderno – dalla biopolitica di Hobbes sugli impulsi del corpo, al vitalismo di Schopenhauer e alla biocrazia di Comte – tutta una serie di rivendicazioni. Terza persona sarà dunque l’individuata unità di biologia e di ragione che un tempo, con l’organicismo antico, era data per scontata, e che invece – soprattutto in forza della scissione cristiana e poi umanitarista tra corpo e anima – ha finito col costruire personalismi impolitici e astratti. Nel secondo dei libri segnalati, Esposito ha indagato ancora più da vicino il rapporto tra vita e politica. Sia pure da inamidate posizioni “democratiche”, Esposito avvicina i due grandi momenti della vita e della politica: il corpo e la psiche sono a contatto continuo e necessario, sono lo scenario su cui si muove l’uomo. L’uomo conosce la vita attraverso il suo corpo e attraverso la vita altrui, nella dimensione dello scambio comunitario. Vivere socialmente, essere politici, significa impegnare il proprio corpo, metterlo in gioco. L’autore naturalmente criminalizza la biopolitica e il biopotere nazionalsocialisti, che spuntano diremmo fatalmente al centro del discorso corpo-politica in epoca contemporanea. In essi viene osservato il paradigma negativo di un rapporto, che si vorrebbe positivo, tra il radicalismo delle leggi naturali e quello delle leggi politiche. Conciliare la natura e il conflitto con l’intangibilità del corpo: dal punto di vista “democratico”, un bel problema. Comunque, nel ripercorrere la storia dei collegamenti tra uomo, politica e corpo vivente, inevitabilmente, ci si imbatte in Platone. Il suo pensiero è infatti uno dei cardini della logica biopolitica.
È noto come Platone si augurasse pratiche di educazione fisica, eugenetica e igiene sociale molto precise, al fine di ottimizzare la struttura psico-fisica di scelte minoranze atte al comando politico. La sua idea di Stato ideale prevedeva che si attuasse una selezione dei caratteri migliori, ma secondo procedimenti non classisti: in alto come in basso, lo Stato ha il dovere di individuare i tipi più nobili – secondo i caratteri fisici e morali – e di avviarli a un’educazione superiore, così da riservare agli ottimi il governo politico e la guida della comunità. Esposito cita le frasi platoniche in cui si raccomanda il matrimonio soltanto ai “migliori”, evitando il proliferare di unioni tra tipi inferiori. E non nasconde che «Platone si dimostra sensibile all’esigenza di conservare puro il ghènos dei guardiani e in genere dei governanti della polis secondo i rigidi costumi spartiati tramandatici da Crizia e Senofonte». In questo quadro, non si esita a operare confronti tra lo Stato razziale greco e quello che più di ogni altro, in epoca moderna, ha concepito la politica soprattutto come biopolitica, cioè il Terzo Reich. Lo scritto dell’antropologo Hans F. K. Günther Platone custode della vita, del 1928, viene preso ad esempio di come l’igiene sociale, l’eugenetica, la selezione razziale, l’educazione aristocratica e persino l’eutanasia non fossero perversioni dello scientismo moderno, per altro già in atto dalla fine dell’Ottocento in nazioni democratiche come gli Stati Uniti, ma avessero un illustre precedente proprio in una delle più alte vette del pensiero umano, appunto Platone.
Esposito scrive che «quando Günther interpreta l’ekloghé platonica in termini di Auslese o di Zucht, cioè di “selezione”, in realtà non si può parlare di un vero e proprio tradimento del testo, ma piuttosto di una sua forzatura in senso biologistico in qualche modo autorizzata, o almeno consentita, dallo stesso Platone». La recente ristampa del testo di Günther da parte delle Edizioni di Ar – che segue la prima, risalente al 1977 – ci consente di vedere quanto poco forzata fosse l’interpretazione dello studioso tedesco, che in ogni suo punto rimane a diretto contatto col testo platonico.
Vediamo così scorrerci davanti tutta l’inquadratura dello Stato secondo giustizia, che assegna ad ognuno il suo ruolo e a tutti il rango dell’appartenenza alla medesima comunità. Secondo principi di bellezza e armonia esteriori, nobiltà d’animo, sanità fisica e morale. Se nelle Leggi Platone afferma che «i giovani sposi devono pensare a offrire allo Stato, per quanto è loro possibile, i figli più belli e migliori», questo si inserisce nella concezione che il corpo non è faccenda privata, ma bene pubblico: la comunità prospera se ognuno segue le leggi dell’eu-ghènos, della “buona razza”, affinata ereditariamente. Fino al punto di consigliare ai giovani di osservarsi nudi prima di scegliersi e di conoscere le famiglie di provenienza. Favorevole all’eutanasia per malati inguaribili e tarati ereditari («i criminali maggiori, incurabili ormai… e per colui che il legislatore riconosce inguaribile… per tutti costoro è meglio non continuare a vivere…», scrive nelle Leggi), Platone formula anche l’auspicio che la selezione dei caratteri diventi qualcosa di più di una politica, cioè un’arte di Stato: «bisogna che gli uomini migliori si uniscano alle donne migliori più spesso che possono e, al contrario, i peggiori con le peggiori; e si deve allevare la prole dei primi, non quella dei secondi…», si legge nella Repubblica. Tutto rientra infatti nel senso di ordine cosmico, di proporzione, di superiore armonia del tratto: è la kalokagathìa, la bellezza fusa con la bontà, due idee incarnate in un corpo. «Dove dunque a un nobile carattere dell’anima si uniscano analoghi e armonici caratteri nell’aspetto esteriore, partecipi dell’identico modello, là si avrà uno spettacolo assai bello per chi lo vorrà contemplare», afferma Platone l’idealista.
Nel suo breve libro, Günther non fa che riportare questi spunti del pensiero platonico, soltanto commentandoli e inserendoli in quella visione platonica che, più che volgare biologismo (ma perché poi la biologia dovrebbe essere volgare?), appare la manifestazione tangibile dell’Idea. E infatti Günther precisa che la protezione dei caratteri ereditari non è materialismo, tanto meno “zoologia”, ma idealismo realizzato: «Platone, da vero idealista, incoraggia una selezione regolata in maniera da propiziare il manifestarsi delle idee nelle leggi di natura». Su questa materia, Günther fu anticipato di decenni da molti altri. Ad esempio, da Nietzsche. Il concetto di Züchtung in Nietzsche ricorre spesso, e proprio nel senso di selezione razziale per minoranze destinate alla Führung, il comando. Come Platone, anche Nietzsche era favorevole all’eugenetica e all’eutanasia: «La grande politica… mette fine inesorabilmente a tutto quanto è degenerato e parassitario», sta scritto ad esempio nei Frammenti postumi. Ma quello di Nietzsche, come ha ricordato Domenico Losurdo, all’epoca non era un caso isolato, ma una cultura egemone. L’ideologia della selezione, tra Otto- e Novecento, era molto diffusa, tanto che, ad esempio, negli Stati Uniti la sterilizzazione degli incurabili era materia di legge, che rimase in vigore in molti casi – insieme all’apartheid – fino agli anni Sessanta del secolo scorso… Nulla di specificatamente “nazista”, insomma. Anzi, si direbbe che questo complesso di problemi affondi alle radici stesse della nostra cultura. Tanto che il grande classicista Werner Jaeger poté scrivere che «la selezione della razza… nelle teorie di Platone e di Aristotele si spogliò della limitatezza di casta, accompagnandosi all’esigenza dell’educazione statale della nazione intera». Un programma politico. Lo Stato greco non era l’amministratore di individui quali che fossero, ma il selezionatore del genio della stirpe, come diceva Nietzsche. E «il vero senso democratico di Platone – precisò Giorgio Colli – ha la sua giustificazione solo in quanto ha educato questi uomini superiori». L’educazione selettiva, l’ereditarietà, l’igiene della persona e dell’ambiente, la profilassi genetica, le qualità innate e quelle acquisite, nell’epoca del livellamento sembrano dunque fattori da non affidare all’emotività dei mutevoli pregiudizi, ma alla riflessione profonda circa le nostre origini e la qualità del destino che ci attende.
Tratto da Linea dell’11 luglio 2008.
Davide Verni
Prima di citare un autore, sarebbe opportuno conoscerne almeno il nome. La ripetuta dizione Michel Faucault anziché Michel Foucault, non solo non è da ritenersi un refuso, ma lascia anche presagire una cattiva conoscenza del pensiero di questo filosofo.
Distinti saluti
Davide Verni
Massimo
Le classiche forzature del pensiero di Platone che ho ritrovato spesso, in maniera simile, in tutto il mio percorso di studi, anche universitario.
Prima di entrare nei dettagli basti sottolineare che, a differenza di quanto si voglia far credere, Platone proponeva pratiche di educazione fisica, "eugenetica" e "igiene sociale" al fine di ottimizzare non solo la struttura psico-fisica di scelte minoranze atte al comando politico, ma di tutti i cittadini. Data la sua visione matematico-idealista, più che di "igiene sociale" e "eugenetica", sarebbe meglio parlare di controllo delle nascite in senso astrologico.
Massimo Ranati