L’esilio di Vintila Horia

Questo libro* è indubbiamente più celebre per le polemiche suscitate che non per il suo contenuto o il suo valore letterario. Tutti infatti ricorderanno cosa accadde quando, mesi fa, fu assegnato il Premio Goncourt al libro Dieu est en exil di Vintila Horia. La cultura ufficiale che, in Francia come in Italia, è regolarmente infeudata agli uomini del marxismo, urlò allo scandalo. Infatti Vintila Horia è un esule rumeno che un tribunale popolare (leggi: comunista) del suo paese ha condannato a morte per i suoi trascorsi di propagandista dell’Asse. A questo punto, col vento che tira, ci si sarebbe potuti anche aspettare che Horia rinnegasse il passato e intascasse il premio contenuto. Ma egli non lo ha fatto. Non ha rinnegato nulla e ha rinunciato piuttosto al Goncourt. Ora, trascorsi sei mesi dalla polemica che ancora si trascina, vorremmo parlare piuttosto del contenuto del libro, con un po’ di serenità.

L’opera è concepita nella forma difficile e pericolosa del diario. E la difficoltà è tanto maggiore in quanto il diarista non è l’autore, ma nientemeno che Ovidio, ossia un personaggio molto lontano nei secoli e, al tempo stesso, irrigidito in uno spazio storico circoscritto da numerose testimonianze. Ma la malizia narrativa di Horia ha facilmente ragione di questo ostacolo. Personale magia di stile, forte attitudine a raccontare ci guidano agevolmente al di là di talune difficoltà d’ambientazione, inevitabili in una narrazione così complessa e delicata. Ben presto noi non pensiamo più all’Ovidio classico che abbiamo imparato a conoscere sui banchi di scuola, ma all’Ovidio novecentesco di Vintila Horia. Dapprima le due figure si sovrappongono, poi la prima sfuma mirabilmente nella seconda che guadagna in realtà e vivezza. E’ il poeta romano dunque che scrive, dal suo remoto esilio di Tomi, sulle rive grigie del lontano Ponte Eusino. Tema e personaggio acquistano naturalmente un particolare significato nella fantasia di un rumeno che, per giunta, è anch’esso un esule.

Ovidio è solo, in terra semibarbara, lontanissimo da quella Roma brillante ed elegante che ha idolatrato, ai confini della civiltà. Dapprima egli si dispera. E’ come schiacciato da quella condanna che non comprende e non giustifica, da quella disgrazia che si è abbattuta fulminea su di lui come una forza di natura. Ma poi, familiarizzatosi con la sventura, ne va via via ravvisando il significato purificatore. Intorno a lui non sono dei barbari impenetrabili, ma appassionate creature umane la cui personalità trapela dal silenzio, come Dokia, come il rude centurione Onorio. Mentre dilegua il vacuo fragore di Roma lontana, l’esilio va acquistando il significato preciso di una condizione spirituale, il simbolo stesso, l’essenza della condizione umana. Nel suo animo sorge la coscienza che la civiltà, l’ordine di Augusto, non siano che schemi convenzionali costruiti sulla violenza e grevi della loro putrefazione. Oltre le anguste frontiere della civiltà sono spazi sterminati e silenziosi, pianure attonite, fiumi cerulei e immensi sotto cieli grigi. Là gli uomini non devono mentire per vivere. A Tomi, nelle città getiche dove lo conduce la sua curiosità, tra i Daci adoratori dell’unico Dio Zalmoxi, egli avverte come il presentimento della fine di un mondo, il tramonto della civiltà intesa come organizzazione senz’anima, pace edificata sulla sottomissione. Finché un medico greco, Teodoro, gli reca la buona novella: Dio è nato in esilio, in un villaggio tra i monti della Giudea. Mentre la speranza del ritorno sbiadisce nel suo animo macerato, sorge in lui il presentimento di un’altra Roma, l’ansia terribile di una redenzione totale del cosmo. Finché la morte viene a lui come il compimento di quella fuga nella libertà, oltre il Danubio nebbioso, che è venuto progettando negli ultimi giorni.

Molte cose si potrebbero criticare: l’incomprensione per la romanità, sempre odiosa per noi italiani, l’ingenua idealizzazione nazionalistica dei Daci, che, peraltro, ricorre nella letteratura rumena, lo sfaldato sentimentalismo cristiano. Ma rimane l’arte ammirevole dello scrittore, che Horia possiede come pochi altri, la tecnica dell’indugio che dilata l’attesa, la potenza simbolica dell’insieme. E sorge nel lettore la coscienza che Horia abbia voluto raffigurare nel suo Ovidio l’uomo moderno, sostante alla frontiera dell’ignoto, dove una civiltà materialistica che lo opprime e lo schiaccia sfuma negli spazi incantati da cui egli attende un segno mirabile dell’ordine nuovo.

* Dieu est né en exil, Libraire Artheme Fayard, Paris, prezzo 11 franchi.

Tratto da L’Italiano, anno III, aprile-maggio 1961, pp. 78-80.

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