L’Eneolitico in Italia, direttamente dai Balcani e dal centro dell’Europa

Dedico questo articolo al Generale Roberto Vannacci, che non conosco ancora di persona, non ho letto ancora il suo libro, non conosco le sue idee politiche, che comunque non avrebbero alcuna importanza e/o influenza sulla possibilità di dialogo ed amicizia tra lo scrivente e lui medesimo. So soltanto che, a quanto mi risulta, ha dimostrato di essere un uomo libero, di cultura (ha conseguito tre lauree), onesto, sincero, leale prima di tutto verso se stesso, senza mai dimenticare il suo impegno schietto in difesa e tutela di chi, soldato come lui, si è ammalato nell’esercito con l’uso dei proiettili contenenti uranio impoverito (di cui sappiamo bene chi sono gli autori a cui indirizzare tutte le dinamiche di produzione e diffusione). Che poi il Generale sia stato insultato, sbeffeggiato, deriso, maltrattato, definito persino ‘’ignorante’’ da ‘’giornali’’ quali Vanity Fair, buoni solo per shampiste e aspiranti campionesse in fellatio, non c’è da stupirsi: è proprio un MONDO AL CONTRARIO, vilipeso e distrutto in nome di una “bella vanità”, di cui gli uomini onesti e leali non saprebbero che farsene. Nei tempi attuali, soltanto gli uomini sani, onesti e leali si accorgono che quanto definito dalla massa progressista “politicamente corretto” sia invero squallidamente “stupidamente scorretto”.

Daudeferd, Settembre 2023, Era Vulgaris

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La facies culturale sicula ebbe inizio in Italia nel corso dell’età eneolitica, ossia nell’età del Rame, dunque nel corso del III millennio a.C. (ma già sul finire del IV millennio a.C.) nel versante adriatico del centro peninsulare tra le attuali regioni della Romagna, Marche, Umbria e parte settentrionale dell’Abruzzo. Essa però prende nome dalla località del viterbese, Rinaldone, quando già i Siculi approdarono nella Maremma toscana e nel Lazio a seguito della scesa degli Osco-umbri nelle suddette regioni del centro-Italia. I Siculi infatti stettero nella Maremma e nel Lazio fino all’arrivo dei proto-Latini terramaricoli (i progenitori dei Romani) e dei proto-illirici Pelasgi (‘’cugini’’ dei Siculi) nel corso del XV sec. a.C. La Cultura rinaldoniana si evolse in quella proto-appenninica, dalla quale si generarono nella penisola quella appenninica (della quale fecero parte gli Enotri) ed in Sicilia orientale quella di Pantalica I Nord a seguito della traversata dei Siculi dello Stretto nel corso della prima metà del XIII sec. a.C. (1270 a.C. circa). I Siculi furono i portatori nel centro-Italia di una Cultura archeologica balcanica, la quale nei Balcani si evolse poi indipendentemente in quella che noi abbiamo conosciuto come Cultura di Vučedol, fiorita tra la fine del IV e la fine del III millennio a.C. (3000-2200 a.C. circa) e che giunse fino al versante Nord-occidentale della penisola balcanica. La Cultura di Vučedol (che prende il nome dalla località croata di Vukovar) emerse a sua volta dalla Cultura di Baden, in Austria (vicino Vienna), una delle tappe intermedie del Volkswanderung proto-illirico dall’Europa centro-settentrionale. 

Vi sono tracce della Cultura di Vučedol anche in Austria orientale, nella Repubblica Ceca e lungo il medio corso del Danubio. Leggendo i testi della Dott.ssa Gimbutas si evince che la Cultura di Vučedol sarebbe stata importata nei Balcani dai popoli indoeuropei delle steppe, precisamente quelli della Cultura di Jamna, tra il 3000 ed il 2900 a.C., una Cultura archeologica che sempre secondo lei avrebbe generato la Cultura del bicchiere campaniforme, e che la stessa Cultura del vaso a campana sarebbe stata la fusione tra la Cultura di Vučedol e quella di Jamna (?)(1). Purtroppo, per quanto possa affascinare questa teoria, essa risulta essere alquanto improbabile. I popoli dei Kurgan non sono mai arrivati sin qui, poiché trattasi di quegli Indoeuropei del ramo orientale (ramo satəm) che si espandevano verso Est a partire dai Carpazi e dei quali l’ultima frontiera era costituita dai Traci, popolo che abitò l’attuale Bulgaria. Non vi sono mai stati vasi a campana ad Est, ma solo a partire da Nord, dall’attuale Danimarca e dalla Germania settentrionale e sempre al di qua dell’Elba. Strutture megalitiche di tipo dolmenico hanno accompagnato nella loro fase finale la Cultura del vaso a campana fino in Sicilia. I popoli dei Kurgan sono gli antenati dei gruppi indo-iranici principalmente, non dei gruppi occidentali kentum

La Cultura di Baden si è sviluppata tra il 3700 ed il 2800 a.C. circa, sempre nel periodo eneolitico, tra Germania, Moravia, Ungheria, Slovacchia, Svizzera e Austria orientale. Fu l’austriaco Oswald Menghin a denominare questa facies dai ritrovamenti nel villaggio di Baden, località vicino Vienna, ma essa è nota anche come Cultura di Ossarn e come Cultura di Pecel. Alcuni hanno collegato questa Cultura archeologica ad un continuum che giunge fino al delta danubiano, area della Cultura di Ezero-Cernavoda III e poi con quella della Troade, l’area Nord-occidentale anatolica ove sorgeva Wilusa/Ilio, e questo in base alle urne cinerarie antropomorfe (a busto muliebre) ritrovate sia in Troade sia in Ungheria. Ma trattasi di un abbaglio, soltanto di un abbaglio. In realtà questo continuum culturale supposto negli anni ’60 da Nándor Kalicz non è mai esistito, trattandosi semplicemente di sporadiche presenze allogene e dunque di irrisori scambi di tipo commerciale (merci e singole persone che viaggiavano), senza dunque profonde implicazioni culturali. Però è anche vero che nel corso del IV e del III millennio a.C. vi era un’indiscussa continuità indoeuropea in tutta l’Europa, in questo caso specifico dalla Germania alla penisola anatolica (2). La Cultura di Baden fu approssimativamente coeva della Cultura nordica del vaso imbutiforme, ossia la progenitrice assieme alla Cultura della ceramica cordata della Cultura del noto bicchiere campaniforme, ed allo stesso tempo fu contemporanea alla Cultura delle anfore globulari, quest’ultima facies archeologica un’enclave di popoli indoeuropei all’interno del contesto della Corded ware/Battle axe, che poi si volse ad Est confluendo in quei gruppi che si allontanarono sempre più dall’Urheimat ancestrale nordica disseminando il territorio di tumuli/Kurgan nelle steppe russe. La Cultura di Baden si presenta abbastanza variegata a livello regionale, ossia caratterizzata dall’accostamento di più usanze, e ciò lascia intendere che i proto-Illiri vi hanno preso parte con la loro varietà regionale, stabilendo allo stesso tempo un interscambio culturale con i vicini, ovvero tutti gli altri macro-gruppi indoeuropei con i quali proprio il Siculo presenta inequivocabili isoglosse, ovvero quei tratti distintivi del linguaggio che lo accomunano ad altri: trattamento delle laringali, vocalizzazioni delle sonanti, glosse varie. I Siculi dicevano infatti durom ‘’dono’’, molto simile al corrispondente lemma greco δῶρον, che all’equivalente latino donum, a sua volta molto simile all’equivalente sanscrito dānam. Insomma, la Cultura di Baden presenta una certa omogeneità culturale di tipo sovra-regionale, rilevabile essa a livello di isomorfismi linguistici tra i partecipanti, ed una forte impronta regionale caratterizzante i vari ethne nella loro specularità, tanto è vero che i proto-Illiri sono rimasti sempre tali, così come tutti gli altri. I vari scambi d’oggetti portati dall’una all’altra parte da impavidi viaggiatori ha contribuito a rilevare una rete di comunicazioni che dalla Germania orientale giungeva fino alle coste settentrionali della penisola anatolica, laddove avrebbero regnato gli Ittiti. Di fatti nella Cultura di Baden troviamo in alcune regioni l’uso dell’inumazione, in altre quello della cremazione, in altre ancora ambedue, ma nessuna fusione di varietà regionali, dunque tra ethne. Ad esempio, nell’area tra Slovacchia ed Ungheria sono state rinvenute queste urne cinerarie a ‘’busto di donna’’ stilizzato (non molto diffuse in realtà), e già rinvenute nella Troade. Gli insediamenti sono stati rinvenuti sulle sommità dei rilievi, spesso non fortificati. Ad esempio, maggiormente nella sub-regione occidentale, quella ‘’proto-illirica’’, sono stati rinvenuti modellini di veicoli a ruota in ceramica, cosa, questa, che rimanda alla stessa tipologia di manufatti rinvenuti nelle tombe dei Siculi in Sicilia (soprattutto come corredo funerario a carattere ludico per le sepolture dei bambini: i giocattoli accompagnavano sempre i nostri bimbi). Altro elemento importante è ad esempio, sempre nella parte proto-illirica di questa Cultura, l’allevamento suino vicino alle capanne, cosa, questa, ritrovata nei pagi siculi siciliani. La Cultura di Baden era caratterizzata anche da una modesta agricoltura, cosa invece poco presente nel mondo siculo. I Siculi erano più allevatori e pastori, arroccati sui monti; invece i Sicani sub-carpatici erano, sì, prevalentemente agricoltori. Ma stiamo attenti, poiché al tempo della Cultura di Baden i proto-Illiri, ancora indifferenziati, proseguivano nella loro lunga e lenta marcia verso meridione, e solo nella sede balcanica emersero poi i Siculi. Siculi, che nel tempo avvenire si spostarono ancora e ancora, tra cui quelli che giunsero in Italia e quelli che si diffusero dai Balcani fino al bacino carpatico e dunque fino al territorio occupato in epoca storica dai Traci, ossia nell’odierna Bulgaria e anche parte della Romania, in breve nell’area poi occupata moltissimi secoli dopo dai Siculi magiari, che da questo stanziamento in terre “sicule” avrebbero con molta probabilità preso questo nome.

 

Sopra, vaso askoide ornitomorfo della Cultura balcanica di Vučedol; sotto, urna cineraria a forma di busto femminile della Cultura di Baden (3500-2800 a.C.), rinvenuta nel territorio di Ráckeve, Ungheria, ed oggi esposta nel Museum für Vor- und Frühgeschichte, Berlino.

La Cultura di Baden emerse a sua volta dalla Cultura di Lengyel, facies archeologica che giunse fino al versante occidentale dei Carpazi, nell’odierna Ungheria. La Cultura di Lengyel fa riferimento ad un orizzonte culturale diffusosi tra le attuali regioni centro-europee di Moravia meridionale, Slovacchia e Ungheria occidentali, Polonia meridionale, giungendo fino in Austria, Slovenia e Croazia, tra il VI ed il V millennio a.C. In breve nella successiva sede proto-illirica a seguito del loro abbandono della Urheimat tra i corsi medi di Elba (o Oder) e Vistola, poco prima della fine del VII millennio a.C. Essa fu contemporanea della Cultura nordica del vaso imbutiforme ed era caratterizzata da: modesta agricoltura; molto allevamento (specie bovine); porcai nelle adiacenze delle capanne; in misura minore pastorizia (specie ovine e caprine); molta caccia; pagi, alcuni circondati da fossati difensivi ed altri no, costituiti da piccole capanne ed alcune case lunghe rettangolari o (alcune) trapezoidali; necropoli caratterizzate da rito inumatorio con tafonomia a decubito dorsale e arti inferiori leggermente flessi e torsione cervicale (in pratica, come avveniva tra i Siculi). Certe fogge ceramiche della Cultura di Lengyel si presentano incredibilmente simili a quelle dell’orizzonte culturale di Pantalica I Nord (ed un po’ anche a quello sicano-egeo di Thapsos), ma con una differenza cronologica di quasi 3500 anni. La Cultura di Lengyel ha prodotto grossi bacili o bracieri (per me trattasi di bracieri regali proprio come quelli di Pantalica I Nord) su alto piede tronco-conico, d’impasto color arancio e decorazione intricata a bande rosso-granato formanti losanghe campite da meandri, o vere e proprie tessiture di meandri formanti spazi labirintici e figurazioni stilizzate rimandanti a ruote solari e Svastica; come evincesi infatti dai frammenti di questi alti vasi rinvenuti tra Cracovia e Pleszów in Polonia, tra cui anche il frammento di Cracovia che riporta due ideogrammi (3) sempre in rosso-granato, a conferma di un probabile sistema di scrittura antichissimo; e come evincesi anche dalle bande rosse formanti sistemi labirintici nei frammenti della brocca e del coperchio rinvenuti a Samborczec (tutti studiati da Hansel e Wislanski nel lontano 1979).

Questa Cultura invase il territorio della più antica Cultura della ceramica lineare (decorata a solchi) proveniente dai Balcani, e non fu, come taluni studiosi hanno sostenuto, un’evoluzione di quest’ultima. Sempre secondo la lituana Gimbutas questa Cultura sarebbe stata una ‘’Cultura dell’Antica Europa pre-indoeuropea’’, ossia matriarcale, poi ‘’sottoposta alla kurganizzazione dei proto-indoeuropei’’, la quale poi avrebbe ‘’influito nello sviluppo della successiva Cultura delle anfore globulari’’ (4). Anche per quanto riguarda la Cultura della ceramica lineare, importata secondo costoro dagli agricoltori anatolici che risalivano il Danubio con un preciso marcatore genetico, l’aplogruppo G2a (e questo nella percentuale del 60%, assieme ad altri ‘’d’origine orientale’’) (5), ed avvallata dalla presenza della conchiglia Spondylus gaederopus, specie diffusa nel Mediterraneo, così come la vaga ‘’somiglianza delle fogge ceramiche alla zucca, specie vegetale non diffusa nel Nord dell’Europa’’, non è che un’altra teoria da confutare ulteriormente (6). Vi spiego ora il perché. In realtà furono proprio le nuove generazioni dei cacciatori-raccoglitori mesolitici a divenire agricoltori, simultaneamente ad altre popolazioni di altre aree più lontane, e questo lo si evince dal fatto che l’agricoltura faceva uso di specie autoctone e non importate. Non vi sono stati dunque spostamenti da oriente verso Ovest di popoli portatori di sementi e tecnologie alloctone, poiché tutto questo, in Europa, illo tempore era invece genuinamente autoctono. La stessa Marija Gimbutas parla infatti di tipi fisici, ‘’Europei locali’’, ossia Cro-Magnon B (7), progressivi rispetto ai Cro-Magnon dell’Uluzziano e dell’Aurignaziano, ovvero quelli del Paleolitico finale. Queste popolazioni, assolutamente europee, aventi lo stesso genoma, avrebbero dato vita a svariate culture archeologiche del Neolitico, tuttavia simili e dunque riconducibili ad un Urvolk e ad un focolaio spirituale e culturale ancestrale comune, ossia all’Urheimat. Proprio la Zoffmann, già quella che vedeva nei crani del popolo della Cultura del bicchiere a campana ‘’brachimorfia plano-occipitale’’ (il tipo dinarico), è stata una tra i pochi studiosi nell’osservare nella popolazione neolitica della Cultura della ceramica lineare il tipo Cro-Magnoide proto-nordico, ossia il Nordide, basandosi sulla distanza di Penrose, metodo comparativo che usa i dati tassonomici come variabili antropometriche, e questo su una serie di 120 campioni prelevati nel bacino carpatico, considerando un arco temporale di migliaia di anni. Con questo metodo è possibile calcolare distanze o coincidenze tra una popolazione ed un’altra, compresa la differenza ‘’evolutiva’’ all’interno di uno stesso pool genetico, o meglio dire la progressione di una determinata popolazione (si vedrebbe in questo caso la possibilità/probabilità di ibridazione). Anche la Zoffmann è giunta a dire che la Cultura della ceramica lineare non sarebbe stata trasmessa tramite movimenti migratori (8). Questi del bacino carpatico risultano essere più alti e più robusti di quelli, ad esempio, della coeva Cultura di Körös (a torto definiti ‘’gracili mediterranoidi’’). Un team di studiosi -altro esempio- ha raccolto dati sul DNA mitocondriale da 24 individui appartenenti a questa Cultura in 16 diverse località tra Germania, Austria ed Ungheria (un raggio ampio, direi), e 6 tra questi inumati presentano una rara serie di mutazioni note come N1a, con una percentuale maggiore rispetto alle popolazioni attuali di queste aree. Anche costoro sono giunti alla conclusione che la discendenza dei popoli neolitici della ceramica lineare è direttamente paleolitica, essendo il fattore N1a un residuo paleolitico, tra l’altro presente, come già detto, nelle popolazioni attuali. Ovviamente la mutazione N1a è presente di meno oggi per via dei continui flussi e riflussi allogeni nella suddette aree. Marija Gimbutas ha proposto per questa Cultura la religiosità verso la Grande Madre, un culto diffusosi a partire dal Paleolitico superiore (9); tuttavia le immagini sacre si presentano molteplici, avendo dunque un sistema di credenze abbastanza complesso. In questa Cultura agricola del Neolitico europeo, nella quale ovviamente si pregava Madre Terra, vi era una fortissima separazione dei sessi, non l’egalitarismo femminista di tipo New Age che ci si aspetterebbe al giorno d’oggi: il rito funerario prevalente era l’inumazione, con donne e bambini sepolti sotto i pavimenti delle aree abitative ed i maschi, sempre accompagnati da un consistente corredo, in una necropoli (10) a distanza dal pagus e che fungeva anche da area rituale per il culto degli avi (e questo è stato anche osservato dalla Gimbutas, proprio dalla prima sostenitrice del ‘’matriarcato’’ neolitico). Solo a partire dal V millennio a.C., uomini e donne furono sepolti nelle necropoli, ma sempre mantenendo il concetto, non solo biologico ma anche rituale/spirituale, del dimorfismo sessuale. E poi le necropoli erano inoltre suddivise in aree claniche, dando dunque sempre risalto alla discendenza patrilineare. Gli inumati erano deposti in posizione rannicchiata entro ciste litiche molto rudimentali, ossia pozzi funerari ‘’foderati’’ con pietre, argilla o gesso. Ogni necropoli ospitava fino a 200 tombe (11). Nelle tombe maschili il corredo è costituito da asce lapidee, lame in selce, vaghi di collana della specie bivalve Spondylus; mentre nelle tombe femminili i suddetti vaghi di collana, vasi in ceramica e recipienti d’ocra; e non tutte le tombe erano dotate dello stesso corredo sia a livello quantitativo sia a livello qualitativo, essendovene alcune totalmente prive. Ciò significa anche una comunità abbastanza stratificata, nella quale maschi e femmine, adulti e piccini, ed inoltre maschi adulti ognuno con le sue singolari specificità partecipavano e contribuivano in modo differente al mantenimento in termini qualitativi e quantitativi della stessa, secondo il proprio ruolo biologico, secondo la propria funzionalità biologica.

Note

  1. Gimbutas, The Civilization of the Goddess: the world of Old Europe, Londra 1991; J.P. Mallory & F. Adams (a cura di), Encyclopedia of Indo-European Culture, 1997; C. Renfrew, Archaeology and Language: the puzzle of Indo-European origins, Londra 1990 (vedasi pag. 39).
  2. J.P. Mallory, op. cit., (si veda Baden Culture); J. Banner, Die Peceler Kultur, in Arch. Hungarica, n. 35, 1956.
  3. Vi assicuro che nel Neolitico in Europa già si scriveva, essendo infatti molte le prove archeologiche. Si pensi ai vari ritrovamenti fatti lungo il corso del Danubio, come quelli (i più noti) della Cultura di Lepenski Vir. Sappiate che proprio niente è venuto dall’Oriente: la Lineare A eteo-cretese è erede di questo sistema di scrittura neolitico europeo, dalla quale deriva la nota Lineare B degli Achei. La Lineare B è stata importata in Egitto e Medio-Oriente sempre tramite gli Achei, ed è lì che i Fenici hanno acquisito questa conoscenza: la scrittura. Essa è giunta tramite i Fenici nuovamente in Occidente, ma non trattasi di un loro retaggio culturale. Essa è nostro retaggio culturale, assolutamente.
  4. J.P. Mallory, op. cit., (si veda Lengyel Culture), Londra 1997.
  5. L’aplogruppo G2a sarebbe da attribuire a quelle popolazioni di fenotipo alpino/alpinide, che ovviamente non hanno origini anatoliche o caucasiche, mentre gli altri aplogruppi sarebbero J1 e J2, che usualmente attribuiscono alle popolazioni semitiche (aggiungendo anche E), che comunque non sono anatolici, né mesopotamici, né riferibili a popoli diffusori di tecniche agricole (basta vedere nel loro bagaglio tradizionale la considerazione di Caino, agricoltore disprezzato da Jahvé, che invece favoriva il mite pastorello Abele).
  6. Clark & S. Piggot, Prehistoric Societies, New York 1967, pagg. 240-246.
  7. M. Gimbutas, The Civilization of the Goddess: The World of Old Europe, San Francisco 1991, pag. 43.
  8. K.Z. Zoffmann, Anthropological sketch of the prehistoric population of the Carpathian Basin, in Acta Biol Szeged n. 44 (1-4), 2000, pagg. 75-79.
  9. M. Gimbutas, The Goddesses and Gods of Old Europe 6500–3500 BC: Myths and Cult Images: New and Updated Edition, Los Angeles (University of California Press) 1982, pag. 27; M. Gimbutas, The Civilization of the Goddess: The World of Old Europe, San Francisco 1991, pagg. 331-332; E.O. James, The Cult of the Mother-Goddess, New York 1994.
  10. M. Gimbutas, The Civilization of the Goddess, op. cit., pagg. 331-332.
  11. Ibidem.
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2 Responses

  1. Umberto Sansoni
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    Gran buon articolo, chiaro, e validamente didattico. Lineare la successione e discendenza delle culture indicate e ben basate le osservazioni alla tesi orientalista della scuola della Gimbutas. Vi è materiale per ben riflettere sulla tesi autoctonista. Complimenti all’autore.

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