La più serena celebrazione dello sport antico nel quinto canto dell’«Eneide»

pugilatoreIl quinto canto dell’Eneide rappresenta una specie di sorpresa per il lettore di Virgilio: qui non dolorose memorie e amori strazianti, non suono di corni guerreschi e clangore di spade, ma una pausa serena, gioiosa, rinfrescante, dedicata alla celebrazione dei giuochi in occasione del primo anniversario della morte di Anchise, padre dell’eroe troiano.

Il clima è nitido, pacato, vivace: giovani corpi pieni di agilità e di forza, sudore che scorre a rivoli giù per le schiene, incitamento agli atleti da parte dei capitani e del pubblico: nessuno, in questi momenti, pensa più ai dolori del passato e alle incertezze del domani; nessuno è preso da altro che dall’entusiasmo, dal coinvolgimento emotivo ed estetico davanti a un tale dispiegamento di vigoria fisica e di intensa volontà di vittoria.

Le squadre ed i singoli atleti, infatti, gareggiano, sì, per il piacere dell’attività sportiva, ma anche per il desiderio di gloria: i ricchi premi, che Enea ha posto in palio, non sono tanto lo scopo cui tendono gli sforzi dei partecipanti, quanto i segni visibili del riconoscimento alla loro bravura, alla loro eccellenza, alla loro severa disciplina. E non c’è da stupirsi se, a un certo punto, davanti a una manovra sbagliata, o forse troppo prudente, del pilota Menete, il giovane e ardente capitano della «Chimera», Gia, che si vede doppiare dalla «Scilla» di Cloanto, infuriato afferra il vecchio e lo scaraventa in mare, donde questi riemerge per aggrapparsi a uno scoglio, tutto grondante e sputando acqua salmastra. È, anzi, uno spettacolo che muove tutti quanti al riso; così come umoristica è la scena del corridore Niso che, scivolato a terra sul fango, intenzionalmente fa cadere anche Salio per favorire la vittoria dell’amico Eurialo e poi si presenta, con bella faccia tosta, ad Enea, ottenendo anch’egli un premo di consolazione: uno scudo che lo stesso duce dei Troiani gli consegna, non senza lasciarsi sfuggire un sorriso malizioso e, forse, complice.

eneideQuesta atmosfera festosa non è spezzata, ma solo resa più commovente, dalla gara del cesto, in cui si misurano due pugili dalle caratteristiche fisiche e psicologiche assai diverse: il vanitoso Darete, che, fiero della sua possanza, vorrebbe addirittura portarsi via il premio senza neanche battersi, dato che tutti sono rimasti muti e impressionati dalla sua mole gigantesca, e l’ormai anziano Entello, che scende in campo solo dietro sollecitazione del re Aceste: l’uno, si direbbe, attirato soprattutto dal premio, un toro dalle corna dorate, l’altro dal desiderio di chiudere la propria carriera con una impresa memorabile. Virgilio sa dosare la dimensione patetica, quando fa scivolare a terra e avvampare di vergogna Entello, meno scattante sulle gambe del suo avversario, e quella drammatica, quando fa stramazzare Darete sotto la gragnola di colpi che il siciliano gli sferra per riscattarsi davanti a se stesso e davanti al pubblico. Solo l’intervento di Enea salva Darete da morte certa, dichiarando conclusa la gara e vincitore Entello: ai compagni di Darete non resta che portar via il loro campione tramortito, con la testa ciondolante e tutto coperto di sangue, dalla cui bocca fuoriescono frammenti di denti fracassati. Anche la chiusa dell’episodio è dolcemente malinconica: prima di deporre, per sempre, i cesti che lo resero famoso, Entello offre lì, su due piedi, un sacrificio vivente al divino Erice, abbattendo con un solo, formidabile pugno sulla fronte, il toro che rappresentava il suo meritato premio di vincitore.

Un bel commento al quinto canto dell’Eneide è stato scritto da un insigne esploratore e studioso di cose polari, Silvio Zavatti, nella cui ricca personalità e nella cui vasta cultura trovavano spazio anche non secondari interessi filologici (cfr. il nostro articolo Silvio Zavatti filologo classico, apparso sul sito di Arianna Editrice in data 18/01/2008).

Ma anche il commento di Gabriele Parisi offre vivaci spunti di riflessione (da: G. Parisi, Nuovi temi per le scuole medie superiori, Torino, Società Editrice Internazionale, 1954, pp. 106-109):

«Il libro V, nel poema virgiliano, ha un posto centrale, vicino al canto del’Averno purificatore, come a significare la concreta visione dell’armonia che Virgilio aveva scoperto nella vita umana.

Espressione pienissima della vita, infatti, sono quei giuochi che Enea farà celebrare, a Drepano, per l’anniversario della morte del padre.

Quale forma di onoranza poteva meglio intonare all’importanza dell’avvenimento se non una prova della bellezza e della esuberanza giovanile dei corpi? Ciò non dovrebbe sembrare strano a chi sappia quanta cura i Greci ponessero dell’esercizio ginnico. Lo sport era un aspetto essenziale della civiltà greca, al punto da essere ritenuto sacro né più né meno che i Misteri Orfici o le grandi Feste Panatenee. Un dio bellissimo, Apollo, era il simbolo ufficiale del culto della perfezione delle membra.

Se i giuochi furono, nella coscienza di Omero e dei contemporanei, un rito in onore del morto, qui, nell’Eneide, sono anzitutto un’affermazione di vita, una libera e vera gioia dello spirito. E Virgilio stesso ne fa la descrizione con la piena consapevolezza di essere lui stesso uno sportivo, anzi meglio un ginnasta, stando alle notizie letterarie che ne fanno un abile marinaio, che per altro partecipò alla guerra adriatica del 49-48. Si può, così, spiegare il fatto che egli ponga la massima cura e il migliore entusiasmo nel ritrarre la regata delle navi, in una maniera veramente fresca e mossa.

In tutte le grandi feste, in qualsiasi pubblica solenne cerimonia, solevano i Greci celebrare i giuochi più svariati: il lancio del disco, la corsa, il tiro alla colomba, il pugilato, la lotta col cesto, ecc.

Siamo ora a Drepano, in Sicilia. Enea ha finito di libare sulla tomba del padre Anchise ed è giunto il momento che egli dia il via d’apertura ai giuochi solenni che ha indetto per la celebrazione dell’anniversario della morte dell’amato genitore. Ai giuochi è invitata la gioventù troiana e sicula, con la promessa di vistosi premi.

Per prima si svolge la gara delle navi, a cui partecipano la “Pistri”, la “Chimera”, la “Centauro” e la “Scilla”, rispettivamente comandate da Memmo, Gia, Sergesto e Cloanto. La gara è fatta con gran movimento e vera passione sportiva. Il primo premio è ottenuto da Cloanto.

Svoltasi questa gara, Enea dà il via alla corsa a piedi. Vi partecipano i troiani Eurialo, Niso e Dioro, i greci Salio e Patrio, i siculi Elimo e Panope, ed altri giovani ancora. Ottengono ricchi premi Salio e Niso.

Alla gara podistica segue il pugilato, la cosiddetta gara al cesto. Sono premi: un toto con le corna dorate per il vincitore, un elmo e una spada per il vinto. La lotta si svolge fra due campioni notevoli: Darete ed Entello. Darete, giovane, agile e bello, entra per primo in lizza, fra gli applausi di tutti i Troiani. Egli è così valido che nessuno osa dapprima cimentarsi con lui; poi Entello, spinto da Aceste, si decide ad affrontare quel campione, e così incomincia la gara.

Fatti portare due cesti di eguale peso e grandezza, Enea li consegna ai due atleti, che subito se li applicano; indi si levano, l’uno di fronte all’altro, sulla punta dei piedi, brandiscono le braccia, si ritraggono indietro colla testa levata, si pongono in guardia, si azzuffano. I pugni cadono giù a scroscio. Entello, già vecchio per affrontare un simile incontro, sta fermo a terra come un alto, antico pino, pronto a respingere gli attacchi del giovane avversario, che gli gira intorno, spiando l’occasione migliore per colpirlo.

Pertanto, Entello sferra un fulmineo pugno contro il Troiano, il quale riesce a parare il colpo, sicché il povero Entello, con tutto il peso della persona, stramazza a terra. Ma la sua vergogna è tale che gli fa ripristinare le forze d’un tempo e così s’avventa furente contro il giovane Darete, che a stento riesce a liberarsi, grazie all’intervento di Enea. Il vinto Troiano è portato dai suoi alle navi, con il capo penzoloni e tutto sanguinante, mentre il vecchio vincitore, rimasto lì sull’arena, prende in premio il toro dalle corna dorate, al quale infligge un colpo mortale fra le corna, ultima prova del suo incontro eccezionale, e il toro resta sull’arena con le ossa del capo interamente sfracellate.

Viene, quindi, il momento della prova dell’arco. Si punta su una colomba viva, legata in cima all’albero di una nave piantata sull’arena. I tiratori, scelti a sorte, sono Ippocoonte, Memmo, Eurizio e il vecchio Aceste. Il primo scaglia la sua feccia, infiggendola nell’albero; il secondo, colpisce la fune, recidendola e rendendo, così, libera la colomba, la quale viene colpita in pieno dal lesto Eurizio; ad Aceste non resta, quindi, nulla da colpire; perciò egli scaglia a vuoto in aria la sua freccia, che lascia nell’aria una striscia luminosa e poi scompare.

A tale prodigio, tutti restano sbigottiti, onde Enea, anch’egli meravigliato, sente il dovere di assegnare il primo premio ad Aceste, mentre il secondo lo consegna ad Eurizio, il terzo a Memmo ed il quarto ad Ippocoonte.

A conclusione dei grandi giuochi, vengono eseguiti spettacolari esercizi acrobatici da tre squadre di fanciulli, in numero di dodici ciascuna; una di esse è guidata dallo stesso figlio di Enea, Julo. Applausi calorosissimi vanno rivolti ai prodigiosi efebi, che chiaramente dimostrano quanto ancora possa in forza e bellezza la schiatta greca.

I giuochi sono ormai finiti, e, come nel cuore di quei lontani spettatori rimase ardente una fiamma di generoso entusiasmo per lo sport in genere, sentendosi quasi invogliati a viver meglio la loro vita, dopo il contatto con tanta pressione di forza e di fascino fisico, così anche noi, alla lettura di queste belle pagine dell’Eneide, ci sentiamo rinascere a vita migliore e più sana, disposti più generosamente al culto del bello e del buono».

Ci sembra, comunque, più che mai azzeccata l’osservazione di Adriano Bacchielli, secondo il quale la descrizione delle gare offre a Virgilio l’occasione per offrirci, sì, una serie di pezzi di bravura, tutti incentrati sul gioioso movimento dei corpi, pieni di forza e di salute; ma anche per evidenziare la superiorità dello spirito sul corpo, della forza morale su quella fisica. La vittoria, infatti, premia non solo il più forte, ma anche il più audace, il più generoso, quello che – pazientemente – si è preparato con più dedizione e con maggiore spirito di sacrificio: la vittoria, infatti, non si improvvisa e non giunge come un dono capriccioso della sorte, ma si costruisce con la pazienza, con la tenacia, e anche, come nel caso della gara navale, con la perizia tecnica, la decisione ed il coraggio di affrontare senza paura un rischio calcolato.

virgilioE, su tutto, rifulge l’arte superba di Virgilio: del poeta che, come osserva Enrico Turolla, sa raccogliere in un tono unico situazioni e personaggi che, in un artista meno dotato, risulterebbero inesorabilmente dispersi; e domina, inoltre, come ha notato Gabriele Parisi, l’amore per la vita: una particolare intonazione del canto, che vibra e palpita di amore per la vita, colta nel piacere del movimento e nell’entusiasmo della competizione.

Qui, in apparenza, abbiamo il Virgilio meno “virgiliano” possibile: un poeta che tratta la sua materia con tocco leggero, come una serie di schizzi o di svelti acquerelli; un poeta sorridente, che sembra godere anch’egli a quello spettacolo di salute e di giovinezza; che sembra fare il tifo egli stesso per la nave più veloce, per il corridore più scattante, per il pugile più poderoso. In questo senso parlavamo di una lieta sorpresa per il lettore dell’Eneide, che trova come un’oasi di ristoro in mezzo alle vicende drammatiche o pensose, che precedono e seguono questa sosta della flotta troiana in Sicilia, presso l’amichevole Aceste.

E tuttavia, è proprio giustificata questa sorpresa? È davvero così diverso, così contrastante il quinto canto, rispetto al tono prevalente nell’insieme del poema? A ben guardare, anche il quinto canto è dominato dalla mestizia di un Fato che incombe minaccioso e che rende piccola, fragile e, a volte, incomprensibile la vita umana, con le sue gioie e i suoi dolori. Si apre con il rogo sinistro che si leva dalla rocca di Cartagine per la morte di Didone, mentre le navi troiane salpano verso l’Italia e, subito, incappano in una tempesta paurosa, che le obbliga a cercar rifugio nel porto di Drepano; e si chiude con la more di Palinuro, il generoso pilota di Enea, che il Sonno maligno fa addormentare alla barra del timone e poi fa precipitare in acqua, ove morrà insepolto.

Perciò, con la rappresentazione dei ludi sportivi, è come se Virgilio avesse voluto concedere ai suoi eroi (e ai suoi lettori), una pausa gentile, tanto più serena se confrontata con i ludi funebri descritti da Omero in onore di Patroclo, dominati invece da uno spirito di ottusa ferocia e quasi di bestiale violenza. Una pausa che fa dimenticare, ma solo per poche ore, la terribile serietà della vita. Infatti Virgilio, naturaliter christianus, ama e rispetta la vita, proprio perché ne avverte i limiti dolorosi…

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Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

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