La moglie di Dio: politeismo e culto della Dea Madre nell’Ebraismo pre-mosaico

Pensare ad un culto della dea madre all’interno della religione ebraica potrebbe a prima vista sembrare completamente insensato: in fondo stiamo parlando della religione monoteistica per eccellenza, che non ammette altra divinità all’infuori di Jahweh e che condanna senza remissione ogni pur velata forma di deviazione politeistica.

Le cose stanno certamente così, ma solo se ci riferiamo all’Ebraismo post-mosaico, mentre, in realtà, poco o nulla si può sapere con certezza sulla natura di culto ebraico prima della migrazione dall’Egitto e quel poco che riusciamo a ipotizzare su basi razionali sembra andare decisamente contro la visione classica dell’Israelitismo.

Nella storia ebraica, Abramo adora una divinità chiamata “Elohim” (e vedremo che questo termine ha una enorme importanza, essendo il plurale di “El”), che viene anche chiamato “El Shaddai” (“l’onnipotente”) o con un paio di altre varianti, mentre l’uso del “tetragrammon” si sviluppa solo dopo l’incontro di Mosé con Dio sul Monte Sinai. Il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe è, per altro, un Dio che vuole sacrifici di animali ed espiazioni regolari, che si intromette sulla vita umana con repentinità sorprendente e che richiede atti spesso assurdi ai suoi fedeli. Il corretto rapporto umano verso questo Dio è l’obbedienza e addirittura la prima storia dell’umanità è una storia di persone oscillanti tra autonomia e obbedienza incondizionata a questo Dio antropomorfico, in cui abbondano le qualità umane e che spesso si mostra adirato verso il suo popolo. Il Dio della Genesi è, inoltre, chiaramente bisessuale, venendo alternativamente indicato con termini sia femminili che maschili: ad esempio si parla di una sua maternità (e non, come erroneamente tradotto in seguito, paternità), di un suo “parto con doglie” dell’umanità, mentre viene indicato come “padre”  solo due volte in tutto il primo libro della Torah [1].

Sulla base delle discrepanze tra visione divina pre-mosaica e post-mosaica, alcuni studiosi hanno concluso che un vero e proprio rigido monoteismo sia iniziato solo dopo l’Esodo, tra il 1300 e il 1200 a.C., mentre in precedenza, non diversamente dagli altri culti semiti, la religione ebraica era animista, cioè basata sul culto delle forze della natura, magistica, cioè sviluppata su pratiche di magia imitativa, e sostanzialmente antropomorfica, con un culto del trascendente che apparirà solo in un secondo tempo [2].

Soprattutto (e qui sta certamente l’elemento più stupefacente) era una religione politeistica, in cui singole tribù probabilmente adoravano divinità diverse. E’ soprattutto questa ipotesi che ha mosso le ire di letteralisti sia ebrei che cristiani, che hanno accusato i suoi sostenitori di trarre conclusioni fondate sul nulla e relative ad epoche su cui nessuna fonte ci può informare correttamente.

Lasciando da parte il fatto che la stessa obiezione può essere rivoltata proprio contro i letteralisti, dal momento che non un solo versetto della Genesi ci conferma che un Dio nazionale esistesse già al tempo dei patriarchi, in effetti qualche prova a sostegno di una teoria politeista esiste e deriva da una lettura attenta della Bibbia.

Cancelliamo per un istante tutta la costruzione teologica che è diventata parte del nostro substrato culturale e poniamo, anche solo per assurdo, come mera ipotesi, l’assunto che la religione ebraica non si sia sviluppata singolarmente ma derivi da un più ampio nucleo religioso-mitologico mediorientale, da cui derivano tutte le religioni del Mediterraneo orientale, incluse quelle sumeriche e greco-arcaiche. Sarebbe possibile trovare elementi a sostegno di questa idea?

Effettivamente sì. Solo per fare qualche esempio e senza scendere nei particolari, è impossibile non notare la quasi perfetta sovrapponibilità del racconto di Noè e del diluvio universale con quello del diluvio di Gilgamesh o di quello di Deucalione e Pirra; la somiglianza delle vicende di Eva con quelle di Pandora; la sovrapponibilità del racconto di Sodoma e Gomorra con il mito di Enki ed Enlil[3].

Ma, soprattutto, una teoria di questo genere renderebbe ragione di alcuni elementi davvero oscuri della Tanakh:

–       in Geremia 10:11 troviamo: “«Così direte loro: ‘Gli dèi che non hanno fatto i cieli e la terra scompariranno dalla terra e da sotto il cielo’»“, che, evidentemente, implica l’esistenza di più dei anche se con ruoli diversi;

–       in Genesi 1:2 abbiamo “In principio Dio creò il cielo e la terra“, che a prima vista potrebbe effettivamente sembrare un’affermazione molto monoteista, ma in cui, come accennato, se si legge l’originale ebraico, Dio è designato con la parola “Elohim” che è plurale (dei) di “El” o “Eloha” (dio), risultando come “il principio gli dei crearono…”, né vale riferirsi al verbo al singolare, visto che esso può tranquillamente indicare un collettivo (l’insieme degli dei) o pensare ad una variazione linguistica intervenuta nel corso del tempo, perché fino almeno a Genesi 2:4 “Elohim” viene usato per indicare dei (stranieri) al plurale;

–       in Esodo 22:28 leggiamo, nell’originale ebraico, “non bestemmierai contro gli dei e non maledirai il principe del tuo popolo“, che, ancora una volta, implica l’esistenza di più dei, né è fondata l’obiezione di alcuni che qui ci si riferisca a dei stranieri e falsi, perché non avrebbe alcun senso una proibizione di bestemmiare contro di loro;

–       in Salmi 136:1, infine, si recita “Lodate il Dio degli dei: perché la sua misericordia dura per sempre“, che ha poco senso se non pensando ad un pantheon di divinità di cui uno degli dei è a capo (un po’ come Zeus in Grecia o come in tutti i casi di politeismo antropomorfico).

Insomma, l’eventualità che in epoca mosaica si sia passati, attraverso canali usuali di inglobamento di divinità tribali minori da parte di divinità di tribù vincenti, da un politeismo di radice indo-europea al classico monoteismo ebraico e che tracce sparse del culto precedente siano rimaste all’interno della Tanakh esiste e appare non così remota.

E’ all’interno di questo quadro che va inserita la possibilità, in fondo piuttosto ovvia se si parte dal presupposto di un origine comune per le varie religioni mediterranee, di esistenza di una dea madre all’interno dell’antica religione israelita.

In questo senso, qualche anno fa, ha fatto piuttosto scalpore un testo scritto dal celebre storico e antropologo ebreo Raphael Patai [4] in cui l’autore ha sostenuto che la religione ebraica non solo storicamente avrebbe avuto elementi di politeismo, ma che tali elementi si sono concentrati specialmente sull’adorazione di dee e, in primo luogo, su un culto della dea madre. Il libro sostiene tale teoria attraverso l’interpretazione di numerosissime e difficilmente oppugnabili fonti archeologiche e testuali che non è qui il caso di ripercorrere e, in effetti, risulta assolutamente evidente che numerosi esseri divini femminili siano da tempi immemorabili presenti nel folklore ebraico e nelle rappresentazioni artistiche semitiche, da Astarte ad Anath, da Ashima o Asherah ai cherubini (che nell’originale ebraico sono “le cherubine”) nel Tempio di Salomone, da Matronit (Shekhinà), alla Sposa dello Shabbat, con, tra l’altro, ben precisi rituali ad esse legati, quali quelli di unione (“Yichudim”) di Dio con la sua Shekinah.

Proviamo a dare una rapida scorsa ad alcune di tali poco conosciute presenze femminili nella cultura ebraica.

Ashima (in ebraico אֲשִׁימָא) era una delle divinità protettrici delle singole città della Samaria menzionate espressamente  nella Bibbia ebraica, in un passo di 2 Re 17:30 in cui il processo di assorbimento delle divinità locali da parte della divinità nazionale Yahweh risulta piuttosto chiaro. In origine Ashima era una dea semitica occidentale della sorte legata alla dea accadica Shimti (“destino”), ma appare come “Ashim-Yahu” e “Ashim-Beth-El” nel tempio ebraico a Elefantina in Egitto[5].

Nel ciclo ugaritico di Baal / Hadad Anath, invece, è una violenta dea della guerra, una vergine guerriera che, in riferimenti più tardi, diventa amante di Baal, figlio di El, oppure una delle sue mogli dal momento che nella cultura semitica nord-occidentale era permesso avere più mogli e legami al di fuori del matrimonio erano normali per le divinità in tutti i pantheon.

Nella nord-cananea “Leggenda di Aqhat”, all’appena nato Aqhat, figlio del giudice Daniel, viene dato un meraviglioso arco con frecce creato per Anath dal dio artigiano Kothar-wa-Khasis. Quando Aqhat cresce la dea Anath cerca di ottenere l’arco da lui, offrendogli in cambio anche l’immortalità, ma Aqhat rifiuta. Come Inanna nell’Epopea di Gilgamesh (i richiami tra i due racconti sono piuttosto palesi), Anath si lamenta con El che le concede di riprendersi l’arco con la forza ma quando Anath invia contro Aqhat il suo aiutante Yatpan, il figlio di Daniel rimane ucciso (innescando una sorta di faida tra la sorella di Aqhat e Yatpan) e l’arco viene perduto in mare. Lo studioso Gibson[6], in una ipotesi a lungo osteggiata da altri antropologi culturali, ha riconosciuto in Atath una delle mogli di El, non a caso spesso definita nei poemi ugarici semplicemente “Elat” (“la dea” per eccellenza, in quanto moglie del dio per eccellenza). Di fatto, sebbene Anath non venga  mai menzionata nelle Scritture ebraiche come dea, il suo nome è apparentemente conservato nei nomi delle città Beth Anat e Anathoth, che fanno pensare ad una antica presenza di templi a lei dedicati e, tra l’altro, l’eroe Shamgar, figlio di Anath, è menzionato in Giudici 3:31 e in Giudici 5:06, facendo pensare alla possibilità di una sua interpretazione come semidio, sebbene John Day abbia pensato piuttosto ad un uomo posto sotto la protezione della dea[7]. Infine, è attestato che, verso il 410 a.C., i mercenari ebrei di Elefantina (l’odierna Assuan) adorassero una dea chiamata Anat-Yahu (Anath-Jahvè), venerata nel tempio originariamente costruito dai profughi della conquista babilonese della Giuda.

Se per Ashima e Anath possiamo parlare, comunque, di divinità in qualche modo straniere, retaggi periferici (samaritani e cananei) di culti precedenti, pienamente appartenente alla tradizione giudaica è la figura sacra della Shekhinah.

Il termine Shekhinah deriva dal verbo ebraico “שכן”, con il significato letterale di “stabilirsi, abitare” (ed è in questo senso molto presente nella Tanakh, ad esempio in Esodo 40:35, Genesi 09:27 e 14:13, Salmi 37:3, Geremia 33:16) e può  significare anche “regalità” o “residenza regale” (come nel Salmo 132:5): conseguentemente, nel classico pensiero ebraico, la Shekhinah si riferisce ad una abitazione o a una dimora della presenza divina, nel senso che, mentre in prossimità della Shekhinah, la connessione a Dio è più facilmente percepibile.

Ciò che risulta più interessante è la personificazione della Shekhinah con attributi femminili presente nel Talmud, che ha fatto pensare[8] ad un retaggio culturale riferito ad una divinità arcaica, una sorta di “sposa di Dio”, la cui antropomorfizzazione sembra riemergere in ambito cabbalistico, in particolare negli scritti di Isaac Luria, nel cui celebre “Inno dello Shabbat” troviamo:

Io canto inni

per entrare nel cancello

del Campo

di mele santo.

Una nuova tavola

ci prepariamo per Lei,

un candelabro getta

la sua bella luce su di noi.

Ondeggiando a destra e sinistra

la sposa si avvicina,

in gioielli sacri

e vestimenti per festa …[9]

Allo stesso modo, un paragrafo nello Zohar inizia così: “Si deve preparare un comodo sedile con cuscini ricamati […] come uno che prepara un baldacchino per una sposa, perché essa è regina e  sposa per lo Shabbat […] È per questo che i maestri della Mishna erano soliti uscire alla vigilia di Shabbat per riceverla sulla strada, e dicevano: ‘Vieni sposa, vieni sposa’. E si deve cantare e gioire a tavola in suo onore […] si deve ricevere la Dama con molte candele accese, tanta gioia, bei vestiti, e una casa abbellita …[10]

Proprio su queste basi Patai[11] e molti altri dopo di lui hanno visto in questa figura, chiaramente simbolica, il riassorbimento post-mosaico di un culto tribale riferito ad una dea della conoscenza, a sua volta, come accennato, antropomorfizzazione di un sentire comune probabilmente simile all’eggregoro.

Tra le divinità del pantheon semitico e dell’Israelitismo pre-mosaico, comunque, la più importante doveva essere quella che più da vicino riguarda il nostro discorso sul femminino sacro: Asherah (in ebraico אֲשֵׁרָה), la dea madre semitica per eccellenza, il cui culto doveva essere diffusissimo in tutta l’area del Mediterraneo orientale se, pur con nomi leggermente diversi, la ritroviamo anche area accadica (Ashratum / Ashratu), ittita (Asherdu, Ashertu) e ugarica (Athirat). In a dea ugaritico (più esattamente trascritto come Aṯirat)[12].

Nella letteratura ebraica la troviamo in particolare nel “Libro di Geremia” scritto intorno al 628 a.C. (Ger. 7:18 e Ger. 44:17-19, 25), in cui ci si riferisce a Asherah come “regina del cielo”(לִמְלֶכֶת הַשָּׁמַיִם).

In precedenza, nei testi di Ugarit (prima del 1200 a.C.) Athirat è quasi sempre definita come “Colei che cammina sul mare” ma, soprattutto, come “la creatrice degli dei (Elohim)”, essendo la consorte del dio El (e, infatti, tra i suoi appellativi figura anche “Elat”, forma femminile di El), caratteristica che mantiene anche in ambito ittita (Asherdu è sposa di Elkunirsa, “El il Creatore della Terra”).

Ciò che stupisce è come figurine identificata con Asherah siano sorprendentemente comuni nella documentazione archeologica dell’area palestinese, ad indicare la popolarità del suo culto fin dai primi tempi dell’esilio babilonese e come siano state trovate numerose iscrizione che collegano Yahweh e Asherah: un ostracon dell’VIII secolo a.C., rinvenuto dagli archeologi israeliani a Kuntillet Ajrud nel 1975, ad esempio, recita “io ho pregato su di voi la benedizione di YHVH nostro custode e della sua Asherah“, mentre una iscrizione di Khirbet el-Kom vicino a Hebron, reca impresso “Sia benedetto il Signore e la sua Ashera, che dai suoi nemici che lo hanno salvato!”. Allo stesso modo, tenendo presente che il simbolo di Ashera era normalmente una stele liscia, una colonna o un albero”, è impossibile non notare la quantità di raffigurazioni di questo tipo trovare in Israele e come “pali sacri” siano citati in Esodo, Deuteronomio, Giudici, 2Cronache, Isaia, Geremia e Michea[13].

Sia le prove archeologiche che i documento dei testi biblici dimostrano, dunque,  tensioni in periodo monarchico tra gruppi che supportavano adorazione del Signore accanto a divinità locali come Ashera e quelli che imponevano il culto del solo Yahweh: la ​​fonte deuteronomista dà certamente prova di una forte partito monoteiste durante il regno di re Giosia, alla fine del VII secolo a.C., ma la forza e la prevalenza del culto monoteistico in periodi precedenti è ampiamente dibattuta, sulla base delle interpretazioni di come gran parte della storia del Deuteronomio sia basata su fonti anteriori e di quanto tali fonti possano essere state rielaborate da redattori deuteronomistici per sostenere il loro punto di vista teologico.

E’ in questo quadro che un certo numero di studiosi, tra cui gli archeologi William G. Dever[14] e Judith Hadley[15] sostengono che, in un quadro di diffuso politeismo arcaico, Asherah, vista come dea madre creatrice e, conseguentemente, come trasposizione religiosa della fertilità e della fecondità, rappresentasse una dea consorte del Signore nella religione israelita popolare del periodo monarchico e fosse venerata come la Regina del Cielo. Altri (da Mark S. Smith a John Day e Andre Lemaire[16]) pur non obiettando sull’esistenza di un culto politeista e sulla presenza di divinità femminili nell’Israelitismo arcaico, negano che nell’Età del Ferro si potesse parlare di determinazioni sessuali femminili paritarie in campo teologico e ritengono che, piuttosto, in un progressivo passaggio verso il monoteismo, il culto di Asherah rappresentasse una forma di mediazione subordinata al Signore.

Recentemente, infine, in un documentario della BBC, la Dott.ssa Francesca Stavrakopoulou, Senior Lecturer presso l’Università di Exeter ha dichiarato: “La maggioranza dei biblisti di tutto il mondo ormai accetta come prova convincente che Dio una volta avesse una consorte”  e, intervistato nel medesimo documentario riguardo alla possibilità che gli Ebrei fossero monoteisti, avendo quindi una religione distinta dalla religione cananea, il Prof. Herbert Niehr dell’Università di Tubinga ha dichiarato: “Tra il X secolo e l’inizio del loro esilio nel 586 a.C. il politeismo era la religione normale in tutta Israele; solo in seguito le cose cominciarono a cambiare e molto lentamente. Direi che è corretto parlare di monoteismo solo per gli ultimi secoli, forse solo dal periodo dei Maccabei, cioè solo a partire dal II secolo a.C.[17].

Ecco, allora, che l’ipotesi di un culto primario atavico mediorientale della dea madre associato ad un culto maschile e proveniente da un nucleo primario diffuso in tutto bacino mediterraneo comincia a prendere sempre più corpo e con esso l’ipotesi che, ancora una volta, in Israele come in molte altre civiltà antiche, solo l’impulso di una società progressivamente sempre più androcratica abbia portato allo schiacciamento di tale culto primario e naturale, sviluppando un monoteismo maschile capace di assorbire completamente le istanze religiose precedenti ma, a quanto pare, non di cancellarne completamente le tracce.

Note


[1] J. E. McFadyen, Introduction to the Old Testament (Classic Reprint), Forgotten Books 2010, pp. 18 ss. passim.

[2] M. Kister, Ancient Gods: Polytheism in Eretz Israel and Neighboring Countries from the Second Millenium Bce to the Islamic Period , Eisenbrauns 2008, passim.

[3] M.S. Smith, The Early History of God: Yahweh and the Other Deities in Ancient Israel,  Wm. B. Eerdmans Publishing Company 2002, pp. 46-84 passim.

[4] R. Patai, The Hebrew Goddess, Wayne State University Press 1990.

[5] M.S. Smith, God in Translation: Deities in Cross-Cultural Discourse in the Biblical World, Wm. B. Eerdmans Publishing Company 2010, ppp. 112 ss.

[6] J.C. L. Gibson, Genesis, Westminster John Knox Press 1982, pp. 203 ss.

[7] J. Day, Yahweh and the Gods and Goddesses of Canaan, Sheffield Academic Press 2002, pp. 161-163.

[8] R. Patai, Citato, p. 93 ss.; J.Day, Citato, pp.63 ss.

[9] Citato in J.D. Dunn, N. Snyder, E. Yattah, Window of the Soul: The Kabbalah of Rabbi Isaac Luria, Weiser Books 2008, pp. 98-99.

[10] Zohar, I, 21.

[11] R. Patai, Citato, p. 211.

[12] D. Penchansky, Twilight of the Gods: Polytheism in the Hebrew Bible, Westminster John Knox Press 2005, pp. 108 ss.

[14] W.J. Dever, Did God Have A Wife? Archaeology And Folk Religion In Ancient Israel, Wm. B. Eerdmans Publishing Company 2005, p.72 ss.

[16] M.S. Smith 2003, Citato, J.Day, Citato, A. Lemaire, The Birth of Monotheism: The Rise and Disappearance of Yahwism, Biblical Archaeology Society 2007.

[17] “Bible’s buried secrets”, BBC – febbraio 2011.

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Nato a Londra nel 1968 ma italiano di adozione, si laurea a 22 anni con il massimo dei voti in Lettere Moderne presso l'UCSC di Milano con una tesi sui rapporti tra cultura cabbalistica ebraica e cinematografia espressionista tedesca premiata in Senato dal Presidente Spadolini. Successivamente si occupa di cinema presso l'Istituto di Scienze dello Spettacolo dell'UCSC, pubblicando alcuni saggi ed articoli, si dedica all'insegnamento storico, ottiene un Master in Marketing a pieni voti e si specializza in pubblicità. Dal 2003 si interessa di storia e simbologia religiosa: nel 2006 pubblica Il Graal è dentro di noi, nel 2007 Non per mano d'uomo? e nel 2009 L’anima e la svastica. Nel 2008 ottiene, negli USA, "magna cum laude", un dottorato in Studi Religiosi a cui seguono un master in Studi Biblici e un Ph.D in Storia della Chiesa, con pubblicazione universitaria della tesi dottorale dal titolo Nicea: what it was, what it was not (2009). Collabora con riviste cartacee e telematiche (Hera, InStoria, Archeomedia) e portali tematici, è curatore della rubrica "BarBar" su www.storiamedievale.org e della rubrica "Viaggiatori del Sacro” su www.edicolaweb.net. Sito internet: http://www.lawrence.altervista.org.

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