Bernardino Ochino[1] risulta oggi uno dei personaggi più suggestivi e pittoreschi nel panorama del Protestantesimo italiano del periodo della Riforma, con il suo essere considerato un genio dell’oratoria e un santo monaco in tutta Italia ma anche con il suo essere capace di mantenere una estrema coerenza con le proprie idee fino a perdere ogni privilegio e a scomparire sotto una nube di scetticismo nel lontano nord.
Per molti versi, la sua parabola ricorda da vicino quella di tre altri monaci di grande eloquenza più o meno suoi contemporanei: Savonarola, che finì bruciato a Firenze sul rogo, Padre Gavazzi, che divenne un calvinista e morì pacificamente a Roma, e Père Hyacinthe, che lasciò l’Ordine carmelitano e il pulpito di Notre Dame a Parigi senza poi, però, entrare in alcuna Chiesa protestante.
A differenza di costoro, purtroppo la figura di Ochino appare oggi piuttosto dimenticata, ma la sua storia merita senza dubbio di essere raccontata.
Nato nel 1487 nella Siena culla di sei papi, di una cinquantina di cardinali e di santi del calibro della famosa Santa Caterina, ma anche di innovatori religiosi e liberi pensatori “eretici” come Lelio e Fausto Sozzini, Bernardino Tommassini (detto Ochino dalla natia Contrada dell’Oca), nel 1504, appena diciassettenne, entrò nell’Ordine Francescano, che, all’epoca, gli appariva il più vicino agli ideali evangelici di povertà e abnegazione assoluta all’opera divina. Dopo aver conseguito la laurea in medicina a Perugia, a 38 anni il suo zelo lo portò ad aderire al ramo più severo della famiglia francescana, quell’Ordine dei Frati Cappuccini che era stato da poco fondato da Fra’ Matteo Bassi nel 1525.
Intanto, la sua fama, sia di santità di vita che per le capacità oratorie, stava diffondendosi, anche grazie alla prodigiosa capacità di apprendimento, che superava di gran lunga quella dei suoi confratelli, continuamente dimostrata, tanto che, sebbene alcuni considerassero la sua formazione scritturale un po’ manchevole (non conosceva le lingue originali della Bibbia), venne eletto per due volte Vicario Generale dell’Ordine.
Fu quello il periodo per molti versi più fulgido della sua esistenza: era venerato da molti come un santo per il suo capacità di ascesi e di mortificazione della carne, Vittoria Colonna, la donna più intellettualmente dotata d’Italia, e la duchessa Renata di Ferrara erano tra i suoi ferventi ammiratori e, addirittura, Papa Paolo III mirava a fare di lui un cardinale.
Di fatto, Ochino era il predicatore più popolare d’Italia a quel tempo, da molti paragonato per l’abilità di far presa sulla mente e sui sentimenti dei suoi ascoltatori ad un nuovo Savonarola (che era morto nel 1498): durante i Quaresimali le sue prediche erano richieste ovunque, da Siena a Napoli, da Roma a Firenze e a Venezia, e ovunque attraeva folle di persone che lo ascoltavano come se fosse un profeta mandato da Dio.
E’ difficile per noi comprendere dalle sue prediche stampate come ottenesse un tale effetto sui suoi contemporanei, ma certamente va tenuto conto che i buoni predicatori erano rari in Italia e che, molto probabilmente, l’effetto sul pubblico popolare dipendeva anche dall’azione oltre che dalla dizione, dal magnetismo della sua personalità, dalla forza drammatica che imprimeva alle sue parole, dai gesti vivaci e, forse, anche dalla fama della sua santità monastica, dal suo volto emaciato, dagli occhi scintillanti, dalla sua alta statura e dalla figura imponente.
Il ritratto di Ochino che campeggia sulla copertina del suo “Nove Sermoni”, pubblicato a Venezia nel 1539, ce lo mostra come un tipico monaco cappuccino, con il capo chino, lo sguardo all’insù, gli occhi profondamente affossati sotto le spesse sopracciglia, il naso aquilino, la bocca semiaperta, la testa rasata nella chierica, la barba che scende fino al petto.
Insomma, Fra’ Bernardino aveva l’aspetto, le “gravitas” e il carisma perfetti per un predicatore e gli effetti dei suoi sermoni dovevano, dalle testimonianze coeve, essere davvero notevoli. Il cardinale Sadoleto lo paragonò agli oratori dell’antichità, uno dei suoi ascoltatori a Napoli disse: “Quest’uomo potrebbe far piangere le pietre“[2] e il cardinale Bembo, che, con Vittoria Colonna, se lo era assicurato a Venezia per tutta la Quaresima 1539, scrisse alla Colonna stessa (23 febbraio): “L’ho sentito per tutta la Quaresima con tanto piacere che non posso lodarlo abbastanza. Non ho mai sentito sermoni più utili ed edificanti dei suoi e ben comprendo perché tu lo stimi tanto. Predica in un modo molto più cristiano di tanti altri predicatori, con più vera compassione ed amore e dice cose che sono un balsamo per l’anima ed elevano i pensieri. Tutti sono soddisfatti di lui” e, pochi mesi dopo (il 4 aprile), sempre scrivendo alla Colonna aggiunse: “Il nostro Fra’ Bernardino è letteralmente adorato qui. Non c’è nessuno che non lo lodi al cielo Come le sue parole penetrano in profondità, come elevano e confortano i suoi discorsi!“[3]
Persino Pietro Aretino, il poeta più frivolo e immorale del tempo, venne pur superficialmente e per breve tempo convertito dalla predicazione di Ochino e scrisse a Paolo III (21 aprile 1539): “Bembo ha vinto mille anime al Paradiso portando a Venezia Fra Bernardino, la cui modestia è pari alla sua virtù Io stesso ho cominciato a credere nelle esortazioni strombazzati dalla bocca di questo monaco apostolico..“
Nello steso periodo, il Cardinal Commendone, vescovo di Amelia e in seguito acerrimo nemico di Ochino, dà questa descrizione di lui: “Ogni cosa in Ochino ha contribuito a rendere l’ammirazione della moltitudine tale fino quasi ad oltrepassare tutti i limiti umani, la fama della sua eloquenza, la sua avvenenza, il suo modo accattivante, il suo avanzare degli anni, il suo stile di vita, l’abito ruvido dei Cappuccini, la barba lunga fino al petto, i capelli grigi, il viso pallido e magro, l’aspetto artificiale della debolezza del corpo, infine, la reputazione di una vita santa. Ovunque dovesse parlare ai cittadini una folla si radunava intorno a lui, nessuna chiesa era abbastanza grande per contenere la moltitudine degli ascoltatori […] Ovunque andasse, la folla dopo averlo sentito lo seguiva. Era onorato non solo dalla gente comune, ma anche da principi e re. Dovunque si recasse gli veniva offerta ospitalità, veniva accolto al suo arrivo e scortato alla sua partenza dai dignitari del luogo. Egli stesso aveva saputo aumentare il desiderio di ascoltarlo, con la riverenza che mostrava all’obbedienza alla regola del suo ordine: viaggiava solo a piedi e non è mai stato visto che si facesse trasportare, anche se la sua salute era delicata e la sua età avanzata Anche quando Ochino fu ospite dei nobili, un onore che non sempre poteva rifiutare, nulla avrebbe mai potuto indurlo, nello splendore dei palazzi e nello sfarzo degli abbigliamenti e degli ornamenti, ad abbandonare il suo stile di vita: quando era invitato a tavola, mangiava un solo piatto molto semplice e beveva un po’ di vino, se un morbido letto era stato preparato per lui, chiedeva il permesso di riposare sul pavimento e, steso il mantello a terra, quivi si riposava. Queste pratiche gli guadagnarono un onore incredibile per tutta Italia“[4].
Insomma, per buona parte della sua vita Ochino fu venerato come una sorta di santo cattolico, pronto per altissimi incarichi ecclesiastici ed, eventualmente, per l’onore degli altari appena fosse morto.
Il fatto è che, evidentemente, fama e onori non rappresentavano nulla per lui. Aveva già superato i cinquant’anni quando cominciò a perdere fiducia nella Chiesa romana. Le prime tracce del cambiamento si trovano nei suoi “Nove Sermoni” e nei “Sette Dialoghi”[5], pubblicati a Venezia rispettivamente nel 1539 e nel 1541: in qualche modo sembra essere passato attraverso un’esperienza simile a quella di Lutero nel convento di Erfurt, solo forse meno profonda e duratura, con una vana ricerca di perfezione monastica che lo condusse alla disperazione di se stesso, per poi trovare la pace nella certezza della giustificazione per fede nei meriti di Cristo.
Finché era un monaco, così ci informa, era andato anche oltre le richieste del suo ordine nella celebrazione di messe, nella recita di preghiere, nel confessare peccati insignificanti una o due volte al giorno, nel digiuno e nella mortificazione del suo corpo. Ma, poco a poco, aveva maturato la convinzione che Cristo avesse già pienamente soddisfatto le necessità salvifiche dei suoi eletti e avesse conquistato il Paradiso per loro, che i voti monastici non solo non fossero necessari ma fossero addirittura immorali e che la Chiesa romana, anche se brillante in apparenza, fosse del tutto corrotta e un abominio agli occhi di Dio.
In questo periodo di transizione venne certamente molto influenzato dal suo rapporto personale con Juan de Valdés e Pietro Martire. Valdés, un nobile spagnolo che visse a Roma e Napoli, era un mistico evangelico, vero autore dello straordinario testo Sul Beneficio della morte di Cristo (pubblicato a Venezia nel 1540) che, attribuito a Aonio Paleario (un amico di Ochino), aveva avuto una vasta circolazione in Italia, finché non era stato ritirato e bruciato pubblicamente a Napoli nel 1553.
Durante la Quaresima del 1542, Ochino predicò il suo ultimo ciclo di sermoni a Venezia, mentre gli agenti papali lo stavano già tenendo d’occhio. Avendo questi segnalato alcune sue espressioni come eretiche, gli venne immediatamente proibito di predicare e fu convocato a Roma.
Il periodo era quello della “controriforma” imperante: Caraffa[6] aveva convinto Papa Paolo III a ricorrere a misure violente per la repressione dell’eresia protestante e l’Inquisizione romana stava per essere istituita, con la bolla “Licet ab initio” del 21 luglio 1542, sotto la direzione di sei cardinali con il potere plenario di arrestare e imprigionare chiunque fosse sospettato di eresia, confiscando i beni del “presunto eretico”.
Il famoso generale dei Cappuccini doveva essere la prima vittima illustre del “Sant’Uffizio”.
Ochino partì per Roma nel mese di agosto. Passando per Bologna, ricevette un invito del nobile cardinale Contarini, che l’anno precedente aveva incontrato Melantone e Calvino durante il “Colloquio di Ratisbona” ed era sospettato di appoggiare la dottrina luterana della giustificazione e di essere a favore di una moderata riforma. Il cardinale era malato (morì poco dopo , il 24 agosto) e il colloquio fu breve, ma lasciò in Ochino l’impressione che non vi fosse alcuna possibilità per lui a Roma.
Continuando il suo viaggio, a Firenze incontrò Pietro Martire, che era in una condizione simile alla sua, e venne avvertito del pericolo che attendeva entrambi.
Sentiva di dover scegliere tra Roma o Cristo, tra il silenzio o la morte e la fuga era l’unica via d’uscita da questa alternativa: decise, dunque, di mettere in salvo la propria vita per poterla ancora offrire a Dio, anche se aveva già cinquantasei anni, aveva i capelli grigi e era indebolito da una vita ascetica.
“Se rimango in Italia“, confidò ad un amico, “la mia bocca è chiusa, se fuggo, posso con i miei scritti continuano a lavorare per la verità con qualche prospettiva di successo“[7].
In realtà, è piuttosto evidente che non scappasse per paura ma per una sincera conversione al Protestantesimo: allontanandosi dal papato, perdeva tutto, compresa qualunque forma di sussistenza, nel momento in cui, da oratore quale era, non ha alcuna possibilità di mettere a frutto le sue capacità in un paese in cui si parlava una lingua straniera.
Nel mese di agosto 1542, dunque, lasciò Firenze e Pietro Martire lo seguì due giorni dopo. Ascanio Colonna, fratello di Vittoria e suo amico, lo aveva dotato di un servo e di un cavallo e a Ferrara la duchessa Renata gli diede vestiti e altre cose necessarie e probabilmente anche una lettera di presentazione per il suo amico Calvino.
Secondo Boverius, l’annalista dei Cappuccini, che deplora la sua apostasia come una grande calamità per l’ordine, venne accompagnato nel viaggio da tre fratelli laici di Firenze, ma la cosa non risulta da nessun altro resoconto.
Procedette attraverso i Grigioni fino a Zurigo, dove si fermò due giorni e venne gentilmente ricevuto da Bullinger, che parlerà di lui, in una lettera a Vadian del 19 dicembre 1542, come di un uomo venerabile, famoso per la santità di vita e l’eloquenza.
Arrivò a Ginevra intorno al settembre 1542 e qui rimase per tre anni: predicò nella piccola Congregazione Italiana, ma si dedicò principalmente ad opere letterarie con cui sperava di raggiungere un pubblico più vasto nella sua terra natale.
Era profondamente impressionato dalla prosperità morale e religiosa di Ginevra, che non aveva visto prima in nessun luogo, e ce ne fornisce una descrizione favorevole in uno dei suoi sermoni per gli italiani: “A Ginevra, dove mi trovo ora residente“, scrisse nel mese di ottobre 1542, “i cristiani eccellenti ogni giorno predicano la pura parola di Dio. Le Sacre Scritture vengono costantemente lette e discusse apertamente, e ognuno è libero a proporre ciò che il Santo Spirito gli suggerisce, così come, secondo la testimonianza di Paolo, accadeva nella Chiesa primitiva. Ogni giorno c’è un servizio pubblico di devozione. Ogni Domenica vi è l’istruzione catechetica dei giovani, dei semplici e degli ignoranti. L’imprecazione e la bestemmia, l’impudicizia, il sacrilegio, l’adulterio, e la vita impura, che prevalgono in molti dei luoghi in cui ho vissuto, sono sconosciuti qui. Non ci sono protettori e prostitute. Le persone non sanno cosa è l’ostentazione e sono tutte vestita in modo decoroso; i giochi d’azzardo non sono consueti; la benevolenza è così grande che non vi è necessità per i poveri di chiedere la carità; le persone si ammoniscono a vicenda in modo fraterno, come Cristo prescrive; le cause civili sono bandite dalla città; […] né vi è alcuna simonia, omicidio o spirito di partito, ma solo pace e carità. D’altra parte, non ci sono organi qui, nessun rumore di campane, nessun canto sfarzoso, non vi sono candele e lampade, né reliquie, quadri, statue, baldacchini o abiti splendidi , nessuna farsa o fredda cerimonia. Le chiese sono completamente libere da ogni idolatria“[8].
In questo ambito, Ochino scrisse una giustificazione della propria fuga in una lettera a Girolamo Muzio (7 aprile 1543), in un’altra lettera ai magistrati di Siena diede piena confessione della sua fede basata principalmente sul capitolo ottavo della Lettera ai Romani (3 Novembre, 1543) e pubblicò, in rapida successione, sette volumi di sermoni italiani e di saggi teologici.
Dice nella prefazione a uno dei sermoni: “Ora, mia cara Italia, non posso più parlare con te di bocca in bocca, ma io ti scriverò nella tua lingua, che tutti mi possano capire. Il mio conforto è che Cristo. così ha voluto, che, mettendo da parte tutte le considerazioni terrene, venissi guidato solo dalla verità.“[9]
In questo periodo i suoi sermoni sono strettamente evangelici e mostrano tutta la tendenza mistica che ci si aspetterebbe da un discepolo di Valdés: insiste molto sulla unione vitale dell’anima con Cristo mediante la fede e l’amore, insegna che la salvezza è gratuita e deriva unicamente dai meriti di Cristo ed esalta la dottrina calvinista dell’elezione sovrana, ma senza sottolineare gli aspetti più pesanti di riprovazione dei peccatori.
Sempre a Ginevra scrisse anche una parafrasi popolare con commento della Epistola ai Romani (1545), che venne tradotta sia in latino che in tedesco e, in seguito, pubblicò alcuni sermoni sulla Lettera ai Galati, che furono stampati a Augsburg nel 1546.
E’ un periodo di buoni rapporti con Calvino, che generalmente non si fidava gli italiani[10], ma che, dopo un’indagine accurata, era stato favorevolmente impressionato da Ochino “studioso eminente e di vita esemplare“[11], tanto da descriverlo in una lettera a Viret del settembre 1542 come rifugiato venerabile, che viveva a Ginevra a proprie spese e che prometteva di essere di grande aiuto se fosse riuscito a imparare il francese e, in una lettera a Melantone del 14 Febbraio 1543, come “eminente ed eccellente uomo, che ha provocato non poco scalpore in Italia con sua partenza” e raccomandarlo a Myconius di Basilea come “meritevole di alta considerazione in tutto il mondo“[12] in una missiva di due anni dopo (15 agosto 1545).
Trasferitosi per breve tempo a Basilea, Ochino fece amicizia con Castellione e lo impiegò nella traduzione delle sue opere dall’italiano: è probabile che proprio questa amicizia possa aver scosso la sua fiducia nella dottrina calvinista della predestinazione e della limitatezza del libero arbitrio.
Certamente sappiamo che, lasciata Basilea, l’ex Cappuccino non tornò a Ginevra ma lavorò per qualche tempo come predicatore e autore a Strasburgo, dove incontrò il suo vecchio amico Pietro Martire, e ad Augsburg, dove ricevette dal consiglio comunale un regolare stipendio di duecento fiorini come predicatore per gli stranieri: si trattava del suo primo impiego regolare dopo aver lasciato l’Italia ed è probabile (anche se non certo) che proprio ad Augsburg, in cui viveva con il cognato e la sorella, abbia deciso di sposarsi.
Intanto gli eventi internazionali stavano radicalmente cambiando il quadro di riferimento. Dopo la sua vittoria sulla Lega di Smalcalda l’imperatore Carlo V fece trionfale ingresso ad Ausburg il 23 gennaio 1547 e immediatamente chiese che il monaco apostata, la cui potente voce aveva sentito echeggiare dal pulpito a Napoli undici anni prima, si consegnasse alle autorità: i magistrati cittadini permisero, però, a Ochino di fuggire nella notte ed egli si rifugiò a Zurigo (dove incontrò per caso Calvino, che era giunto nello stesso giorno) e poi a Basilea.
Qui ricevette, nel 1547, una chiamata in Inghilterra dell’arcivescovo Cranmer, che aveva bisogno di aiuti stranieri nello sviluppo della Riforma sotto i favori del giovane re Edoardo VI. Nello stesso periodo Cranmer chiamò anche Pietro Martire, poi professore a Strasburgo, a coprire una cattedra teologica a Oxford: i due fecero il viaggio verso le isole britanniche insieme, in compagnia di un cavaliere inglese che fornì loro il corredo e i soldi per le spese di trasferimento.
Ochino lavorò sei anni a Londra, dal 1547 al 1554, in quello che probabilmente fu il più felice della sua vita travagliata, sia come predicatore tra i mercanti e rifugiati italiani, sia come scrittore a favore della Riforma. La sua famiglia presto lo seguì e da subito egli godette della fiducia di Cranmer, che lo nominò canonico di Canterbury (sebbene non risiedesse mai in quella città) e gli assegnò uno stipendio adeguato tratto dalla “borsa privata” del re.
La opera principale di Ochino di quel periodo è un dramma teologico contro il papato dal titolo Una tragedia o Un dialogo sull’ingiustamente usurpato primato del Vescovo di Roma [13], provvisto di una dedica lusinghiero a Edoardo VI: si tratta, sulla scia di altre opere di Riformati, di una accusa al Papa di essere l’Anticristo seduto nel tempio di Dio previsto dalle Scritture, cosa che si cerca di provare in una serie di nove conversazioni, con notevole abilità drammatica ma imperfette informazioni storiche, mostrando la progressiva crescita del papato da Bonifacio III e dall’imperatore Foca (607) alla sua caduta in Inghilterra sotto Enrico VIII e Edoardo VI.
Purtroppo per l’ex-monaco, questo periodo idilliaco doveva ben presto terminare con l’ascesa al trono della cattolicissima Maria Tudor: Ochino dovette fuggire, e se ne andò una seconda volta a Ginevra. Arrivò lì un giorno dopo il rogo di Serveto (28 Ottobre 1553), che disapprovò profondamente, ma non per questo perse il rispetto per Calvino, che definì, in una lettera del 4 Dicembre 1555, “l’ornamento del secolo“.
Qualche giorno dopo accettò una chiamata come pastore della comunità italiana a Zurigo e quivi si associò liberamente con Pietro Martire, ma divenne, soprattutto, molto intimo di Lelio Sozzini, anch’egli nativo di Siena, che, con le sue opinioni scettiche, esercitò una notevole influenza destabilizzante sulle sue certezze.
E’ negli anni zurighesi che Ochino scrisse un Catechismo per la sua Congregazione (poi pubblicato a Basilea, 1561), strutturato sotto forma di dialogo tra un “Illuminato” (il catecumeno) e un “Ministro” e suddiviso nelle consuete cinque parti canoniche, comprendenti il Decalogo (che occupa la metà del libro), il Credo degli Apostoli, la Preghiera del Signore, il Battesimo e la Cena del Signore, con in più un’appendice di preghiere, i Labirinti (1561) e, soprattutto, la sua opera più discussa: i Trenta Dialoghi (1563). Tradotto da Castellione in latino, e pubblicato da uno stampatore italiano a Basilea, vi si discute della dottrina della predestinazione, del libero arbitrio, della Trinità e della monogamia in modo lassista e scettico, tale per cui la visione eretica appaia ben più forte degli argomenti degli ortodossi. La parte più discutibile è il dialogo sulla poligamia (Dial. XXI)[14], che sembra voler sostenere, con l’esempio dei patriarchi e dei re del Vecchio Testamento, le pratiche poligamiche, mentre la monogamia, seppur dichiarata l’unica forma morale di matrimonio, viene solo sufficientemente difesa. In realtà, la poligamia era un argomento molto discusso in quel periodo, soprattutto in connessione con la bigamia di Filippo d’Assia e la connivenza deplorevole dei riformatori luterani: un dialogo a favore della poligamia era già apparso nel 1541, sotto il nome fittizio di “Huldericus Neobulus”, sempre a favore di Filippo d’Assia e da questo dialogo Ochino prese in prestito alcuni dei suoi argomenti più forti. Si trattò certamente di un errore teoretico, forse frutto di una mente stanca, ma sicuramente senza alcun motivo personale, provenendo da un uomo di settantasette anni, vedovo con quattro figli, la cui morale, come testimoniato anche da Bullinger, era sempre stata irreprensibile, ma, ugualmente, il dialogo sulla poligamia portò alla deposizione immediata dal pastorato e all’espulsione, decisa dal Consiglio, del vecchio Ochino da Zurigo, nel dicembre 1563. Invano egli cercò di chiarire il “fraintendimento” e di supplicare di essere autorizzato a rimanere durante il freddo inverno con i suoi quattro figli: gli fu ordinato di lasciare la città entro tre settimane e anche il mite Bullinger non lo protesse.
Ochino tentò, allora, di tornare a Basilea, ma i magistrati di quella città, ancora più intolleranti rispetto allo stesso clero cittadino, e non gli permisero di rimanere durante l’inverno e, anzi, anche Castellione, il traduttore degli ultimi libri di Ochino, venne chiamato a rendere conto del suo operato, morendo, comunque, prima del giudizio (23 dicembre).
Ochino trovò rifugio temporaneo a Norimberga e da lì inviò una sua accorata auto-difesa (che, in realtà, si tradusse in un durissimo attacco) a Zurigo: i ministri della città risposero ribadendo le loro accuse e lanciando una specie di scomunica su di lui, che, in breve, lo costrinse a lasciare anche la città tedesca in cui era scappato.
A questo punto Ochino volse i suoi passi verso la Polonia, dove gli era stato permesso di predicare ai suoi connazionali residenti a Cracovia. Ma il cardinale Osio e il nunzio papale lo denunciarono come ateo e indussero il re a emettere un editto con il quale venivano espulsi dalla Polonia tutti i non-cattolici stranieri (6 agosto 1564).
Ochino, stanco e indebolito, dovette di nuovo mettersi in viaggio, ma a Pinczow fu colto dalla peste e perse tre dei suoi figli (non si sa nulla del quarto): il vecchio ex monaco sopravvisse ma, debilitato, poche settimane dopo si ammalò di polmonite e morì alla fine di dicembre 1564, solo e abbandonato da tutti, in estrema povertà, a Schlackau in Moravia. Dei suoi ultimi giorni non sappiamo nulla e nessun monumento o nessuna iscrizione segna la tomba di un uomo che aveva rinunciato a tutto solo per la sua fede e il coraggio delle sue idee.
Prima del suo viaggio in Polonia si era diffusa la falsa notizia che avesse incontrato a Sciaffusa il cardinale di Lorena, di ritorno dal Concilio di Trento, e gli avesse offerto di dimostrare ventiquattro errori contro la Chiesa Riformata, cosa che il cardinale avrebbe rifiutato con la breve nota: “Quattro errori sono abbastanza“. La notizia è stata a lungo indagata, ma non ha mai potuto essere verificata e, anzi, Ochino stesso la smentì. Di lui resta, forse a mo’di epitaffio, una frase del suo ultimo discorso pubblico, a Cracovia, che spiega molto delle sue convinzioni: “Mi auguro di non essere né un bullingerita, né un calvinista, né un papista, ma semplicemente un cristiano“[15].
[1] Per le fonti storiche dell’articolo cfr. W. Arthur, H. Zimmern, K. Benrath, Bernardino Ochino, BiblioBazaar 2010, passim; K. Benrath, Bernardino Ochino, of Siena: A Contribution Towards the History of the Reformation, Nabu Press 2010, passim; G. Büchsenschütz, La Vie Et Les Oeuvres De Bernardino Ochino, Nabu Press 2012, passim.
[2] La frase è, da alcuni, erroneamente attribuita addirittura a Carlo V. Vd. K. Benrath, Cit., pp.24-25.
[3] E. Campi, Michelangelo e Vittoria Colonna: Un dialogo artistico-teologico ispirato da Bernardino Ochino: e altri saggi di storia della Riforma, Claudiana 1994, pp.96 ss.
[4] G. Büchsenschütz, Cit., pp. 53-55.
[5] Per una edizione critica del testo, cfr. B. Ochino, Patterns of Perfection: Seven Sermons Preached in Patria by Bernardino Ochino 1487-1564, Anastasia Press 1999.
[6] Che accuserà Ochino di una sorta di fuga d’amore a Genova, cosa mai provata e quasi certamente falsa. Cfr. G. Büchsenschütz, Cit., pp. 61-62.
[7] K. Benrath, Cit., p. 170.
[8] K. Benrath, Cit., p. 184.
[9] Ivi, p. 186.
[10] A. Erichson, W. Baldensperger, Ioannis Calvini Opera Quae Supersunt Omnia, Nabu Press 2010, vol. XI, p.517.
[11] Ivi, p. 487.
[12] Ivi, p. 489.
[13] C.E. Plumptre, The tragedy: reprinted from Bishop Ponet’s translation out of Ochino’s Latin Manuscript in 1549, Nabu Press 2010.
[14] B. Ochino, D. Milton, A Dialog on Polygamy, Born Again Publishing 2009.
[15] K. Benrath, Cit., p. 288.
Duccio Fabbri
Grazie per il bell'articolo, specialmente per le note bibliografiche che rendono possibile approfondire l'argomento.
Vorrei solo evidenziare una inesattezza: "Il Beneficio" da lei indica attribuito ad Aonio Paleario, in realtà è da attribuirsi a Benedetto da Mantova. Per i dettagli si veda http://www.treccani.it/enciclopedia/benedetto-da-….
Grazie,
Duccio Fabbri