Uno dei pericoli che minacciano le correnti di reazione contro le forze di disordine e di corruzione che stanno devastando la nostra civiltà e la nostra vita sociale, è di andare a finire in forme poco più significanti, se non di addomesticamento borghese. È stato denunciato più di una volta il carattere di decadenza che il moralismo presenta di fronte ad ogni superiore forma di legge e di vita. In realtà, affinché un “ordine” abbia valore, esso non deve significare né routine né spersonalizzante meccanicizzazione. Bisogna che esistano delle forze originariamente indomite, le quali conservino in una qualche maniera e misura questa loro natura anche presso la più rigida aderenza ad una disciplina. Solo allora l’ordine è fecondo. Con una immagine, potremmo dire che allora accade come per una miscela esplosiva o espansiva, la quale appunto quando è costretta in uno spazio limitato sviluppa la sua estrema efficacia, mentre nell’illimitato quasi si dissipa. In tal senso Goethe ha potuto parlare di un “limite, che crea” ed ha potuto dire che nel limite si dimostra il Maestro. Occorre poi appena ricordare che nella visione classica della vita l’idea di limite – pèras – si confondeva con quella stessa perfezione e si poneva come il più alto ideale non solo etico, ma persino metafisico. Queste considerazioni potrebbero essere applicate a vari domini. Veniamo qui ad una caso particolare: quelli della famiglia.
La famiglia è una istituzione che, erosa dall’individualismo dell’ultima civiltà cosmopolita, minata alle basi dalle premesse stesse del femminismo, dell’americanismo e del sovietismo, si vorrebbe ricostruire. Ma anche qui si pone l’accennata alternativa. Le istituzioni sono come forme rigide nelle quali una sostanza originariamente fluente si è cristallizzata: è questo stato originario che si deve ridestare, quando le possibilità vitali inerenti ad un determinato ciclo di civiltà appaiono esaurite. Solo una forza che agisca dall’interno, come un significato, può esser creatrice. Ora, a quale significato si deve riferire la famiglia, in nome di che si deve volerla e preservarla? Il significato usuale , borghese e “perbene” di questa istituzione è noto a tutti, e qui vale meno l’indicarlo, quanto il rilevare che assai scarso sostegno esso potrebbe fornire ai fini di una nuova civiltà. Potrà essere bene tutelarne i residui esistenti, ma è inutile nascondersi, che non è di questo che si tratta, che questo è un “troppo poco”. Se si vuole trovare una delle non ultime cause della corruzione e della dissoluzione familiare sopravvenuta nei tempi ultimi, essa può esser indicata appunto nello stato di una società, ove la famiglia si è ridotta a non significare nulla più che questo: convenzione, borghesismo, sentimentalismo, ipocrisia, opportunismo.
Anche qui, solo col riportarsi direttamente e risolutamente non allo ieri, ma alle origini, noi possiamo trovare ciò che veramente ci occorre. E queste origini, a noi dovrebbero essere accessibili. In modo particolare, se la tradizione nostra, romana, della famiglia, è fra quelle che han portato ad espressione il concetto più alto e originario di essa.
Secondo la concezione originaria, la famiglia non è una unità né naturalistica, né sentimentale, ma essenzialmente eroica. È noto che l’antica denominazione di pater deriva da un termine, che designava il duce, il re. L’unità della famiglia già per questo appariva dunque come quella di un gruppo di esseri virilmente stretti intorno ad un capo, che ai loro occhi appariva rivestito non di un bruto potere, bensì di una maestosa dignità, incutente venerazione e fedeltà. Questo carattere resta senz’altro confermato, se si ricorda che nelle civiltà indoeuropee il pater – oltreché il duce – è colui che intanto esercitava una potestà assoluta sui suoi, in quanto era in pari tempo assolutamente responsabile per i suoi di fronte ad ogni superiore ordine gerarchico – era anche il sacerdote della sua gens, colui che più di ogni altro la rappresentava di fronte al divino, il custode del fuoco sacro il quale nelle famiglie patrizie era simbolo di una influenza sovrannaturale invisibilmente congiunta al sangue e trasmettentesi con questo stesso sangue. Non molli sentimenti sociali o convenzionalismo, ma qualcosa fra l’eroico e il mistico fondava dunque la solidarietà del gruppo familiare o gentilizio, facendone una sola cosa secondo rapporti di partecipazione e di virile dedizione, pronta ad insorgere compatta contro chi la ledesse o ne offendesse la dignità. Con ragione il De Coulanges come conclusione dei suoi studi in proposito, ebbe dunque a dire che la famiglia antica era una unità religiosa, prima che esser una unità di natura e di sangue.
Che il matrimonio fosse un sacramento già assai prima del cristianesimo (come p. es. la rituale confarreatio romana), è cosa forse già nota ai lettori. Meno lo è però l’idea, che questo sacramento non valeva come una cerimonia convenzionale o formula giuridico-sociale, quanto come una specie di battesimo che trasfigurava e dignificava la donna portandola a partecipare della stessa “anima mistica” della gente del suo sposo. Secondo un rito indoeuropeo, assai espressivo come simbolo, prima che di esso, la donna doveva essere di Agni, il fuoco mistico della casa. Ora, non è diverso il presupposto originario, per cui lo sposo si confondeva col Signore della donna, e si stabiliva quel rapporto, di cui la borghese fedeltà non è che il derivato decadente e depotenziato. L’antica dedizione della donna che tutto dà e nulla chiede è espressione di un eroismo essenziale, assai più mistico o “ascetico”, vorremmo dire, che non passionale e sentimentale e, in ogni caso, trasfigurante. All’antico detto:
“Non vi è rito o insegnamento speciale per la donna. Che essa veneri ilo suo sposo come il suo dio, ed essa otterrà la sua stessa sede celeste”.
Fa quasi riscontro, in un’altra tradizione, la concezione secondo la quale la Casa Solare dell’immortalità, oltreché ai guerrieri caduti sul campo di battaglia e ai capi di stirpe divina, era riservata alle donne morte nel dare alla luce un figlio: in ciò essendo considerata un’offerta sacrificale così trasmutante, quanto quella degli stessi eroi.
Ciò potrebbe già condurre a considerare il significato stesso del generare, se un tale soggetto non dovesse condurci troppo lontano. Ricorderemo solo l’antica formula, secondo la quale il primogenito era considerato come figlio non dell’amore, ma del dovere. E questo dovere era, nuovamente, di carattere sia mistico che eroico. Non si trattava solo di creare un nuovo rex per il bene e le forze del ceppo, ma anche di dare alla vita chi potesse assolvere quell’impegno misterioso di fronte agli avi e a tutti coloro che fecero grande una famiglia (nel rito romano, spesso ricordati in forma di innumerevoli immagini portate nelle occasioni solenni) di cui il fuoco familiare perenne era l’equivalente simbolico. Per tal via, in non poche tradizioni troviamo formule e riti, i quali ci fan nascere l’idea di una vera e propria generazione cosciente, di un generare non con un oscuro e seminconsio atto della carne, ma col corpo e in pari tempo con lo spirito, dando – in senso letterale – la vita ad un nuovo essere, per il quale, in ordine alla sua funzione invisibile, veniva persino detto, che per sua virtù gli avi saranno confermati nell’immortalità e nella gloria.
Da queste testimonianze, che sono alcune fra le tante che facilmente possono esser raccolte, promana una concezione dell’unità familiare che, come sta di là da ogni mediocrità borghese conformista e moralista e da ogni prevaricazione individualistica, in ugual misura sta di là dal sentimentalismo, dalla passionalità e da tutto ciò che è bruto fatto sociale, o naturalistico. Un fondamento eroico è quello che può dare la più alta giustificazione alla famiglia. Comprendere che l’individualismo non è una forza, ma una rinuncia. Nel sangue, riconoscere una salda base. Articolare e personalizzare questa base con forze di obbedienza e di comando, di dedizione, di affermazione, di tradizione e di solidarietà diremmo persino guerriera e, infine, con forze di intima trasfigurazione. Solo allora la famiglia tornerà ad essere una cosa vivente e possente, cellula prima ed essenziale per quel più alto organismo, che è lo stesso Stato.
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Tratto da Fedeltà Monarchica, anno X, n. 3, aprile 1970.
Paganitas
Coma al solito Il Barone dimostra come nei più disparati argomenti riuscisse ad avere una chiarezza di pensiero impressionante. In questo caso tratteggia in poche righe la metafisica della Famiglia della Tradizione.
Nucleo ormai quasi completamente distrutto dal femminismo, parente stretto del marxismo, condivide con i vari monoteismi di stampo più o meno materialista la pretesa di rivendicare la giustizia per dei, non meglio precisati, torti subiti nelle epoche passate.
L'antica e tradizionale Identità femminile era invece tutt'altro che quella raffigurata dal femminismo. La donna svolgeva il suo ruolo di Madre e Sostegno della Comunità in cui viveva. La sua forza era quella di dover portare avanti la Stirpe. La percentuale di donne morte per il parto era simile se non superiore a quella di uomini morti in guerra o nella caccia. In un mondo in cui l'uomo non combatte più e la donna non partorisce più non ci si meraviglia che si sia perso il significato profondo di tutto questo.
Anche nella religiosità pagana il suo ruolo era tutt'altro che secondario avendo una propria indipendenza nei confronti del raggiungimento della Divinità a livello anche sacerdotale. Esistevano inoltre Dei maschili e Dee femminili, ognuno con un proprio ruolo e una propria volontà di potenza.
A livello economicista e puramente immanente è da sfatare anche il mito che fosse dipendente in tutto dall'uomo. Nelle antiche civiltà contadine la Donna era Padrona della Casa e delle aree circostanti. Essa aveva la Proprietà di tutti gli animali da cortile come galline, anatre, conigli etc. e di eventuali orti vicino alla casa. All'Uomo andava la gestione degli animali più grandi e delle coltivazioni più lontane dalla casa e più estese. Era una distinzione che rispecchiava non solo una differenza biologica ma una diversa inclinazione metafisica. Nulla c'era di discriminatorio ed entrambi lavoravano per il bene della Famiglia e della Stirpe!
g*
Con quanto scrivi (Paganitas), concordo.
Il Suo pensiero esprime, al solito, sempre, e solo, ciò che sta di là dai concetti…
Ma, proprio in virtù di ciò, per favore, non chiamiamoLo, Barone, Noi, Suoi.
Giulio Cesare Andrea Evola era/è, sempre sarà, il Mago: il Signore, il Dominatore; un Appartenente (un appartenente al «vero reale»); non il Barone, non l Artista, non il Mistico, non il Santo, non il Contemplatore, ma, esattamente, di là dal Filosofo e dallo Scienziato, il Metafisico, il Sublimato, Il Guerriero dello Spirito.
In particolare, in breve, sulla famiglia quale unità eroica… Ancora, sempre, eccellente. Eccellente.
Legĕre, Evola, anche per un profano, purché «interiormente dotato», è come guardare oltre e vedere/sentire quel meraviglioso che, costantemente, come fosse «battito», è in tutte le «cose preziose».
Alla familĭa.
Infine, in Suo onore…
«Beati i Miti», ma secondo Nostra visione, quella che si informa alla Tradizione, Quella che è propria, essenzialmente, del Mago; beati i «Miti», dunque, secondo dizione iperfisica, fantastica, «più che reale»: «metafisica». Beati non i miti della «visione comune»: cattolica o imborghesita che sia, bassa e volgare (Absit iniuria verbis); beati i miti, non secondo senso «tipico» (e non «caratteristico») di coloro che possono, necessariamente, solo, «credere», non potendo «conoscere» e non potendo «essere», e per i quali: "i miti erediteranno la Terra"; ma, contra, assolutamente, da un punto di vista superiore, BEATI I MITI, PERCHé NON MUOIONO MAI.
Con «trasporto».
Al Mago.
Paganitas
Grazie della risposta.
Si. Per me l'importante è poi riuscire a comprendere il messaggio privo di ogni ipocrisia di Evola.
In effetti era molto critico nei confronti dei titoloni nobiliari di oggi, che puntano più all'apparenza che alla sostanza. D'altronde però era sempre lui a ricordare il carattere primordiale del patriziato.
P
Il ruolo che oggi la donna vorrebbe rivendicare come forma di antagonismo rispetto a diritti e possibilità che crede negate. La dona oggi che ha formato un carattere una personalità di per se per sua natura inconciliabili con le perfette dinamiche intuitive-emozionali che rivendicherebbero se valorizzate il Suo(di lei) reale ruolo all interno della società.
Ma sono questi i tempi per siffatte lucubrazioni??
Chiedertelo alle donne sconfitte dalla loro ortodossia e dal loro conservatorismo da salotti borghesi pieni di argenteria e di perbenismo.