La danza delle spade

E’ una storia lontana, esotica e tuttavia a noi vicinissima quella che Betty Bouthoul, scrittrice francese con il vezzo per l’Oriente, osannata nei salotti buoni della Rive Gauche parigina e corteggiata da Ernst Jünger, che con lei condivide il tenebroso amore per le sostanze lisergiche, consegna alle pagine del suo saggio dedicato al Shaykh al Jabal, famigerato capo della Setta degli Assassini. Una fiaba crudelissima, “squillante di pugnali e speziata di allucinazioni”, come l’ha definita in modo magistrale Pietrangelo Buttafuoco, la cui eco si snoda al passo cadenzato delle carovane lungo l’interminabile tracciato della leggendaria Via della Seta, tante volte evocata da Sven Hedin e Aurel Stein, percorso obbligato e periglioso alla volta della fortezza di Alamut, il “Nido dell’Aquila” in lingua parsi, inespugnabile recesso arroccato tra le montagne dell’Iran dove all’alba dell’XI secolo Hassan Ibn al Sabbah, conosciuto in Occidente come il Vecchio della Montagna grazie alla testimonianza che Marco Polo affida alle pagine del Milione, insedia il quartier generale della sua confraternita di iniziati, i Nazriti, resi celebri dall’abitudine d’inalare dell’hashish a scopo rituale prima di scendere in battaglia, al fine di risultare insensibili al dolore e alla paura. All’interno delle mura gli adepti di quella che, in prospettiva storica, possiamo considerare l’organizzazione terroristica antesignana dell’Isis, di Al Quada o di Hezbollah, vengono sottoposti ad un addestramento militare degno dell’agoghé spartana, perché il loro compito è quello di diventare fedayn e di andare ad ingrossare le fila dell’immenso esercito che Hassan Ibn al Sabbah raduna nell’intento di rovesciare il Sultano della dinastia Selgiuchide, da lui ritenuto idolatra, e ristabilire così il primato della fede sciita.

Scritto sul finire degli Anni Trenta, nelle intenzioni dell’Autrice, moglie del più celebre sociologo Gaston Bouthoul che ha dinnanzi agli occhi l’esempio dei due grandi totalitarismi del Novecento prossimi a divorarsi a vicenda, il libro intende essere anche e forse soprattutto una riflessione sul radicalismo ideologico, declinato in ogni sua forma, compresa quella religiosa. Lo stato di segregazione claustrale nel quale gli affiliati alla Setta degli Assassini scelgono di vivere, avendo come unici referenti i propri confratelli ed i maestri, senza nessun contatto con l’esterno, li induce a considerare la fortezza come il solo mondo possibile, all’interno del quale s’instaurano dei rapporti di relazione falsati e paranoici, viziati alla radice dal timore panico di un’ estromissione dalla comunità dei credenti che li condannerebbe ad una non vita, paura sulla quale il Vecchio della Montagna ha buon gioco di far leva per inoculare nelle menti dei suoi seguaci una condizione di sudditanza psicologica nei propri confronti. Se fosse possibile enucleare la sua essenza più profonda, la caratteristica peculiare che lo fa apparire inafferrabile ai tanti esploratori e scrittori europei che in questi secoli si sono imbattuti nella sua enigmatica figura rimanendone soggiogati (basti pensare a Vladimir Bartol, Freya Stark, Marshall Hodgson, oppure a Pio Filippani Ronconi), potremmo dire, sulla scia di Frédéric Prokosch, che egli è come di ghiaccio, racchiuso in se stesso. A toccarlo si ha il timore di rimanere bruciati o congelati ma, proprio per questo, risplende di una bellezza strana e terribile. Una bellezza fredda, spietata, disumana che è poi lo stigma degli illuminati.

“Non ho bisogno delle loro preghiere, ho bisogno della loro fede”, dichiara. Il perno sul quale si regge il complicato endocosmo racchiuso all’interno di Alamut è appunto l’idea della sottomissione. Aderire alla fede del Profeta equivale a compiere una scelta che presuppone una cupio dissolvi, una rinuncia alla propria individualità e ad ogni legame con la cultura di provenienza. L’Islam non è solo una questione di coscienza o di fede personale. Nella sua accezione originaria è una religione araba, nel senso etnocentrico del termine, mentre tutti i popoli islamici non arabi sono convertiti: l’Iran è il caso più eclatante a questo riguardo, ma altri se ne potrebbero citare. Chi sceglie di aderire alla nazione dell’Islam diventa, che gli piaccia o meno, parte integrante della storia araba, in quanto la sola lingua sacra ammessa per la lettura del Corano è l’arabo, i luoghi deputati al pellegrinaggio sono in terra araba e solo al popolo del Profeta è concesso avere un passato. I convertiti devono voltare le spalle a tutto ciò che sono stati prima di pronunciare la shahada. Dato che questa abiura deve essere costantemente ripetuta al fine di riaffermare la purezza della propria fede, s’innesca un meccanismo di nevrosi collettiva nel quale l’integralismo attecchisce e prospera, sfociando in atti eclatanti di iconoclastia come, ad esempio, la distruzione delle vestigia romane di Palmira operata dai miliziani del Califfato oppure l’abbattimento delle statue dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, compiuta dai talebani nel 2001.

Una vocazione all’assoluto dinnanzi alla quale l’Occidente rimane come smarrito. L’Islam desta in noi tanta apprensione perché è una Civiltà più semplice, collocata in una posizione lontana rispetto a noi nello spazio e nel tempo, raccolta intorno a poche certezze granitiche che sono sostanzialmente le stesse dai tempi del Profeta, mentre noi, duole doverlo ammettere, non siamo più quelli della battaglia di Lepanto.

Betty Bouthoul, Il Vecchio della Montagna, Adelphi, Milano, 2022; pag. 216 € 22,00.

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