Il secolo dell’avvoltoio

Un secolo purificatorio, il nostro ormai morente, dolorosamente purificatorio fino al punto di lasciare come pugili tramortiti da un colpo inaspettato coloro che si erano nutriti golosamente delle grandi costruzioni ideologiche, delle speranze di palingenesi, delle tecnoutopie acritiche. Oggi ci fanno sorridere versi come questi scritti da un poeta futurista, Paolo Buzzi, che così faceva cantare la poesia: «La Lira è la Macchina, / oggi. / Un vortice di ruote diverse / giganti invisibili; / un anelito di mille sirene, / le scintille si sposano agli astri, / i fiammiferi ai fulmini: / crepitano le girandole azzurrognole ovunque, / la luce reticola il Mondo, / tutto è torpedine». Pure vi fu un periodo in cui quella esaltazione collettiva raggiunse il suo apice: quando all’inizio del secolo ci si credeva alle soglie di una mutazione epocale che avrebbe trasformato ontologicamente l’umanità. All’entusiasmo per la scienza applicata alla tecnologia, intesa a sua volta come motore del futuro e non come mero strumento da amministrare con circospezione, si accompagnava la fede nella possibilità di liberare l’Uomo da ogni oppiaceo vincolo religioso sradicandolo finalmente dalla soggezione a una illusoria speranza oltremondana.

Ci è difficile oggi spiegare quella esaltazione che obnubilò persino scrittori e studiosi dalle non comuni doti intellettuali, specie coloro che credevano in una palingenesi sociale e individuale mediante la lotta di classe. E quando l’attesa rivoluzione scoppiò non nei paesi capitalistici, ma in una società dove il capitalismo muoveva i primi passi, non affiorarono in loro né dubbi né ripensamenti sulla imminente palingenesi; e persino quando cominciarono a filtrare in Occidente le prime notizie sulle purghe proletarie si continuò a intrecciare un rosario di entusiastiche glosse alla liberazione sognata.

Ci volle il crollo dell’emblematico Muro per scuotere le menti degli ultimi devoti che, inseguendo il loro confortevole sogno, si erano scordati della realtà. Qualche anno prima un grave incidente in una centrale nucleare, così come le prime conseguenze tragiche dell’abuso delle risorse naturali, aveva già incrinato la speranza nelle futuriste Torpedini. Franati inaspettatamente i dogmi della fede antica, si cominciò a sostituirli con la religione della Carezza al filo d’erba e con la pratica del Viaggio in una vaga realtà parallela, propiziato da allucinogeni; e si teorizzò, insieme con l’impossibilità di una verità permanente, l’esistenza di tante «piccole verità» che variavano secondo il contesto e l’epoca, come codici della strada soggetti all’usura del tempo. Ma l’immutabile restava (resta?) il principio che soltanto la Casta del pensiero autolegittimato poteva modificare la provvisoria vulgata alla quale ci si doveva attenere per non essere considerati reprobi e velleitari abusivi della cultura, o peggio ancora inguaribili çi-devant.

Nel frattempo, di là da quei fantasmi mentali, sono proliferati i veri motori del nostro tempo, la Usurocrazia, in primo luogo, che un reprobo poeta americano aveva indicato come il tumore maligno della società contemporanea; e il vertiginoso espandersi della comunicazione elettronica nel villaggio globale. In questo scenario si giocherà nel futuro prossimo la vera partita che ha come posta il destino, la funzione e l’autorità di chi non è omologabile a quella gelatina fluttuante cui si addice il nome di Volgo: dove ogni individuo, sradicato dalla sua tradizione e mosso  soltanto dai propri impulsi passionali, ovvero da una espansione incontrollata dell’Io fino al punto di considerare gli altri meri strumenti per il proprio benessere bio-psicologico e di farsi, viceversa, loro strumento, viene manipolato, da mode effimere in funzione del mercato. Insensati saranno in questo scenario due atteggiamenti apparentemente opposti: sia il nevrotico ritrarsi nella rievocazione nostalgica di un passato idealizzato, sia il salto incauto sul dorso della Tigre che soltanto coloro che sono spiritualmente legittimati potranno cavalcare per tentare, pur pericolosamente, di giungere là dove le nebbie si diradano e da dove lo sguardo dell’Avvoltoio può senza errore distinguere le carogne dagli esseri viventi. Non ci si stupisca di questa metafora perché, come sapevano i Maya, l’avvoltoio è un agente rigeneratore delle forze vitali contenute nella decomposizione organica di cui si nutre, e dunque artefice del Ciclo del rinnovamento; ma anche simbolo della Preveggenza, poiché una volta si diceva che, assistendo a una caccia, volgesse infallibilmente lo sguardo verso la selvaggina che sarebbe stata decimata.

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Tratto da Area, dicembre 1999.

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