Sorpresa, Ercole era un antico romano

Statua di Ercole Curino, Sulmona.

Grazie a Hercules, il cartone animato di Walt Disney che verrà proiettato in Italia nei prossimi mesi, le avventure dell’eroe greco diventeranno popolari fra i nostri bambini, ma anche fra gli adulti che per la maggior parte non hanno più dimistichezza col mondo classico.

In realtà l’eroe greco si chiamava Heraklés: secondo il mito Zeus aveva scelto la bella, dignitosa e saggia Alcmena per generare un figlio tanto forte da impedire lo sterminio di uomini e dei. Dopo il parto la madre lo abbandonò in un campo fuori delle mura di Tebe perché temeva l’ira di Era, la moglie di Zeus. E in quel luogo, convinta dal sovrano degli dei, Atena condusse proprio Era a passeggiare. «Guarda, mia cara, che bimbo eccezionalmente robusto!» le disse simulando sorpresa mentre si chinava per prendere in braccio il neonato. «Sua madre deve aver perduto il lume della ragione per abbandonarlo in questo luogo sassoso! Suvvia, tu che hai tanto latte danne un poco a questa povera creatura!». Era, che nulla sospettava, prese il bambino in braccio denudandosi il petto, ed Eracle vi si attaccò con tanta forza che la dea gemendo per il dolore lo allontanò da sé mentre un getto di latte volava verso il cielo, trasformandosi nella Via Lattea, e un altro cadeva verso terra mutandosi nel giglio che da quel giorno fu soprannominato Iunonia rosa.

«Quale mostro è mai questo bambino!» esclamò Era. Ma ormai Atena aveva ottenuto quel che Zeus aveva voluto: che il figlio nato da una mortale diventasse immortale. Il mito allude enigmaticamente alla Grande Madre, fonte e centro di ogni potere e conoscenza prima dell’arrivo degli Elleni che la subordinarono a Zeus. Eratostene scriveva a questo proposito che persino i figli degli dei non avrebbero avuto onore nelle loro vite se non avessero bevuto il latte dal seno di Era; e se un mortale avesse potuto berne un solo sorso sarebbe diventato immortale.

Secondo i mitografi greci la dea perseguitò fino alla morte Eracle perché era il frutto dell’amore adulterino del marito. Soltanto quando l’eroe giunse nell’Olimpo si riconciliò con lui, anzi volle addirittura adottarlo simulandone in un’apposita cerimonia la nascita dal suo seno.

Di Eracle sono celebri le Dodici Fatiche che adombrano una serie di prove iniziatiche: fra queste la cattura nell’estremo occidente dei buoi di Gerione, che dopo un viaggio avventuroso attraverso l’Iberia, la Gallia e l’Italia egli riuscì a portare in Grecia al re Euristeo. Quella Fatica ispirò in Italia una serie di leggende per giustificare il culto di Ercole. Si favoleggiava che, attraversando il Lazio, aveva fatto scaturire con la sua mazza le acque del lago di Vico e aveva fondato il «castello di Viterbo» permettendo alla città di fregiarsi di un suo attributo, il leone. Poi, giunto nel luogo dove sarebbe nata successivamente Roma, si scontrò con un certo Caco che viveva in una grotta sull’Aventino. Quell’essere spaventevole, che aveva tre teste e soffiava fuoco dalle tre bocche, aveva notato che mentre Eracle stava dormendo i suoi buoi pascolavano incustoditi nel Foro Boario, la pianeggiante valle del Circo Massimo che sbocca nel Tevere. Quegli animali lo ingolosirono; ma non potendo rubare tutta la mandria, s’impossessò soltanto di quattro vacche e quattro buoi trascinandoli per la coda nella caverna in modo che fossero costretti a camminare all’indietro: così le tracce sembravano dirigersi fuori della grotta e non verso di essa.

Al risveglio l’eroe s’accorse subito del furto, ma per quanto cercasse il bestiame non riusciva a scoprire il luogo dov’era nascosto. Fortunatamente gli animali rapiti, sentendo i loro simili muggire nella piana, risposero al richiamo svelando il nascondiglio. Ercole si precipitò furioso verso la caverna e dopo una lunga lotta riuscì ad uccidere il mostro. Poi volle consacrare quei luoghi al suo culto edificando o facendo edificare – secondo le leggende – il Templum Hercolis Victor vicino alla Porta Trigemina e l’Ara Maxima: proprio dove sarebbe sorta Roma.

Fin qui la leggenda: in realtà non possiamo dire nulla sull’origine di quei santuari. Sappiamo soltanto che il quartiere dove furono eretti, il Foro Boario, era un attivo centro commerciale circondato da tre colli ripidi, il Campidoglio, il Palatino e l’Aventino, e situato all’incrocio di due vie che garantivano a Roma il suo potere: quella d’acqua, il Tevere, risalito dalle imbarcazioni che giungevano dal mare e dalle saline di Ostia, le più ricche di tutta l’Italia centrale; e la via terrestre che, passando per il ponte Sublicio, il Velabro e la Suburra, collegava l’Italia centrale e la Sabina all’Etruria. Per questo motivo Roma fin dal VI secolo era diventata la più ricca e potente città del Lazio e una delle più importanti d’Italia: non certo per i pastori che vivevano sui colli o nelle vicinanze, ma per il monopolio del sale e l’attività commerciale.

In quel luogo si era costruito un porto strappato alle paludi, dove arrivavano genti di ogni paese con i loro culti e costumi. Secondo l’interpretazione tradizionale, che ritroviamo in Dumézil come nel Pallottino, il culto dell’Eracle greco dovette giungere nella futura Roma proprio dai greci che erano sbarcati nel porto fluviale. Per questo motivo Ercole, onorato dell’appellativo di Invictus, divenne il patrono dei mercanti che portavano in ogni parte del mondo dei beni non meno difficili da conservare dei buoi di Gerione: sicché gli si offriva la decima di quel che si era guadagnato. Più tardi anche i generali gli avrebbero dedicato la decima del bottino perché vedevano in lui il modello del combattente.

Ma le cose stanno proprio così? Mario Attilio Levi, uno dei maggiori studiosi del mondo greco-latino, ha rovesciato totalmente questa tradizione storiografica in un libro appena uscito, Ercole e Roma (L’Erma di Bretschneider), sostenendo che l’Hercules latino non ha nulla a che fare con quello greco; fu assimilato a Heraklés soltanto con l’ellenizzazione della religione romana di cui è un esempio clamoroso la leggenda di Romolo e Remo discendenti da Enea. D’altronde anche altre divinità, da Giunone a Giove, da Marte a Vulcano, furono assimilate alle greche Era, Zeus, Ares ed Efesto. Non era un eroe divinizzato ma un dio, tant’è vero che lo si venerava all’interno del pomerio dove anticamente non si potevano costruire templi in onore di divinità straniere. Era popolare in tutto il Lazio: aveva la funzione di proteggere il bestiame, il traffico del sale, il commercio e i commercianti, e anche le acque sorgive. Come gli dei romani arcaici non aveva figura umana né miti. Fu soltanto successivamente, a causa dell’influenza greca, che alle divinità romane e quindi anche a Ercole vennero attribuite fattezze umane.

Levi avanza anche un’altra tesi sconcertante: che l’Ercole primitivo fosse con Diana il dio supremo del pantheon arcaico. La leggenda di Caco adombrerebbe il prevalere del suo culto su quello di un oscuro – per noi – dio della zona. Lo studioso porta una serie di prove: una delle più importanti è basata sul primo lettisternio che risale al 399 a.C. Il lettisternio era un convito sacro in cui si offrivano vivande alle immagini delle divinità adagiate su un letto e col braccio sinistro appoggiato su un cuscino. Quello del 399 fu celebrato per ordine dei Libri Sibillini in onore di Apollo e Latona, Ercole e Diana, Nettuno e Mercurio. La posizione centrale, quella egemonica, è tenuta da Ercole e Diana. In altri lettisterni successivi le divinità a convito sono sempre le stesse mentre in quello del 217, dopo la battaglia del Trasimeno, scompare Ercole e compaiono accanto agli altri dei Giove e Giunone che secondo Levi avrebbero preso in quel periodo il sopravvento. Secondo Dumézil invece la grande triade arcaica romana era formata da Giove, Marte e Quirino, poi sostituita a partire dal III secolo da quella capitolina di Giove, Giunone e Minerva. La discussione è aperta, mentre un Ercole americanizzato e liofilizzato sta per apparire sugli schermi italiani: l’ultima sua metamorfosi che si addice perfettamente a questi tempi ferrigni.

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Tratto da Il Giornale del 28 settembre 1997.

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  1. Diego
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    Grazie di cuore per questo spazio, che ripubblica articoli di Cattabiani che se non altro ragioni anagrafiche non avrei mai potuto leggere, ottimo lavoro, e bello sapere che c’è chi mantiene vivo il ricordo di questo gentiluomo della cultura italiana.

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