Pancatattva è, nel tantrismo induista e shivaita, il nome del cosidetto «rituale segreto» riservato ai vîra. Ad esso viene data una tale importanza che in alcuni testi si afferma che senza il suo impiego nell’una o nell’altra forma il «culto» della Shakti è impossibile. Per il fatto che il pancatattva comprende l’uso di bevande inebrianti e di donne, ad esso è stato attribuito un carattere orgiastico e dissoluto il quale presso alcuni Occidentali è valso a mettere in cattiva luce tutto il tantrismo. L’impiego del sesso a fini iniziatico-estatici e magici, peraltro, non è proprio al solo tantrismo induista. Esso è attestato anche nel tantrismo buddhista e in varietà tantriche del vishnuismo, nella cosidetta scuola Sahajiyâ, fra i Nâta Siddha, ecc. Consideriamo a parte l’uso della sessualità a livello yoghico.
Letteralmente pancatattva vuol dire «i cinque elementi». Ci si riferisce a cinque sostanze da usare le quali sono state messe in relazione coi cinque «grandi elementi» in questa guisa: alla partecipazione della donna (maithuna) si fa riferimento all’etere; al vino o analoga bevanda inebriante (madya) l’aria; alla carne (mamsa) il fuoco; al pesce (matsya) l’acqua; infine a certe sostanze cereali (mudrâ) la terra. Poiché i nomi di tutte e cinque le sostanze cominciano con la lettera m, il rituale segreto tantrico è stato anche chiamato «delle cinque m» (pancamakâra).
Il rituale riveste significati diversi a seconda del piano nel quale viene praticato. Nella sua assunzione più estrema, secondo la quale può rientrare nella stessa Via della Mano Destra, esso mira alla sacralizzazione delle funzioni naturali legate alla nutrizione e al sesso. L’idea di fondo è che il rito non deve non deve essere una cerimonia sofisticata sovrapposta all’esistenza reale, ma deve incidere su questa stessa esistenza, deve compenetrarne anche le forme più concrete. Tutto ciò che il pashu, l’uomo animalesco, compie ottusamente, nella forma tamasica del bisogno e del desiderio, dal vira deve essere vissuto con un animo ampio e liberato, appunto nel senso di un rito e di una offerta, perfino con uno sfondo cosmico. Peraltro, tutto ciò non ha un carattere specificamente tantrico: la sacralizzazione e la ritualizzazione della vita è stata, in effetti, una caratteristica della civiltà indù in genere, così come di ogni altra civiltà tradizionale: a prescindere da certe forme strettamente ascetiche. Anche nel cristianesimo si è potuto dire: «Mangia e bevi in gloria di Dio», mentre l’Occidente precristiano conobbe pasti sacrali e le stesse epulae romane ebbero fino a tempi relativamente tardi una controparte religiosa e simbolica; vi fu presente un riflesso dell’antica concezione di un incontro fra uomini e dèi.
Una difficoltà può nascere solo quando oltre ai cibi entrano in quistione la donna e le bevande inebrianti – però unicamente dal punto di vista della religione venuta a predominare in Occidente, la quale è stata dominata da un complesso sessuofobo, ha considerato come impuro e insuscettibile di sacralizzazione l’atto sessuale. Ma questo atteggiamento può venire considerato come anomalo, dato che la sacralizzazione dello stesso sesso, la concezione del sacrum sessuale, fu propria a molteplici civiltà tradizionali. Essa è senz’altro attestata nell’India. Era già idea vèdica che l’unione sessuale può essere innalzata al livello di un connubio sacrale e di un atto religioso, e che in tali termini essa può avere perfino un potere spiritualmente propiziatore. Nelle Upanishad essa viene assimilata con un’azione sacrificale (la donna e il suo organo sessuale sono il fuoco in cui si sacrifica) e sono date formule per la ritualizzazione cosmica di un amplesso cosciente, non torbidamente lascivo, l’uomo unendosi alla donna come «Cielo» a «Terra».
Anche la Tradizione delle bevande sacre e delle libagioni rituali è antichissima e attestata in civiltà molteplici. Per l’India, si sa la parte che nel periodo vèdico ebbe il soma, il quale era una bevanda inebriante ricavata dall’asclepia acida e assimilata ad una «bevanda dell’immortalità». Solo che nell’uso di simili bevande, come diremo, il livello rituale delle pratiche va distinto dal livello iniziatico e operativo, sul quale viene considerato uno speciale impiego degli effetti di esse.
Così, nel complesso, in questo primo suo grado il cosidetto «rituale segreto» tantrico non presenta nulla di allarmante. Non dal punto di vista di un Occidentale, per il quale è normale fare succulenti pasti a base di carne con vini e liquori, ma solo da quello indù il rituale tantrico ha qualcosa di poco normale in quanto l’India è prevalentemente vegetariana e l’uso delle bevande inebrianti è estremamente limitato.
Passiamo ora ad un secondo livello del pancatattva, dove esso ha già in una certa misura un significato operativo e fa entrare in giuoco elementi sottili. Da un lato, viene data l’immagine di un seme che, se gettato in una fessura di roccia, non può germogliare e svilupparsi. In questo stesso senso il vîra fruisce delle cinque sostanze, i pancatattva, per assorbirne e trasformarne le forze. D’altro lato, vengono considerate le possibilità offerte dal pancatattva in relazione alle già indicate corrispondenze delle cinque sostanze con i cinque «grandi elementi» ed anche con i cinque vâyu o prânadi – con le correnti del soffio vitale – di cui si è già parlato. Si sa che il prâna appartiene al piano delle forze sottili, non di quelle materiali e organiche. Ogni funzione organica, tuttavia, ha per controparte una forma di questa forza. In particolare, quando l’organismo ingerisce una data sostanza, l’una o l’altra corrente del soffio verrebbe in una certa misura dinamizzata e si verificherebbe una specie di momentaneo affiorare o lampeggiare di forme sottili di coscienza nella massa opaca della subcoscienza organica. Chi, grazie a precedenti discipline sul tipo di quelle a suo tempo riferite, disponga già di un certo grado di sensibilità sottile tanto da poter sorprendere tali affioramenti o lampeggiamenti, avrebbe modo di realizzare dei contatti coi poteri o «grandi elementi» corrispondenti alle cinque sostanze. Simili esperienze sarebbero agevolate se si utilizzano stati in cui le «masse di potenza» chiuse nel corpo sono portate ad un certo grado di instabilità per mezzo di un’adeguata eccitazione.
Le corrispondenze, in genere, sono date nei seguenti termini: l’etere corrisponde alla partecipazione della donna e al soffio come prâna nel senso specifico di forza aspirante, assorbitrice, che come corrente sottile «solare» dalle narici scende fino all’altezza del cuore; l’aria alle bevande inebrianti e al soffio come apâna, corrente che dal cuore scende in basso, con un ’azione opposta ad una unificazione, come un disciogliersi; il fuoco alla carne e al soffio come samâna, corrente delle assimilazioni organiche che agisce alterando e fondendo; l’acqua al pesce e al soffio come udâna, il soffio «fluido» delle emissioni; la terra al cibo farinaceo e al soffio come vyana, corrente fissativa, incorporativa, avvertita come una sensazione sottile di «peso» dell’intero organismo. Usando il pancatattva, a questo livello occorrerebbe dunque essere già capaci di avvertire e di distinguere tali effetti, le modificazioni sottili determinate dalle cinque sostanze. Secondo coloro che si danno a pratiche del genere, nel rapporto con la donna la percezione sarebbe come di qualcosa che si spezza e si stacca; per le bevande inebrianti, senso di dilatarsi e volatilizzarsi, vissuto disgregativamente; per il nutrimento in genere, senso di essere feriti. Si tratta, per lo più, di sensazioni negative da trasformare in stati attivi.
Si sa che nel campo ascetico, spesso anche iniziatico, non solo si raccomanda la continenza sessuale ma si ritiene sfavorevole per lo sviluppo spirituale l’uso della carne e soprattutto delle bevande inebrianti. Ma tutto dipende dall’orientamento. La veduta propria alla Via della Mano Sinistra è: trasformare il negativo in positivo. Normalmente l’indulgere al sesso e alle bevande inebrianti ha, dal punto di vista spirituale ed anche psichico, effetti dissolventi. Senonchè, nel presupposto che si possegga il principio di una forza pura e distaccata, della vyria, proprio gli stati dissolutivi possono «sciogliere» e favorire un trascendimento, con riduzione dei residui tamasici.
Quando, dal punto di vista spirituale, si sconsiglia l’uso della carne si prospetta il pericolo di «infezioni» poiché l’assimilazione di tali cibi da parte dell’organismo umano avrebbe come controparte l’assimilazione anche di eleementi sottili e psichici del piano subumano e animale. Rari sono i casi nei quali un tale pericolo possa venir superato; i casi in cui si possegga una sensibilità affinata capace di accorgersi di queste infezioni e quando si sia acceso un «fuoco» abbastanza energico per trasmutarle e assorbirle.
Il pancatattva viene considerato un rituale segreto, riservato ai soli vira, da non far conoscere ai profani e ai pashu, essenzialmente in relazione a due dei tattva, alle bevande inebrianti e alla donna, e che lo stesso vale per le corrispondenti varietà buddhiste e vishnuite di tali riti.
L’impiego sacro delle bevande inebrianti è antichissimo e molteplicemente attestato: ricordiamo in particolare la parte che nella Tradizione ha avuto il soma (equivalente all’haoma iranico). Il soma è stato considerato come una «bevanda d’immortalità», come amrta, termine che etimologicamente è identico al greco «ambrosia» (entrambi i termini vogliono dire, letteralmente, «non-morte»). In realtà, si può parlare di un «soma celeste», immateriale. Le cose sempbrano presentarsi nei seguenti termini: a partire da un certo periodo, il «soma celeste non fu più conosciuto», l’uomo per giungere a quegli stati di trasporto e di «entusiasmo divino», in senso platonico, ebbe bisogno dell’aiuto del «soma terrestre», cioè della bevanda ricavata dall’asclepia acida. Quando sia presente il giusto orientamento interno, la corrispondente ebrezza può avere effetti estatici e in una certa misura iniziatici: donde il carattere «sacro» delle bevande. Non diverso significato ebbe il vino nel dionisismo, tanto che il termine «orgia sacra» è una espressione tecnica ricorrente nell’antica letteratura mistèrica; non diverso quello che ebbe nella mistica persiana, dove il vino e l’ebrezza hanno avuto un significato sia reale, sia simbolico – e si può giungere, per tal via, fino a certi aspetti della stessa tradizione templare, il Guénon avendo rilevato che il detto boire comme un Templier può aver avuto un significato segreto, operativo, diverso da quello grossolano poi prevalso. Infine negli stessi Yoga-sûtra (IV,1) l’accenno a certe sostanze o «semplici» associati al samadhi può riferirsi all’uso di analoghi coadiuvanti.
A un non diverso contesto si deve riportare l’uso delle bevande inebrianti e l’orgiasmo nel tantrismo. Il vino qui viene chiamato «acqua causale», kâranavâri, e «acqua di sapienza», jnânâmrta. «La forma (rûpa) del Brahman – si legge nel Kulârnavantra – è chiusa nel corpo. Il vino può rivelarla – ecco perché gli yogî lo usano. Coloro che usano il vino per proprio piacere, anziché per la conoscenza del Brahman (Brahmâ-jnâna), commettono colpa e vanno in perdizione». Un altro testo tantrico vede in sostanze del genere la «forma liquida» della Shakti stessa, intesa come colei che salva (lett. «la salvatrice in forma liquida»); in tale forma essa è datrice sia di liberazione, sia di fruimento, brucia ogni colpa. Il vino «viene sempre bevuto da coloro che hanno conosciuto l’ultima liberazione e da coloro che sono divenuti degli adepti e che si sforzano di divenirlo». In vista della liberazione vanno dunque bevute le bevande inebrianti a questo livello del pancatattva: i mortali che ne usano dominando il loro animo e seguendo la legge di Shiva vengono descritti come degli dèi, come degli immortali sulla terra. Il riferimento alla legge di Shiva, il Dio della trascendenza attiva, qui è significativo. Da un lato viene detto di bere soltanto «finchè la mente e la vista non siano turbate», dall’altro si incontra, nei Tantra, questa frase, che è stata motivo di scandalo: «Avendo bevuto e poi di nuovo bevuto, essendo caduti per terra ed essendosi rialzati per bere ancora, si raggiunge la liberazione». A questo detto, è vero, alcuni scrittori hanno voluto dare un significato esoterico-simbolico, da riportarsi al piano del kundalinî-yoga, dove non è affatto questione di bevande inebrianti: si alluderebbe ai successivi sforzi per portar sempre di nuovo verso l’alto la kundalini svegliata. Ma, come in tanti altri casi, la frase può essere polivalente e non escludere un’interpretazione concreta: portarsi fino a un limite, poter riaffermarsi e andare oltre di là da ogni collasso, mantenendo la coscienza e la direzione fondamentale dell’esperienza.
Il rituale può avere un carattere collettivo, quindi l’aspetto di un’«orgia». Viene eseguito in un circolo o catena (cakra) di praticanti, anche dei due sessi, nel qual caso è verosimile l’associazione dell’uso del vino con quello del sesso. Tuttavia, qui gli aspetti di sfrenatezza evocati comunemente dalla parola «orgia» appaiono contemperati dalla presenza di precise strutture rituali. Se non importa la sostanza da cui la bevanda inebriante è ricavata (il vino indiano non è, come quello occidentale, di uva), una condizione essenziale a che essa abbia l’effetto previsto è che sia «purificata». «Bere vino non purificato – viene detto – è come prendere un veleno». Il vino non purificato abbrutisce e va sempre evitato dai kaula. Esso non dà risultati e il devatâ – la divinità o shakti – che vi risiede non viene propiziata. La «purificazione» di cui qui si tratta può comprendere un procedimento complesso, contemplativo e rituale, inteso a condurre fino ad uno stato nel quale l’uso della bevanda propizia effettivamente dei contatti ed agisce in modo estatico e «sacro». È un processo, quasi, di transustanziazione nel quale interviene di nuovo la immaginazione magica e sono usati vari mantra, ad esempio HRIM, il mûla-mantra, che è quello della potenza primordiale, o il cosidetto «mantra della spada» (PHAT) spesso impiegato quando si vuole separare il «sottile» dallo «spesso» e dal materiale.
Anche l’operazione preliminare di purificazione ha carattere collettivo, viene compiuta in un circolo (cakra) sotto la guida del «signore del circolo» – cakreshvara – che si mette al centro di esso ed ha davanti a sé gli elementi da purificare. Ecco alcuni dettagli.
Il cakreshvara pronuncia la formula tradizionale, già da noi citata, dell’identità del sacrificante, del sacrificio e di colui a cui si sacrifica. Dopo di che, segna per terra alla sua sinistra in rosso vivo un simbolo grafico costituito da due triangoletti intrecciati, rappresentanti la diade metafisica, il dio e la dea, con al centro il segno del «vuoto» (un circoletto) o un altro triangolo rovesciato; il secondo triangolo con il vertice in basso rappresentando Parashakti, esso equivale allo stesso «vuoto» metafisico, rappresenta ciò che sta di là da quella diade, la trascendenza. Sull’esagramma viene posato uno speciale vaso rituale (kalaca) contenente la bevanda inebriante. Il «signore del circolo» evoca quindi la presenza della dea. Vengono usate varie formule rituali.
Per una visualizzazione atta a dirigere il processo, la più importante è quella che evoca il principio vitale – l’hamsah – come una forza solare radiante «in mezzo a un cielo puro», come una forza che risiede nella regione intermedia situata, come l’aria, fra la «terra» e i «cieli», il che indica che si tende a far si che l’operazione, pur avendo una base fisica, si sposti verso un piano superfisico. Un dettaglio è il rito del «coprire» associato ad un determinato gesto: il recipiente viene «velato», ricoperto con un velo, a significare che la bevanda materiale «copre» quella sacra. Nello sviluppo del rito questo velo che ricopre la dea dormente nella bevanda (Devî Sudhâ) viene rimosso, con il che il vino contenuto nella giara diviene appunto una «bevanda celeste». La dea viene invocata come amrta (=ambrosia, elemento privo di morte). L’azione di purificazione si completa con la rimozione della «maledizione» che pesa su bevande del genere, con riferimento a miti simbolici dove figurano maledizioni cheavrebbero colpito le bevande inebrianti per aver propiziato l’una o l’altra azione colpevole. Di là dall’allegoria, si può pensare ad una neutralizzazione rituale degli effetti negativi che l’uso delle bevande in questione potrebbe avere. Infine, il «signore del circolo» pensa che il dio e la dea si congiungono nella bevanda inebriante e che questa si satura dell’elemento non-morte (ambrosia) generato da tale congiungimento. In questa guisa vengono realizzate le condizioni interiori e sottili a che il rito con la bevanda inebriante possa agire nel senso voluto. Compiuto in un circolo o catena, l’efficacia del rito è verosimilmente accresciuta dal vortice fluidico alimentato dalle coppie che circondano il cakreshvara, le quali evocano le stesse immagini e compiono gli stessi atti spirituali. Viene detto che solo chi è iniziato beve la bevanda inebriante e che soli chi ha ricevuto una piena iniziazione può fungere da «signore del circolo», dirigere il rito e distribuire la bevanda. La catena o circolo dovrebbe assumere il carattere di una catena divina (divya-cakra). Sono «qualificati per farvi parte solamente coloro che hanno un cuore puro» e non sono toccati dal mondo esterno, solamente coloro che «possedendo la conoscenza di ciò che è reale considerano questa esistenza, sia negli aspetti mutevoli che in quelli immutabili, come facente una sola cosa col Brahman». Il Rudrayamala giunge a dire che non si deve affatto bere vino fuor dal rito.
Con tutto questo, ve ne è abbastanza per togliere al pancatattva il carattere di un’orgia nel senso volgare, come un puro scatenamento. Ciò, almeno, in via di principio, se si hanno in vista i principî, ben formulati nei testi, prescindendo da forme degradate e marginali, peraltro sempre possibili.
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Dopo l’uso delle sostanze inebrianti tentiamo di considerare quello del sesso che, essendo stato fatto corrispondere all’etere, nel pancatattva occupa il posto gerarchicamente più alto. Nella prassi corrispondente si debbono distinguere piani o livelli.
In primo luogo sono attestate visibili sopravvivenze di pratiche di carattere oscuro e più stregonico che magico. Di ciò è il caso, ad esempio, in riti nei quali l’uomo, per conseguire certi poteri, cerca di captare alcune entità femminili, fascinandole e assoggettandole per mezzo di incantamenti nella persona di una donna reale e possedendo questa donna in un luogo selvaggio, come una foresta o un cimitero. È da rilevare però che come struttura queste stesse pratiche oscure hanno una certa analogia con le pratiche sessuali a fondo iniziatico, tanto che in queste si potrebbe vedere un’assunzione delle prime su un piano superiore, ovvero che in quei riti oscuti si potrebbe vedere una specie di facsimile degradato e demonizzato delle seconde.
Inoltre, sono da considerare cerimonie orgiastiche collettive. Vi è chi in esse ha voluto riconoscere sopravvivenze o continuazioni di antichi «riti stagionali» della fecondità. Si sa che le interpretazioni agrarie, stagionali e simili sono una specie di idea fissa dell’etnologia e di una certa storia delle religioni. Come essenziale nell’esperienza orgiastica collettiva e come elemento costituente il presupposto di tutto il resto, è da considerarsi invece una specie di selvaggia decondizionalizzazione dell’essere. Con la promiscuità, con la rimozione momentanea di ogni limite, con la rievocazione o riattivazione orgiastica del caos primordiale certe forme oscure di estasi sono propiziate.
È degno di nota il fatto che in alcune cerimonie collettive orgiastiche attestate nel tantrismo sembra venire in rilievo una spersonalizzazione e una completa rimozione di ogni interdizione. Infatti, oltre ale orge nelle quali ogni uomo si sceglie la donna con cui unirsi, è stato riferito che ve ne sarebbero altre in cui la scelta personale è interdetta, in cui deve essere il caso a decidere quale sarà la donna di ogni partecipante. Le donne mettono in un mucchio i loro corpetti (jacket), ogni uomo ne prende uno dal mucchio e la sua compagna sessuale sarà la donna a cui esso corrisponde: che essa, eventualmente, risulti essere la propria figlia o la propria sorella non muta la regola; soltanto questa donna potrà venire usata.
Tuttavia, nel tantrismo sono anche attestate ritualizzazioni dell’orgiasmo sessuale, sulla stessa linea di quelle che abbiamo indicato per l’uso delle bevande inebrianti. Di nuovo, si tratta di riti praticati da un circolo costituito da coppie. La norma, di usare soltanto la propria moglie, formulata per i gradi inferiori, è revocata nel caso del vero vîra: questi può avere il rapporto con qualsiasi donna. Viene anche considerato il cosidetto «matrimonio di Shiva» (dio che prende volentieri sotto la sua protezione tutto ciò che esce dalle regole). Si tratta di una unione temporanea, sebbene rinnovabile, con una giovane da usare nel cakra, presa con sé senza i riti del matrimonio tradizionale indù. Soltanto i pashu sono esclusi, qualunque sia la casta a cui appartengono. Già una ritualizzazione è da supporsi con riferimento al numero delle coppie – cinquanta -, questo essendo il numero delle lettere dell’alfabeto sanscrito le quali, a loro volta, come si è visto, vengono messe in relazione con poteri cosmici. Le coppie formano un cerchio al centro del quale si trova il «signore del circolo», il cakreshvara, cno la sua compagna. Risponde parimenti a un simbolismo e ad un ritualismo il fatto che mentre le donne dei partecipanti sono discinte, quella del «signore del circolo» è completamente nuda. Come ogni donna corrisponde alla Shakti o a prakrti, così la donna del tutto nuda è immagine della Shakti o di prakrti libera da ogni forma, ossia allo stato elementare.
Purtroppo non sono noti testi con dettagli sullo sviluppo della cerimonia orgiastica. Come nel caso delle bevande inebrianti, è da supporsi che si formi un clima magico-estatico collettivo e una specie di vortice fluidico avente il centro nella coppia in mezzo al circolo. Questa supposizione potrebbe essere convalidata dal fatto che sono attestati casi di cakra del genere convocati a fini puramente operativi: ad esempio, per propiziare l’esito positivo di spedizioni progettate da un sovrano. Allora si tratterebbe del suscitamento di uno stato atto a rendere efficace un’azione magica avente, in questo caso, un fine estrinseco e del tutto profano.
Se invece il fine è immanente e spirituale, per le stesse cerimonie collettive orgiastiche sessuali del pancatattva il quadro è lo stesso di quello considerato per l’amplesso di una singola coppia. Ogni uomo incarna il principio Shiva o purusha, ogni donna il principio Shakti o prakrti. Nel rito, l’uomo si identifica con l’un principio, la donna con l’altro principio. La loro unione riproduce quella della coppia divina; i due principî, shivaico-maschile e shaktico-femminile, che nel mondo manifestato e condizionato appaiono separati secondo la dualità della quale quella dei sessi, di uomo e donna, è una espressione precisa, vanno per un istante – in quello dell’orgasmo sessuale – a ricongiungersi evocando «Shiva androgino» e l’unità del Principio. Dal punto di vista dell’esperienza, in questi termini l’unione sessuale avrebbe un potere liberatore, sospenderebbe la legge della dualità, produrrebbe un’apertura estatica, porterebbe per un istante di là dalla coscienza individuale e samsârica. L’uomo e la donna divenendo momentaneamente identici ai loro rispettivi principi ontologici, a Shiva e alla Devî, presenti nel loro essere e nel loro corpo, ed essendo sospesa la legge dualistica, in ciò che viene chiamato samarasa, ossia nella simultaneità dell’ebrezza, dell’orgasmo e del rapimento che nell’amplesso unisce i due esseri, si ritiene che si possa suscitare lo stesso samatâ, lo stato di «identità» e di trascendenza, il sahaja, ovvero che si ottenga una forma speciale di piacere esaltato e trasfigurato, presentimento della stessa sambhodi, ossia dell’illuminazione assoluta, e del sahaja, l’incondizionato. A questa stregua, il Kulârnavatantra giunge a dire che solamente per mezzo dell’unione sessuale l’unione suprema può essere raggiunta.
Tutto ciò porta evidentemente ad un piano assai più differenziato di quello delle pratiche a carattere orgiastico collettivo. In effetti, alle esperienze sessuali a carattere più o meno estatico vanno distinte quelle di tipo propriamente iniziatico e yoghico, per le quali l’unione sessuale deve seguire uno speciale regime, viene applicata una tecnica precisa, viene accentuato il processo della ritualizzazione e delle evocazioni. Ciò sta dunque a definire un livello ulteriore del rapporto tantrico con la donna, e entrano in questione soltanto pratiche compiute da una singola coppia.
Intanto alcuni dettagli potranno offrire un certo interesse. In primo luogo, oltre a shakti, la giovane donna che partecipa al pancatattva e a riti analoghi viene chiamata ratî. Questa denominazione vuol dire «il principio di rasa», e rasa, a sua volta, significa rapimento, emozione intensa e anche orgasmo. A tale riguardo vi è da rilevare che l’antica tradizione indù aveva già associato il principio dell’ebrezza alla Grande Dea. È stato osservato che una delle forme di essa era Varunanî. Ma, nella lingua pâli, Vârunî designa una bevanda inebriante e anche una donna inebriata. Non vi è dubbio circa la relazione fra Vârunî e le bevande inebrianti, tanto che in certi testi «bere Devî Vârunî (la dea Vârunî)» significa bere tali bevande. Perfino negli inni del severo Cankara la dea è associata ad esse, tiene una coppa o è presa dall’ebrezza. Così, in questo archetipo o immagine divina viene sottolineato l’aspetto della donna quale incarnazione del rapimento e dell’ebrezza, tanto da condurre all’associazione del rapporto con la donna con quello delle bevande inebrianti nel rituale segreto della Via Della Mano Sinistra. Concludendo, il nome di ratî per la compagna del vîra, designa «colei la cui sostanza è l’ebbrezza».
La scuola Sahajiyâ ha elaborato tutta una classificazione quasi scolastica delle ratî, indicando il tipo più adatto per le pratiche a finalità iniziatica, definito vicesha-ratî e presentato come un tipo eccezionale.
Sempre a livello iniziatico vien detto che mentre il vîra dei gradi inferiori dovrebbe usare soltanto la propria donna, per il vero siddha questa restrizione cessa di valere, egli può usare nel rito qualsiasi donna; non sono poste nemmeno restrizioni di casta, anzi spesso nei testi sia del Vajrayâna che tantrico-vishnuiti come compagne del vîra vengono presentati tipi di giovani donne che dal punto di vista occidentale forse verrebbero chiamate dissolute. In effetti qui non si tratta più dell’unione-rito tradizionale delle caste superiori arie ma, in fondo, di una operazione tecnica a carattere magico e yoghico nella quale la donna non ha valore come una particolare donna ma in relazione alla forza elementare di cui essa dispone o può ricevere, al suo essere una specie di combustibile fluidico per un processo di arsione. Nel tantrismo vishnuita viene in fondo ratificata l’irregolarità già per il fatto che come la coppia divina, che l’uomo e la donna dovrebbro incarnare unendosi, viene indicata quella di Krshna e Râdhâ, coppia che viola il vincolo matrimoniale, e che il tipo dell’amore veramente intenso e utile non è visto nell’amore coniugale, ma nell’amore parakîyâ, che non è l’amore per la propria moglie, o è l’amore per una ragazza giovanissima.
In certi testi viene considerata una specie di graduazione della nudità della donna quando essa viene usata. Abbiamo già detto che nei riti collettivi in catena soltanto il «signore del circolo» usa la compagna completamente nuda. Un uso del genre non verrebbe ammesso per tutti, ma solo per i vîra dei gradi superiori. Le implicazioni ritualistico-simboliche di questa norma sono evidenti: la nudità completa della donna, incarnazione di Shakti, evoca lo stato nudo, elementare della stessa Shakti. Ora, ad un livello superiore, dove al ritualismo e al simbolismo si associa l’evocazione magica, alla completa nudità fisica può far da controparte la donna che si sveste della sua particolarità, del suo elemento umano-personale e che diviene una incarnazione della «Donna assoluta», dunque di un potere che può essere pericoloso, tanto da imporre l’anzidetta restrizione dell’uso della donna completamente nuda (nel duplice senso) a coloro che hanno una qualificazione (una qualificaziione shivaica) tale, che esperienze del genere non siano pericolose. Nell’ermetismo alchemico si può forse raccogliere una corrispondente idea del detto: «Beati gli Atteoni che possono vedere la Diana nuda senza perire» – Diana invulnerabile e mortale.
Sul piano di pratiche individuali a carattere iniziatico, viene detto che la giovane, prima di essere usata, va consacrata: essa deve essere anche iniziata e istruita nell’arte delle mudrâ, delle posizioni magico-rituali, il suo corpo deve essere reso vivente con la tecnica del nyâsa. È così che la donna, oltre che ratî e shakti, talvolta viene chiamata essa stessa mudrâ, parola che designa le posizioni rituali yoghiche tenute a provocare un determinato stato fluidico. Qusto stesso termine designa dunque la giovane non solo come riferimento alle posture che assumerà nell’atto di amore ma anche all’evocazione di una forza in lei che l’assimila ed una forma magica della divinità o a un attributo divino. Ancora una designazione della donna è lâta, e un nome della pratica sessuale è latâ-sâdhana. Lâta significa pianta rampicante. Si allude ad una posizione in cui la donna si avvinghia all’uomo seduto, ed è lei ad avere la parte attiva nell’amplesso, tanto da sensibilizzare e riprodurre su questo stesso piano i significati metafisici del maschile e del feminile. Peraltro nei testi si fa spesso cenno ad una fase preliminare o dhyâna preliminare avente per oggetto la visione degli âsana (delle posizioni rituali) della coppia divina, di Shiva unito a Shakti o Kâlî. La giovane va amata «secondo il rito» – nâtikâ-mayet striyam. Prima essa deve essere pûiyâ e poi bhogyâ, ossia prima «adorata» e poi posseduta e goduta. Il senso dell’adorazione varia a seconda dei livelli; al livello magico-iniziatico, essa equivale alla già detta animazione e proiezione di una immagine per mezzo della fantasia magica, fino ad una evocazione, alla «chiamata» del devatâ nella persona, nel corpo e nella carne della giovane. Per designare questo procedimento è stato usato il termine tecnico dropa, che significa «l’imposizione di una natura diversa» all’oggetto, benchè la forma, le sembianze sensibili restino la stesse: nel senso di una integrazione del fisico nel superfisico. Nel presente caso, si tratta appunto del processo di momentanea transmutazione della donna, suscitante in lei una «presenza reale», la «donna assoluta». L’âropa viene considerato come una condizione imprescindibile.
Oltre a ratî, shakti, mudrâ e latâ, alle donne usate in queste pratiche sessuali viene dato il nome di vidyâ, parola che vuol dire conoscenza, sapienza, ma non in senso astratto e intellettualistico ma come potere che risveglia e trasfigura. Ciò ha relazione con un aspetto del feminile a cui si possono probabilmente associare le allusioni di alcuni testi alla donna quale guru, alla «donna iniziatrice», o «matrice della conoscenza trascendente». Non è escluso che, in parte, simili accenni riportino ad un’era ginecocratica (specie quando si afferma la superiorità dell’iniziazione conferita da una donna), a quei ‘Misteri della Donna’ che sono attestati anche nell’antico Occidente e che non sono privi di relazione con la stessa prostituzione sacra esercitata nel segno di una divinità feminile, della Grande Dea. Qui l’uomo soltanto attraverso la donna e l’unione con lei partecipa al sacrum. Ma è legittimo pensare che tutto ciò cada in margine del tantrismo, che nel caso del tantrismo ci si debba riferire soprattutto al principio generale, che Shiva (di cui l’uomo incarna il principio) non è capace di azione se non è vivificato dalla Shakti. In questi termini alla yoginî, alla compagna del vîra, viene attribuito il potere di ‘liberare l’essenza dell’Io’. Già di Durgâ in un inno Vicvasâra-tantra è detto, che essa è ‘la dispensatrice di buddhi’ significando l’intelletto trascendente. In un suo altro aspetto, la donna contiene dunque potenzialmente questo principio che essa lascia agire insieme all’ebrezza e all’estasi che procura. Così nei Tantra buddhisti, nei quali prajnâ ha lo stesso significato di vidyâ, vengono presentate figure poco ortodosse di buddha iquali conseguono l’illuminazione grazie al congiungimento con una giovane donna, mentre sul piano metafisico come stato supremo viene indicato quello del mahâsukha-kâya, che sta al di là del semplice nirvâna; in esso il Buddha è ‘abbracciato’ dalla Shakti, da Târâ: inseparabile da lei, grazie all’estasi di cui essa è la fonte e alla potenza creatrice di cui è l’origine, solo in esso i buddha si trovano nel pieno possesso del buddhatva. Sempre nel Vajrayâna, porta allo stesso punto l’applicazione sul piano operativo sessuale del principio del Mahâyâna, che la realizzazione richiede l’unione, presentata simbolicamente come un amplesso, di prajnâ e upâya, vale a dire della conoscenza illuminante (concepita come femminile) e del potere operante (concepito come maschile). Di nuovo, il simbolo qui viene tradotto in una realtà: la donna incorpora prajnâ, l’uomo upâya, l’unione sessuale viene chiamata vajrapadmasamskâra (samskâra = azione, sacramento o operazione magica; vajra e padma designazioni, nel linguaggio cifrato, dell’organo sessuale maschile e di quello feminile).
Questa distribuzione delle parti da uomo e da donna sembra escludere una iniziazione a fondo ginecocratico, ossia con preminenza del principio feminile, e il tema dell’incesto ci riporta allo stesso punto. Come si è detto, in quanto generatrice dell’esaltazione e dell’estasi che rende vivente e illumina il principio ‘Io’ dell’uomo, potenziale portatore del diamante-folgore (‘la matrice del vajra’). Ma questa madre è anche la donna con cui ci si congiunge, che si possiede, nel quadro di una unione la quale, alla stregua di tale simbolismo, riveste dunque un carattere incestuoso, ed è da ritenersi che il punto del nascere o del ridestarsi del vajra sia anche quello in cui la shakti viene posseduta e assorbita. Si può presumere perciò, che dal punto di vista interno, l’amplesso comprenda due fasi, il senso delle quali forse è dato nel miglior modo dall’ermetismo alchemico europeo per mezzo del simbolismo della femmina lunare che dapprima acquista il sopravvento sul maschio solare, lo assorbe e lo fa sparire in sé; poi è il maschio ad affermarsi, a montare sulla femina e a ridurla alla propria natura – altro corrispondente simbolismo essendo quello della madre che genera il figlio e del figlio che successivamente genera la madre. In termini tantrici, ciò significa che la Shakti passa nella forma di Shiva, che essa diviene la cidrûpinî-shakti, trasmutazione da noi già conosciuta sul piano cosmologico come il senso della seconda fase – della fase ascendente – della manifestazione. Peraltro, secondo questo particolare aspetto, nella compagna del vira entrerebbe in questione la qualità puramente shaktica, la ‘Donna assoluta’ portata da un desiderio elementare, presa dalla stessa forza scatenata che nell’amplesso cerca il vajra-sattva, il principio maschio che la placa, che ne risolve la tensione e la fiamma in fredda, pura luce nel segno dell’Uno magico.
Per l’efficienza della pratica tantrica sembra dunque che la feminilità sia da ridestare appunto secondo la pura qualità çaktica, che essa debba agire come qualcosa di pericoloso e di disgregatore (così nel suggestivo simbolismo ermetico-alchemico l’uso della donna viene annoverato fra le cosidette ‘acque corrosive’): perché appunto questa è l’essenza della Via della Mano Sinistra: cercare situazioni dissolutive, ‘tossiche’, per trarne un esito di liberazione. Appunto per queste valenze della donna e per la natura degli stati suscitati dal congiungersi con lei, a chi segue la pura via ascetica e contemplativa in senso stretto il tenersi lontani da essa è precetto categorico. Nel campo opposto, quando si richiede che la giovane da usare, a parte la qualificazione naturale, sia iniziata e adeguatamente addestrata, è verosimile che questo addestramento si estenda anche all’arte dell’amore fisico e a controparti magiche di essa. Già fisiologicamente, come vedremo, al livello puramente yoghico sembra essere presupposta, nella giovane, una speciale padronanza del suo organo sessuale. Del resto, chi conosce i trattati di erotica indù già sul piano profano trova indicate posizioni per l’amplesso che per le donne europee in nessun modo potrebbero entrare in questione perché presuppongono un vero e proprio non facile addestramento corporeo.
Che il vîra non debba abbandonarsi e farsi soverchiare dall’esperienza, che dunque l’interpretazione sopra accennata del decorso di essa, nei termini delle due fasi alle quali si riferisce il simbolismo operativo ermetico-alchemico, sia adeguata, ciò risulta fuor da ogni possibilità di dubbio da dati molteplici. In genere, basterebbe riandare a quanto dicemmo sulla purificazione della volontà. «Coi sensi dominati, distaccato, impassibile di fronte alle coppie degli opposti, saldo nel puro principio della sua forza», con tale disposizione, viene detto, il vira pratica il pancatattva. Il Kulârnava-tantra ripete che egli deve esser fermo di mente e di volontà, i suoi sensi debbono esser purificati e soggiogati e un altro testo specifica che questa padronanza va mantenuta in tutti gli stadi della «passione» (rasa), cioè in tutti gli stati suscitati dall’amplesso. La tendenza congenita del pashu a perdersi nel piacere fisico, nel piacere bramoso, ossia in ciò che volgarmente viene chiamato «voluttà», deve essere neutralizzata, e probabilmente nel senso più profondo è in questi termini che va intesa la «purità dei sensi», di cui si parla. Diffide contro l’abuso delle pratiche col sesso si trovano egualmente dei testi del Vajrayâna i quali chiamano «bestie a due gambe» non aventi nulla a che fare con gli iniziati, coloro che se ne rendono colpevoli.
Ci sembra anche rivestire una particolare importanza la norma che il vira deve essere refrattario all’ipnosi, deve essere insuscettibile ad essere ipnotizzato. È assai verosimile che qui si abbia in vista il pericolo di subire una fascinazione deleteria nell’incontro con la donna shaktizzata e la possibilità di una corrispondente caduta. Viene anche detto che il corpo deve essere perfetto, deve essere reso forte, eventualmente ricorrendo all’hatha-yoga fisico, altrimenti l’esperienza cruciale può risolversi in un tramortimento o in uno svenimento. «Senza un corpo perfetto il sahaja non può essere realizzato».
In relazione al principio che la padronanza di sé deve essere mantenuta in tutte le fasi in cui si sviluppa l’esperienza nell’amplesso, talvolta è stata considerata una precisa, corrispondente disciplina preliminare. Un rituale della scuola Sahajiyâ prescrive che l’uomo dovrebbe trovarsi insieme alla giovane che intende usare, e dovrebbe dormire dove lei dorme, senza toccarla, occupando un giaciglio separato, per ben quattro mesi; poi dovrebbe dormire insieme a lei standole a sinistra, egualmente per quattro mesi, e per ancora quattro mesi stando alla sua destra, sempre senza contatti carnali. Solo dopo di ciò dovrebbe aver luogo il congiungimento magico con la donna nuda, iniziando la fase operativa. Verosimilmente, forme più semplificate di un’analoga disciplina preliminare sono state considerate. Il loro scopo non è certo di creare una consuetudine di vicinanza che spegnerebbe il desiderio, abituandosi nel contempo a padroneggiarlo. Non è escluso che siano state contemplate due fasi: l’una di un amplesso «sottile» e senza contatto (platonico) con la donna-dea fatta oggetto di «adorazione», fase che si continua in una seconda, in cui l’unione si sviluppa anche sul piano corporeo con l’amplesso «conforme al rito», che la presuppone. Una tale supposizione è resa verosimile dal fatto che proprio questa duplice fase viene considerata in certi insegnamenti di una magia sessuale ancor praticata in Occidente ai nostri giorni. Comunque, quell’addestramento preliminare alla padronanza di sé stando vicino alla donna appare avere una precisa ragion d’essere anche per il carattere della tecnica da seguire al livello yoghico, per prevenire il normale esito di una unione sessuale, come fra breve diremo.
Su quest’ultimo grado facente parte dell’hatha-yoga vero e proprio dobbiamo ora portare l’attenzione. Non è facile raccogliere dai testi dettagli perché in genere viene usato un linguaggio cifrato polivalente; così accade che stessi termini ora abbiano un significato simbolico e alludano a principî ontologici e a operazioni spirituali, ora abbiano un significato concreto e operativo e si riferiscano ad organi, a sostanze corporee, ad azioni fisiche. Ad esempio, bindu, il «punto», termine della metafisica tantrica, può anche significare il seme maschile, lo sperma; il vajra può significare l’organo sessuale maschile, rajas il fluido femminile, mudrâ la donna, padma il suo sesso, lo yoni, e via dicendo. È da considerarsi, tuttavia, il caso che l’un significato non escluda l’altro, non solo perché ci si riferisce a piani diversi ma anche perché i significati o elementi materiali e perfino fisiologici, tutte le operazioni svolgendosi su un doppio piano, fisiologico e transfisiologico.
Comunque un punto sembra risultare in modo sufficientemente chiaro. Nell’hatha-yoga il congiungimento sessuale viene considerato come un mezzo per provocare una rottura violenta di livello della coscienza e un’apertura effettiva sulla trascendenza quando l’amplesso segue un particolare regime. L’essenza di tale regime è l’inibizione dell’eiaculazione da parte dell’uomo, del versamento del suo seme dentro la donna. Il seme non deve essere emesso: bodhicittan notsrjet. In correlazione, l’orgasmo viene staccato dalle sue condizionalità fisiologiche e l’apice di esso, che abitualmente nell’uomo coincide con la crisi eiaculativa, si trasforma, da luogo alla folgorazione che spezza il limite della coscienza finita e conduce alla realizzazione dell’Uno. A tanto, alcuni testi, come l’Hathayogapradipika, fanno intervenire anche procedimenti ausiliari, come la sospensione del soffio, anzi nella sua forma integrale, chiamata khecarî-mudrâ (qui mudrâ non significa la donna ma ha il senso normale di operazione – gesto-sigillo). Praticando la khecarî-mudrâ – viene detto – «l’emissione del seme non avviene anche se abbracciati da una giovane ardente femmina». Si parla anche di una speciale mudrâ la quale, in fondo, corrisponde al punto essenziale: solo che non bisogna lasciarsi fuorviare dalla lettera dei testi, secondo la quale il procedimento sembrerebbe essere soltanto fisiologico. «Anche se il fluido è disceso nell’organo sessuale – viene detto – egli [lo yogî] può farlo riascendere e riportarlo al luogo suo mediante la yoni-mudrâ». E ancora: «Il bindu che sta per versarsi nella donna, mediante uno sforzo estremo deve essere costretto a riascendere… Lo yogî che in tal guisa rattiene il seme vince la morte, perché come il bindu versato conduce alla morte, così il bindu trattenuto conduce alla vita». A tale riguardo, un aiuto potrebbe essere dato da una donna adeguatamente addestrata con lo stringere col proprio organo sessuale, lo yoni, l’organo maschile, il lingam, quasi a strozzarlo, al preannunciarsi della crisi eiaculativa. Però non è facile immaginarsi la cosa: dato lo stato di turgescenza dell’organo maschile, anche nel caso di muscoli eccezionalmente sviluppati dello yoni, cioè della vagina (il constrictor cunni), non è verosimile che una tale iniziativa abbia una grande efficacia, anzi si potrebbe pensare che essa porti proprio al risultato opposto, perché solitamente essa aumenta l’eccitazione maschile provocando, rendendo incontenibile, l’eiaculazione.
Comunque, a noi sembra che la tecnica riceva il suo giusto senso solamente nel contesto con altri testi dove l’inibizione della emissione del seme viene messa in relazione con la realizzazione della bindhu-siddhi, ossia con l’impadronirsi dell’energia che vi è contenuta, ed anche con la dottrina occulta circa l’elemento senza-morte, o ambrosia, che scende dal centro della fronte e viene divorato e arso sotto specie di seme, dal che deriverebbe la corruttibilità dell’organismo umano. Allora non si tratterebbe del procedimento meccanico di trattenere una sostanza organica e di dirigerne il movimento negli organi fisici, ma di un’azione essenzialmente interiore avente per oggetto la forza che si traduce, o «precipita» e degrada, in seme; azione, questa, il cui scopo sarebbe appunto sospendere tale precipitazione, portare ad agire la forza già in moto su un piano diverso, transfisiologico. A tale stregua si può capire che possa essere eventualmente d’aiuto l’accennata mudrâ della sospensione del soffio, evidentemente nell’apice dell’amplesso quando tutte le condizioni materiali e emozionali per la precipitazione del bindu già in moto e per la crisi della eiaculazione spermatica sarebbero presenti. Del resto, questa interpretazione potrebbe essere convalidata dalle indicazioni relative ad un’altra mudrâ, ad un altro gesto, l’amarolî-mudrâ, che è l’equivalente della vajroli-mudrâ maschile per la donna; alla donna si prescrive di operare un’analoga sospensione ed un’analoga ritenzione di un qualcosa, la designazione del quale nei testi è equivoca ma che è difficilmente interpretabile in termini puramente materiali, come nel caso del seme maschile.
Sempre in ordine alla non-emissione del seme, praticamente potrebbero venire considerati anche due fattori. Il primo è che nello stesso campo dell’amore sessuale profano in certi casi di un desiderio per la donna estremamente intenso l’effetto può essere appunto il non raggiungimento della eiaculazione. Il secondo fattore è che tutti i procedimenti evocatori provocano in via naturale uno spostamento della coscienza sul piano sottile in una specie di transe, e questo spostamento provoca a sua volta un distacco delle energie dal piano fisico e fisiologico, il che, di nuovo, può impedire l’eiaculazione (del resto, l’incapacità di raggiungere la crisi eiaculatoria orgastica è spesso attestata sul piano profano nel caso dell’uso di stupefacenti e di droghe – perché una tale uso provoca parimenti, sebbene in forma passiva, uno spostamento della coscienza sul piano sottile). Anche senza gli accennati, crudi procedimenti yoghici, questi due fattori, certamente presenti, non possono non agevolare l’operazione fondamentale, la vajroli-mudrâ.
Arrestata la caduta del seme-bindu, verrebbe anche stabilizzato, in una forma esaltata e trasfigurata, in uno stato di transe attiva, ciò che abitualmente corrisponde al fugace punto culminante della crisi orgastica (stato «immobile», in cui trapassa quello «agitato» – samvrta – ossia orgastico nel senso comune). E si parla di una «unione che non ha fine», ossia di uno stato che dura assai a lungo, perché ci si rifà ad una teoria analoga a quella già riferita, ad esempio, circa il fuoco e gli altri elementi: come vi è un fuoco non-generato e sempre presente che si manifesta nell’una o nell’altra combustione, così esisterebbe una voluttà non generata,, corrispondente a quella dell’amplesso della coppia divina, di Shiva e Shakti, della quale la voluttà provata dagli uomini e dalle donne che si uniscono sarebbe solo una manifestazione parziale momentanea, ridotta e contingente. Ebbene, si presume che l’amplesso magico soddisfacente alle condizioni dianzi indicate attivi, attiri e fissi un tale piacere nella sua forma trascendente, «priva di inizio e di fine». Donde il vertice orgastico che si protrae («che non ha fine»), in luogo del cadere, l’uomo e la donna, come abbattuti, dopo la breve crisi dell’orgasmo quale è abitualmente vissuto.
Così nello stato chiamato samarasa, che è «identità di godimento» o estasi unitiva, fusione e assorbimento dissolutivo e esaltativo del principio maschile nella shakti della donna usata, al livello yoghico, di là dalle anticipazioni che possono aversi nelle stesse forme orgiastiche del rituale tantrico, si mira a vivere l’elemento folgore, ciò che è primordiale, «non generato», «non condizionato». Il termine «non generato», sahaja che ha dato il nome ad una corrispondente scuola, da Kânha (tarda scuola madhyâmika) viene usato, in fondo, come sinonimo di ‘vuoto’, ossia di trascendenza. Si parla di un «immobilizzare il re dello spirito mediante l’identità di godimento nello stato del non-generato», il che avrebbe per conseguenza l’immediata conquista del principio di goni magia, il superamento del tempo e della morte. L’unione sessuale trapassa nell’unione di padma (simboleggiante la conoscenza illuminante ma, nella trasposizione del termine, anche l’organo e il fluido femminili) e di vajra (che è il principio spirituale attivo e l’organo maschile) avente per risultato lo stato di «vuoto».
Un testo ermetico-kabbalistico, l’Asch Mezareph (V), indica il procedimento essenziale con una interpretazione esoterica dell’episodio biblico del colpo di lancia di Fineo che «trafisse insieme, al momento del loro congiungimento sessuale, in locis genitalibus, l’Israelita solare e la Madianita lunare» – aggiungendo: «Il dente e la forza del Ferro, agendo sulla materia, la purga di tutte le impurità, … la lancia di Fineo non solo sgozza il Solfo maschio ma uccide anche la sua femmina ed essi muoiono mescolando il loro sangue in una stessa generazione. Allora hanno inizio i prodigi di Fineo».
Da questo testo, anch’esso cifrato, si può raccogliere un analogo insegnamento di magia sessuale al livello iniziatico. È significativo che venga detto che in pratiche del genere si passa attraverso la morte per giungere alla vita, si conosce «la morte nell’amore». L’associazione di amore e morte, peraltro, è un noto tema ricorrente in molte tradizioni e nella stessa letteratura, tema che, di là da un romanticismo stereotipo, può essere portato su un piano operativo oggettivo. In fondo si tratta di far agire in pieno quella dimensione della trascendenza che si cela anche in ogni forma di amore sessuale profano intenso. Nel momento in cui, unito ad una donna, il pashu, l’uomo volgare, subisce il piacere vive l’affioramento di quella trascendenza come uno spasimo che lede, violenta e dissolve l’essere interiore (appunto questo è il significato effettivo della «voluttà» comune, nel suo aspetto più profondo), l’iniziato è supremamente attivo, provoca una specie di corto circuito folgorativo. L’arresto del seme specie se vi si associa quello del soffio «uccide il manas». Subentra lo stato di transe attiva col flusso «che risale la corrente» di là dalla condizionalità umana; in effetti, procedimento a ritroso, risali-corrente è una designazione della pratica. Conoscere questo procedimento – viene detto – è la cosa essenziale.
Come un esempio di esposizioni cifrate, riferiamo un passo che è un commento di Shahidullah a Kânha e ai Dohâ-koca: «Il supremo, grande godimento – – è la soppressione del pensiero affinchè il pensiero sia non-pensiero nello stato del non-generato. Quando il soffio e il pensiero sono soppressi nell’identità del godimento – samarasa – si raggiunge la suprema, grande gioia, il vero annientamento. Questa gioia dell’annientamento dell’Io la si può raggiungere nell’unione sessuale, nello stato di identità del godimento quando il cakra e il rajas vengono immobilizzati». Secondo questi insegnamenti, il rituale col sesso provocherebbe, come nell’hatha-yoga, l’arresto delle due correnti idâ e pingalâ, di cui diremo più oltre, e l’ascesa della forza lungo la direzione mediana. La pratica dovrebbe venire eseguita soltanto nel cuore della notte, cosa che ha le sue ragioni analogiche e sottili.
Anche mantra e immagini sembrano avere una parte nello sviluppo dell’operazione. Il mantra prevalentemente dato dai testi induisti è quello di Kâlî – KRIM. Si presuppone ovviamente che esso sia stato, in una certa misura, «svegliato». Ad esso associata, l’imagine-base nella pratica è quella della dea che si manifesta nella ratî – nella «donna ebrezza» – ed è questa donna. Circa le particolarità di tale immagine, esse rimandano a figure culturali, così sono tali che il loro potere suggestivo e suscitativo è strettamente legato a tutta la tradizione locale, indù o indo-tibetana.
L’immagine di Kâlî – nuda, contornata in fiamme, con la chioma sciolta, con la collana delle teste recise, che danza selvaggiamente sul corpo immobile di Shiva – probabilmente evoca qualcosa di ardente e di scatenato. Alcuni dettagli sono dati dal Prapancasâra-tantra (XVIII, 27 sgg.); in questo stesso testo è detto che la donna deve essere realizzata come fuoco – yoshâam agnim dhyâyîta. Per le fasi successive dell’esperienza si fa riferimento al fuoco che, una volta consumato il combustibile, passa allo stato sottile, sciolto dalla forma manifestata; allora la Shakti che abbraccia Shiva si fa una sola cosa con lui – ciò corrisponderebbe al punto di rottura, alla trasformazione e allo sviluppo nel senza tempo del climax sessuale e orgastico, dalla eiaculazione del seme entro la donna. Data la costante, fedele riproduzione sul piano umano e concreto delle strutture simbolico-rituali e metafisiche, è verosimile che per le pratiche yoghico-sessuali ora descritte venga scelto il viparîtamaithuna, nel quale nell’iconografia viene sempre ritratto l’amplesso della coppia divina; come si è accennato, si tratta di una unione sessuale in cui è la donna, avvinghiata all’uomo immobile seduto (immobilità rituale e simbolo della natura di Shiva), a compiere i movimenti.
Da ciò si potrebbe passare al problema riguardante l’esperienza specifica vissuta dalla donna. È ovvio che al livello di un orgiasmo collettivo, sia promiscuo, sia ritualizzato, può venire supposta una uguale partecipazione dell’uomo e della donna. Al livello propriamente yoghico la situazione è poco chiara, anche se per l’uso del linguaggio cifrato e polivalente. Alcuni testi sembrano considerare, per la donna, una speciale mudrâ (qui nel senso di operazione o gesto), l’amaroli-mudrâ, quale controparte della vajroli-mudrâ, designazione dell’atto con cui l’uomo arresta il processo della precipitazione del seme e della sua eiaculazione. Nei testi sahajivâ la fissazione e l’immobilizzazione parrebbero sempre contemplare sia pel «seme» maschile (shukra) che per quello feminile e che le due operaioni debbano essere simultanee nell’uomo e nella donna al sollevarsi dell’onda orgastica. Ora, non si vede bene che cosa significhi il «seme» feminile. Si parla del « della donna», ma rajas ha diversi significati, fra l’altro quelli di mestrui e di secrezioni vaginali. Ora, i mestrui non possono di certo entrare in merito, ed è anche poco probabile che ci si riferisca alle secrezioni vaginali quando si parla di una ritenzione o immobilizzazione da parte della donna: tali secrezioni, in effetti, di solito accompagnano già i primi stadi dell’eccitazione femminile, del resto, in alcune donne possono anche quasi mancare. Meno che mai si può pensare all’ovulo della donna, il quale non scende affatto nell’utero al momento dell’orgasmo sessuale. Così si sarebbe portati ad una interpretazione non materiale e non fisiologica del «seme» della donna: si tratterebbe di una forza da arrestare nel punto in cui si degraderebbe e si perderebbe in un orgasmo sboccante nel piacere volgare. Non vedendosi come, altrimenti, si possa immaginare nella donna l’amarolî-mudrâ, da ciò risulterebbe confermata l’analoga interpretazione non fisiologica da noi data alla , ossia all’arresto del «seme» maschile. In ogni caso è ovvio che l’iniziativa della donna non deve pregiudicare quello che noi abbiamo chiamato il suo «potenziale di combustione», quindi la sua parte fondamentale. Infatti non si può pensare che le cose vadano altrimenti se viene detto che nell’amplesso il vira, attestato il suo seme, assorbe il rajas della donna di cui ha provocato l’emissione e se ne nutre. Il rajas femminile è dunque presente come la forza fluidica o magica che alimenta in tutto il suo sviluppo lo stato di samarasa, il quale, probabilmente, risulterebbe sincopato qualora la donna si tirasse indietro, non meno che nel caso in cui essa venisse meno, stroncata dalla crisi di un orgasmo nel modo sessuale.
Infine, accenneremo ad una strana pratica sessuale del Vajrayâna il cui fine è la rigenerazione in un senso quasi letterale. Essa ha il nome di mahâyoga o di mahâsâdhana. È difficile definire il piano sul quale essa si svolge. Comunque, ad avere la parte principale sembrano essere immagini «realizzate». L’uomo deve immaginarsi di essere morto all’esistenza presente e che, come una specie di seme fecondatore, ora penetri nella «matrice sovrannaturale». In via preliminare, in una contemplazione, o dhyâna, avrà rievocato il processo che conduce ad una nascita umana. L’uomo evoca il cosidetto antarâbhava, ente che, secondo la conceduzione indù, è necessario, oltre al padre e alla madre che si uniscono, per la fecondazione. Nel contempo, si deve visualizzare il congiungersi del dio con la dea, e si deve suscitare in sé una brama intensa per la seconda, per Târâ. Allo stesso nodo che, secondo l’accennata concezione, il processo segreto di ogni concepimento è questo: l’antarâbhava, quando un uomo si accoppia con una donna, desidera la donna, si identifica con colui che sarà il padre e nella crisi orgastica entra il lei convogliandosi nel seme – così pure un processo analogo viene immaginato, all’antarâbhava, col quale lo yogî si è identificato sostituendosi però il vajra o «principio Buddha» portato dal dio che si unisce con Tarâ. Questo è il dhyâna preliminare inteso a creare, per così dire, lo scenario per l’unione sessuale che gli farà séguito oltre che ad evocare ed orientare forze interiori. Anche questa pratica comporta l’uso di mantra e la vivificazione del corpo della giovane per mezzo di un nyâsa. Seguono riti varî di consacrazione e di conferma. Questa pratica del tantrismo buddhista ha dunque un carattere complesso. È interessante, in essa, l’idea di fondo, che è quella di una regressione nello stato prenatale e di una rigenerazione de realizzare con le stesse forze che intervengono nella congiuntura che dà luogo al concepimento e ad una nascita fisica umana. Il praticante cerca di riprender contatto con tali forze e, dopo averle legate ad immagini trasformatrici, ripete l’atto procreativo però per una generazione che sarà trascendente e spirituale; è un distruggere la propria nascita ripetendo il «dramma» che l’ha determinata in un atto in cui all’antarâbhava samsârico si costituisce un principio avente la qualità Buddha o Shiva e in cui nella donna terrestre che si possiede si evoca e si fa vivere la donna divina, Târâ.
È in questi termini che, complessivamente e approssimativamente, si può raccogliere ciò che nel tantrismo riguarda l’uso del sesso, cercando di orientarsi nel meandro delle illusioni, del linguaggio cifrato e polivalente, delle immagini culturali e dei simboli. Nello yoga tantrico del sesso trova la sua applicazione più tipica il principio di suscitare ed assumere le forze del «desiderio» al fine di renderle autoconsuntive, di usarle in un modo che porti a trasformarne ed anzi a distruggerne la natura originaria. È così che proprio alla pratica che usa e esaspera la forza elementare della brama, cioè la sessualità, viene associato il mito di Shiva quale asceta delle altezze montane che fulmina col suo occhio frontale Kâma, il dio dell’amore bramoso – mitologizzazione questo atto, di ciò che nella tecnica corrisponde alla vajroli-mudrâ. Infatti viene detto che il praticante che suscita la forza del desiderio e nell’amplesso fa japa con una giovane shakti (= una donna) nuda diviene in terra il distruttore del dio dell’amore (smârahâra) egli «diviene lo stesso Shiva che annienta Smâra, il dio della brama, col fuoco del suo occhio frontale quando questo dio, cercando di suscitare in lui il desiderio, tentò di farlo venir meno al suo yoga». Secondo testi shivaiti, siffatte pratiche avrebbero un potere catartico; in virtù di esse, il kaula si libererebbe da ogni colpa. Questa sarebbe una via per realizzare la jivanmukti, ossia la liberazione già da vivi. L’apologetica tantrica finisce col presentare il kaula maestro nel pancatattva come un essere che assoggetta ogni potere innalzandosi su ogni sovrano e apparendo, in terra, come un veggente. Il punto di vista del tantrismo buddhista non è diverso. Si giunge a concepire un Buddha che avrebbe vinto Mâra (= Smâra), il dio della terra e del desiderio, che avrebbe conquistato la conoscenza trascendente e, con essa, forze magiche, per aver praticato i riti tantrici facenti uso della donna.
A differenza di quanto è proprio ai vîra dei gradi inferiori e all’esperienza orgiastica promiscua dei «circoli», al livello dello yoga è possibile, tuttavia, che l’operazione di magia sessuale abbia un carattere eccezionale. Il fine essendo la dischiusura iniziatica della coscienza, un’apertura quasi traumatica sull’incondizionato, una volta che si sia giunti a tanto usando donne si può andar oltre, abbandonando la pratica o ripetendola solo in determinate circostanze. Così, proprio il Vajrayâna presenta figure di siddha che, una volta praticato il rito sessuale e, evidentemente, dopo averne colto il frutto, si allontanano dalla donna, prescrivono la continenza sessuale e annunciano una dottrina austera. Il concepire altrimenti le cose viene considerato, in alcuni di tali testi, come un errore funesto – lokakaukrtyahânaye. Ma anche negli altri casi ciò che abbiamo esposto circa la preparazione e l’insieme delle condizioni da realizzare per tali pratiche e circa i pericoli che esse comportano, esclude che tutta la dottrina dei vîra sia un pretesto e una copertura per darsi ai piaceri dell’amore volgare e dissoluto. Altra cosa è, però, affermare che chi è un siddha, chi è giunto al termine della via, può eventualmente usare ogni donna che vuole, dato che egli è libero di far tutto, che egli non conosce interdizioni, e capita perfino di udire che è lui, e non un brâhmana, che può trarne godimento più di ogni altro. Ma ciò, evidentemente, si riferisce ad un diverso piano, alla libertà nel mondo dell’adepto tantrico.
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