Il “problema” indoeuropeo. Parte I

Il mainstream della gran parte degli studiosi odierni, trattando di Etnolinguistica, è parlare spesso del problema “Indoeuropei’” – perché per loro pare veramente essere un fastidioso “problema” – quale “frutto di comunanza linguistica”, prendendo ad esempio, opportunisticamente travisando, la Wellentheorie, “Teoria delle onde” di Johannes Schmidt, impugnadola contro la Stammbaumtheorie, “Teoria dell’albero genealogico” di August Schleicher (invece di assimilare la prima nel giusto modo, a supporto della seconda), trovando supporto nel poco chiaro e fittamente intricato ambito della Genetica delle popolazioni, dove gli esiti delle ricerche cambiano sempre, spesso repentinamente e senza valida dimostrazione, da un gruppo di ricerca all’altro, e nello stesso team o autore da un campo di indagine al successivo: quasi che questi Indoeuropei, nostri indiscussi antenati, fossero stati appunto il risultato di un miscuglio di gruppi etnici, divenuti dapprima “affini” solo per continuata vicinanza ed infine un “qualcosa” da considerare omogeneo, ma comunque a partire da un nebuloso insieme. Cose, queste, da scartare a priori, o meglio da rigettare assolutamete (senza “se” e senza “ma”), perché hanno proprio quell’incongruenza di fondo (ideologico) che si riflette in quel già noto modus operandi tipicamente politically correct e pertanto rigidamente patrocinato da quel potere forte ed occulto della (meta)-politica di stampo progessista (sebbene il termine più giusto da usare sia “sovrastruttura” o al limite “sovrapolitica”, poiché mi pare veramente uno spreco semiologico e semantico l’uso di “meta-” per le creazioni aberranti di costoro), che scola di cultural marxism e liberalismo da ogni tratto del suo bordo.

Sarebbe inutile cominciare qui una polemica contro quanto appena accennato, così come aprire una aspra contestazione ai tanti spazi internet occupati oggi da tutti questi “studiosi” di fenotipi e aplogruppi (Y-DNA o mtDNA), che fanno davvero a gara a spararla più grossa, travisando in modo peggiore quanto già di peggio sia stato “accademicamente accettato”. Già parla da sé quell’interconnessione -volontariamente o no- tra le varie dissertazioni sulle origini di R1b e R1a e le cosiddette Kurgan waves descritte dalla lituana M. Gimbutas: Indoeuropei di origini siberiano-caucasiche, con un’ancestralità medio-orientale (o quantomeno limitrofa), che niente avrebbero di che spartire con l’Homo Europaeus del nostro Aurignaziano (quello che al nostro Evola piaceva chiamare “gli Elleni del Paleolitico”), quali “sanguinari estremisti di destra ante litteram della preistoria”, patriarcali, suprematisti, maschilisti, che irruppero nel continente europeo all’inizio dell’età dei metalli seminando sconvolgimento, morte e distruzione ai miti, pacifici e pacifisti, femministi di sinistra ante litteram Neolitici di origini levantine, che conducevano una vita tutta dedicata “all’arte, alle buone maniere comunitarie e che tolleravano ed onoravano tutti i tipi di transgender”. La Gimbutas sarebbe arrivata a queste conclusioni attraverso dati ricavati dall’Archeologia e dalla Linguistica (in realtà portando all’estremo ipotesi già in voga verso la fine del 1800), essendo lei stessa un’archeologa ed una linguista, quando in realtà proprio lei stessa non ha mai fornito (e mai avrebbe potuto farlo) prove da queste discipline. La reale motivazione che spinse la Gimbutas a (ri-)formulare tale teoria fu solo ideologica: in America, dalla fredda Lituania, avrebbe trovato un nido caldo e ben foraggiato per ovvi scopi sovrapolitici, funzionali ed efficienti alla causa anti-tradizionalista, e che avrebbe coinvolto nel proprio raggio di azione e diffusione non solo gli spazi accademici ma anche tutte quelle aggregazioni New Age che fino ad oggi fanno tanti proseliti tra chi ama nutrirsi di vera e propria spazzatura mentale.

Ma poi, siete veramente sicuri che il Neolitico europeo sarebbe stato “levantino”, un’età pacifica della libera promiscuità e del piacere, fondato sui principi di una società matriarcale di tipo comunista (così come il buon Prof. Monastra la rievoca, “matristico-gilanica”)? Pare da queste descrizioni fatte e di cui si fa ancora abuso che il Neolitico europeo fosse stato una specie di mega centro sociale, con tanti “pride” ad ogni fine mese, dove tutte le comunità vivevano in totale armonia: peccato che poi sarebbero arrivati questi Indoeuropei! Ma veramente, questi hanno distrutto tutto! Ma come si può credere a tutto ciò, senza prove a favore, ma tutte a sfavore? Sì, certo, per complesso ideologico: se nella tua testa deve per forza essere così, perché ti fa comodo, allora ciò è stato così, punto e basta. Voglio rimanere, sebbene mantenendo un certo tono polemico (mi si perdoni questo), in un ambito meno ambiguo, forse perché rimasto ancora appannaggio di pochi: fortunatamente proprio la Linguistica comparata e la Glottologia mostrano molti elementi comuni circa l’enucleazione dei popoli indoeuropei da un comune centro di origine (la schleicheriana Stammbaumtheorie), che li presenta quale tutt’uno, non soltanto per lingua, cultura e spiritualità, ma in primis quale Urvolk e pertanto Urrasse, una stirpe tout court. Questi elementi, che per l’appunto non possono provenire se non da questo comune centro di origine (Urheimat), non sono soltanto foni/suoni che compongono le radici semantiche degli antichi parlanti le lingue indoeuropee, non sono soltanto i vari morfemi e le strutture sintattiche dei loro linguaggi, ma anche le stesse percezioni e visioni del mondo, di quanto li circondava e di ogni aspetto della loro vita in generale, le strutture ed i costumi sociali, tutte le gamme di espressione culturale, la spiritualità con tutti i suoi riti ed i suoi culti. E ciò ammettendo una continua reciproca influenza dovuta a perfetta compatibilità intra-genica tra i vari rami del grande albero della nostra famiglia: la Wellentheorie, che si ferma infatti solo ad ambito schiettamente indoeuropeo. Come rispondere allora a costoro dinanzi a queste insensate insistenze?

Trattasi semplicemente di mera ignoranza. Soltanto stupida, insulsa ignoranza. Una cieca ignoranza dettata da una ben precisa ideologia politica, “corretta” a dir loro, che nega l’assoluta evidenza. Non esiste lingua che non sia parlata da un popolo, inventata così dal nulla, poiché la lingua in sé riflette la Weltanschauung di un popolo, vale a dire il genoma psichico (un tratto di quello che il buon Maestro Evola indica quale differenziazione razziale di tipo spirituale, che, attenzione, non esclude quella biologica, semmai la integra di una forza fondamentale). Negare ciò significa non essere linguisti, non essere studiosi, non essere onesti, ma soltanto un pulpito rumoroso al servizio di un’egemonia politica che ha il preciso scopo di eliminare un “pericoloso” nemico. Le lingue sono formate, alla pari della materia che ci circonda, da elementi, quali i foni/suoni (da cui poi i cosiddetti fonemi, che tassonomicamente trattasi di un qualcosa leggermente diverso), che a sua volta aggregati, proprio come le molecole, formano radici sematiche ben precise, i mattoni della logica; e se la logica la si fa corrispondere al DNA, ossia ad una catena ben precisa di macromolecole, i cui segmenti (o tratti) sono ben riconoscibili, le strutture sintattiche delle lingue portano all’esterno i nostri pensieri, a sua volta emanazioni della nostra Volontà. I caratteri fisiognomici sono espressione visibile e quantificabile del nostro corredo genetico, pertanto le strutture sintattiche delle lingue sono l’espressione udibile e quantificabile della nostra sfera psichica, ossia della nostra parte intellettuale inerente al nostro genoma.

Assolutamente: le lingue riflettono i caratteri propri di un ethnos, il nostro sub-conscio collettivo, le nostre pulsioni recondite, ciò che noi siamo ab origine. Le radici semantiche, formate da una specifica gamma di foni/suoni, è un qualcosa che ci lega alle nostre più remote origini. Negare ciò è da folli. Non da ‘’scienziati’’, ma da folli. Costumi, culti, forme artistiche trovano espressione tramite la comunicazione, il linguaggio, che non è altro che un codice di segni nato in seno ad un ethnos, ad un Volk, direttamente esso da un Urvolk. Ciò è assolutamente indubbio. Nel caso indoeuropeo, così come nel caso altaico, o semita, o di altra famiglia linguistica, ciò pare evidente: ogni famiglia linguistica corrisponde ad un preciso ethnos originario, ad un preciso popolo che ha sentito il bisogno di evocare tutte le cose attorno a sé, così come tutto quanto proviene direttamente dal suo sé, nel modo dettato e congeniale al proprio patrimonio genetico. Weltanschauug è linguaggio, mimica, arte, sentimenti, gradi e modi di percezione, dunque anche religione, usi e costumi, proprio perché è qualcosa che è dettata dal nostro patrimonio genetico. Weltanschauung è Ethnos, è Volk, e per linea genealogica Urvolk: come in ognuno di noi, che ancora proviene dalla famiglia tradizionale (ormai divenuta una colpa, il nostro “peccato originale”), lo è quella linea che congiunge ognuno di noi stessi ai nostri genitori ai nostri nonni etc. Purtroppo tutto questo pare sprecato dirlo, specie in sede accademica, poiché proprio nel caso nostro, tradizionalista, si rischia non solo il boicottaggio intellettuale ma addirittura anche quello fisico tramite interventi diretti di isolamento sociale che possano arrestarci nelle nostre quotidiane funzioni pubbliche, persino nella nostra sfera privata, basta semplicemente sentirsi orgogliosi di essere Indoeuropei. Io lo sono, e voi?

Masso-stele istoriato n. 2 di Bagnolo (Valcamonica), dell’Eneolitico, con simbologia solare, virile e guerriera: il Sole (in alto) che illumina l’intera scena, che sovrasta ogni cosa; un lupo (in alto, a sinistra), dal bordo Ovest, quale animale predatore e fortemente totemico, notturno e divoratore di luce; cervi (in alto, a destra), dal bordo Est, quali prede, sì, ma anche con netto riferimento alla ciclicità stagionale, al perpetuo rinnovamento del ciclo dell’astro solare, e qui in opposizione al lupo (il Sole inghiottito dall’inverno/lupo -Ovest- e poi rigenerato dopo il Solstizio perché riportato dai cervi -Est-); armi (tra asce e pugnali), quali simboli di difesa del territorio, e campi arati (distinguibili dal contorno a Y, quale siepe, linea di confine), lambiti da campi di energia (al centro) ivi convogliata teurgicamente tramite il simbolo sacro dei cerchi concentrici uniti ‘’ad occhiali’’ che ivi (sul campo) convogliano la potenza del Sole ormai rinato dopo l’inverno/lupo; scena d’aratura con bovidi (in fondo), quale epilogo di tutta la sequenza rituale (lo scopo del rituale solstiziale è anche ottenere un buon raccolto). Nel masso-stele Ba 1, ben si vede solo la rappresentazione di un campo arato e sottoposto all’azione vivificatrice dell’astro solare ed alla protezione da parte dell’uomo paganus; una sorta di cippo che intima l’ingresso, quale terra già consacrata e di proprietà, un ‘’attenti a voi ch’entrate’’ tramite la rappresentazione dei pugnali remedelliani e le asce da combattimento (facies archeologica che lo scrivente ascrive alla penetrazione del gruppo osco-umbro nella penisola nell’Eneolitico). Le tre linee parallele sotto sarebbero altra rappresentazione del campo coltivato: il rettangolo sopra quale terra consacrata al Sole; sotto la terra arata difesa con le armi. Ecco i nostri progenitori Indoeuropei dell’Italia.
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  1. marco
    | Rispondi

    Perfetto

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