Giorgio Locchi e la filosofia dell’origine

Giorgio Locchi è nome noto a quanti abbiano imparato a pensare negli anni Settanta. L’ultima fatica di Giovanni Damiano, dedicata all’esegesi del contributo teorico di Locchi, ha il merito indiscusso di risvegliare l’interesse su questo filosofo, il cui pensiero mira al superamento dello stato presente delle cose. Ci riferiamo a Il pensiero dell’origine in Giorgio Locchi, nelle librerie per Altaforte Edizioni. Il testo è arricchito da un saggio di Stefano Vaj, che legge in termini transumanisti il contributo del filosofo e dalla postfazione di Pierluigi Locchi, figlio del pensatore (pp. 145, euro 15,00).

Il libro di Damiano analizza il significato dell’iter speculativo locchiano, mettendone in luce gli snodi essenziali. A tal fine, lo studioso salernitano distingue la propria esegesi da cliché riduzionisti, che hanno legato, sic et simpliciter, il teorico della storia aperta all’esperienza della Nouvelle Droite: «Locchi […] si colloca in una eccedenza, in una “terra di nessuno”, né apologeticamente moderna, né sterilmente antimoderna» (p. 8). La sua filosofia dell’origine è altra rispetto agli universalismi eterizzanti e rassicuranti dei tradizionalisti, quanto: «dalla dinamica autofondativa della modernità» (p. 8). Egli è stato, in essenza, un filosofo della libertà. Sulla libertà, principio infondato, ha costruito la propria visione della temporalità, come si evince dalla pagine di Wagner, Nietzsche e il mito sovrumanista (Roma, 1982) e in quelle di Sul senso della storia (Padova, 2016). Tale concezione mira a «preservare “quel potenziale di eccedenza e di sorpresa che caratterizza ogni storia”» (p. 9), al fine di sottrarre il percorso umano ai determinismi progressisti e/o reazionari.

Locchi si fa latore dell’autodeterminazione storico-politica degli uomini, fondandola sull’esistenza di possibilità alternative vigenti nel tempo. Il filosofo romano, inoltre, ritiene che il modo d’esistenza storico sia proprio dell’uomo. A differenza degli Illuministi, che pensarono teleologicamente la storicità incardinandola, ipso facto, nell’idea di progresso, interpreti d’eccellenza di quel processo di immanentizzazione del “fine” della storia ebraico-cristiano (Löwith), Locchi si sottrae ad ogni escatologia che tenda ad individuare nel “fine” della storia, la “fine” della storia: «Da qui, in nome della libertà, il rifiuto […] della filosofia della storia in quanto tale» (p. 19). La storia non è scritta ab initio, è sempre esposta sul possibile, sull’imprevedibile. Nel mondo post-moderno, al contrario: «la dinamica del progresso finisce col travolgere anche il presente, perché se da un lato rompe con il passato, dall’altro trasforma tutto il tempo in una sorta di serialità omogenea» (p. 22).

Il presente è, in tale contesto, esclusivamente determinato dal futuro: Heidegger, a tal riguardo, parlò di temporalità unidimensionale e inautentica. Al contrario, Locchi, attraverso il duo Wagner-Nietzsche, si fa testimone del tempo autentico e tridimensionale. La storia non è flusso irreversibile, ma in essa sono rilevabili tempi diversi. Quindi: «passato, attualità, futuro sono sempre contemporaneamente presenti» (p. 25). Il passato è nel presente, in esso viene de-composto e ri-composto. Per questo, e tale è il plesso di maggior rilievo teorico messo in luce da Damiano: «ogni momento può e deve essere considerato contemporaneamente come inizio, centro e fine» (p. 25). In ogni attimo, non solo l’avvenire ma lo stesso passato, vengono decisi. L’origine: «può sempre iniziare da capo (il nuovo inizio), a partire da un centro (da un presente) di volta in volta differente, in vista di un fine (un futuro) che è solo un futuro possibile tra gli altri» (p. 27). Tesi non dissimile, fa notare l’autore, da quella benjaminiana della XIV tesi sulla storia, in cui si dice che l’origine è “meta”, all’interno di una visione della storicità non più centrata sul continuum del tempo omogeneo, ma sul discontinuum: «il senso della storia va inteso come qualcosa che si dovrà, ogni volta daccapo, conquistare» (p. 29).

La stessa idea di Tradizione come tradere viene messa in discussione. La vera tradizione sorgerà dalla catastrofe del continuum, divenendo quint’essenza del nuovo inizio. Tale tradizione sarà voluta, scelta, non subita. Ciò non tragga in inganno. L’autore precisa che Locchi si pone oltre una visione meramente “umanista” della storia: «L’uomo è soltanto un amministratore della libertà […] libertà adesso […] vuol dire: l’uomo in quanto una possibilità della libertà”» (p. 31). La concezione tridimensionale della temporalità riemerse nella musica tonale di Wagner, quale retaggio ancestrale, precristiano, dei popoli nord-europei. Il centro dell’universo valoriale locchiano va individuato in Nietzsche che, con il musicista, definì la visione del mondo sovrumanista in lotta con quella egualitaria. Un Nietzsche, si badi, letto dal pensatore romano attraverso lenti bӓumleriane, sotto il segno della “libertà del divenire”. Il mondo e la storia sono scossi dall’azione inesausta della libertà. Una libertà, naturaliter, produttiva del conflitto, esposta all’esito tragico. L’eterno ritorno non è ridotto a pura “meccanica”, ma diviene immagine della storia aperta, nella quale ogni “attimo” è potenzialmente inizio e ogni luogo “centro”. Non è casuale che Klages, riferisce Damiano, abbia posto, quale cuore vitale della propria proposta speculativa, l’immagine, atta a scardinare le costruzioni fittizie, fotogrammatiche, della logica eleatica.

Anche il riferimento al mito è consustanziale al pensiero di Locchi. A suo dire: «Non ci sarebbe comunità senza mito» (p. 68). Nonostante ciò, egli si sottrae al rapporto modello-copia che al mito è attribuito da Eliade. In quanto: «la riattualizzazione del mito, con connessa rigenerazione del tempo, non è affatto un nuovo inizio, bensì l’esatta ripetizione del modello» (p. 71). Il nuovo inizio richiede il coraggio della sfida, aprire un mondo nuovo. In questo senso, perfino l’adesione al mito Indoeuropeo è condizionata in quanto: «Un “Si” al divenire, diviene esso stesso» (p. 76). Il mito, come l’origine, sono da Locchi collocati nella storia. La sua filosofia guarda a un’origine mai definitivamente posseduta, esposta alla possibile catastrofe. Nelle pagine del filosofo, per questo, ritorna il riferimento al dio Giano e alla sua duplicità. Questi rappresenta la destinazione di senso della filosofia locchiana, in quanto egli è dio: «che si volge, oltre che al passato, anche al futuro […] in quanto signore dei ricominciamenti, a conferma di una sua funzione non statica […] bensì destinata ad agire nel divenire storico» (p. 94).

A essa si dovrebbe guardare, per evitare le derive nelle quali il pensiero non-conforme si è arenato in passato: liberal-conservatorismo, nazional-bolscevismo o le vie di fuga negli “esoterismi” a buon mercato.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".
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