Ricorda Borges che “sei secoli prima dell’era cristiana, il rapsodo Senofane da Colofone, stanco dei versi di Omero che recitava di città in città, fustigò i poeti che avevano attribuito sembianze antropomorfiche agli dei e propose ai greci un solo Dio, che era una sfera eterna”. La stessa immagine si ritrova in Parmenide, per il quale l’Essere è “una sfera perfettamente rotonda, la cui forza è costante dal centro in qualunque direzione”. Anche Empedocle parla di uno “Sphairos rotondo, che esula nella sua solitudine circolare”.
Secoli più tardi, nel profondo Medioevo, in uno dei trattati attribuiti a Ermete Trismegisto il teologo Alano di Lilla scoprì la sentenza destinata a diventare classica: “Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo”. L’individuazione della vera fonte di questa metafora infittisce l’alone di mistero che la circonda: essa risale a un anonimo trattatello medievale che Meister Eckhart chiama Liber XXIV philosophorum, e che ora possiamo leggere nella magistrale edizione, con latino a fronte, curata da Paolo Lucentini (Il libro dei ventiquattro filosofi, Adelphi, pagg. 150, lire 15.000). Vi si narra di ventiquattro “maestri” che, convenuti per discutere di molti problemi, rimasero con un’unica, ardua domanda: “Che cos’è Dio?”. Si concessero allora un intervallo di tempo per riflettere. Adunatisi di nuovo, ciascuno propose una definizione di Dio. La celebre formula scoperta da Alano è la seconda di esse.
Ma l’anonimo trattato conia altre immagini diventate classiche: “Dio è una monade che genera una monade e in sé riflette un solo fuoco d’amore” (nr. 1). “Dio è principio senza principio, processo senza mutamento, fine senza fine” (nr. 7). “Dio è colui il cui potere non è numerato, il cui essere non è finito, la cui bontà non è limitata” (nr. 10). “Dio è il solo che vive del pensiero di se stesso” (nr. 20). “Dio è colui che la mente conosce solo nell’ignoranza” (nr. 23).
Nell’insieme, le prime sette sentenze definiscono Dio in sé, le successive fino alla ventesima lo determinano in relazione al mondo e le ultime quattro in rapporto all’anima. I concetti impiegati non sono quelli della teologia rivelata, ma scaturiscono piuttosto dalla teologia speculativa, di matrice neoplatonica e neopitagorica, che servendosi di termini greco-pagani enuncia verità intuitive circa la natura di Dio. Ciò rende del tutto improbabile, per non dire fantasiosa, l’attribuzione medievale a Ermete Trismegisto. Il Corpus Hermeticum contiene infatti una dottrina esoterica di Dio, le ventiquattro definizioni tentano invece di determinarne l’essenza mediante concetti filosofico-razionali.
Françoise Hudry, curatrice dell’edizione critica del liber nella collana Hermetica latina diretta da Lucentini per le edizioni Brepols, ha ventilato l’affascinante ma avventurosa ipotesi secondo cui lo scritto riprenderebbe la concezione teologica esposta da Aristotele nel dialogo perduto Sulla filosofia. Si tratterebbe della versione latina di un compendio alessandrino che elaborava la teologia aristotelica basandosi su una fonte greca più ampia, di cui il perduto Liber de sapientia philosophorum sarebbe stata la versione arabo-latina completa.
Nel Medioevo la teologia intellettualistica dello scritto prestò il fianco alle critiche e alle condanne della Chiesa, che ne ostacolò la diffusione. Di ciò rimarrebbe traccia nella tradizione manoscritta del testo, di cui esistono, come stabilisce Lucentini, tre diverse redazioni, variamente emendate o integrate.
Nonostante l’opposizione ecclesiastica, le ventiquattro definizioni furono discusse dai teologi e dai mistici medievali, che ne apprezzavano evidentemente l’intuitività e l’efficacia. Alcune di esse vengono citate da Alessandro Hales, Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, mentre il primo a menzionare lo scritto per intero è Meister Eckhart. Anche Tommaso di York lo conosceva, tanto che stese un commento delle prime tre definizioni ancor oggi inedito. E lo conoscevano Bertoldo di Moosburg e Niccolò Cusano.
Alla vasta diffusione dell’aureo libretto in mezza Europa – in Inghilterra, Germania, Francia, Italia e Spagna – contribuirono gli ordini religiosi, che lo utilizzavano più come breviario di mediazione che come trattato teologico. La continuità della sua trasmissione è documentata specialmente a Cambridge, dove le compendiose definizioni lasciano traccia in Henry More e negli esponenti del cosiddetto “platonismo di Cambridge”.
Ma fu Pascal, richiamando l’attenzione sulla metafora della “sfera”, a immortalare lo scritto tra le perle della letteratura mondiale. Tuttavia, roso dal tarlo della modernità, egli introdusse nella celebre definizione due fatali variazioni. Sostituì a Dio la Natura, e quindi, con mano esitante, aggiunse un aggettivo, effroyable, che cancellò, sgomento, appena gli fu uscito dal calamo. Ne risultava infatti questa terribile perversione gnostica: “La Natura è una sfera spaventosa, il cui centro sta in ogni parte e la circonferenza in nessuna”.
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Tratto da Repubblica del 14 maggio 1999.
Piero.Sisci
Ottime come sempre, le edizioni Adelphi…