Le nozze di Mercurio e Filologia di Marziano Capella
Ci sono opere leggendarie nel canone della cultura occidentale di cui nella memoria collettiva contemporanea non rimangono che pallide tracce. Tra le prime che dovrebbero figurare in un auspicabile indice dei libri dimenticati c’è il De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella. Nonostante le complesse allegorie e l’arduo stile “prosimetrico”, cioè in prosa e in versi, l’opera godette di una vasta fortuna nel Medioevo. Fu un anello importante nella transizione dalla cultura pagana tardoantica, della quale è espressione, a quella dell’incipiente Occidente cristiano, in cui fu largamente recepita, venendo utilizzata tra l’altro da Giovanni Scoto Eriugena, sant’Anselmo e Alano di Lilla. Ne sono prova i numerosi manoscritti in cui è tramandata, mentre relativamente povera è la tradizione a stampa, segno di un interesse scemante: essa comincia con l’editio princeps pubblicata da Enrico di Santorso a Vicenza nel 1499 e culmina con quella dell’appena quindicenne Ugo Grozio, apparsa a Leida un secolo più tardi.
Ma la fortuna dell’opera si estese oltre l’ambito letterario e filosofico, ispirando soprattutto l’immaginazione di artisti che raffigurarono in vario modo le sette arti liberali: su pergamena, su pietra, in affreschi, con tele e tappeti. Perfino Botticelli, nel preparare il dipinto a noi noto tramite Vasari come la Primavera, secondo una recente ipotesi di Claudia Villa si sarebbe basato sulle descrizioni di Marziano Capella. Mancavano finora buone traduzioni dell’opera. Nella collana “Il pensiero occidentale”, diretta da Giovanni Reale per Bompiani, ne esce ora una eccellente con testo latino a fronte, un’ampia introduzione, un esauriente commento, una storia della fortuna ed estratti dai commenti medievali di Giovanni Scoto e Remigio di Auxerre: Le nozze di Filologia e Mercurio, a cura di Ilaria Ramelli, pagg. 1287, lire 64.000, euro 33,05. Del misterioso autore sappiamo solo quel poco che egli stesso racconta alla fine della sua impresa. Era pagano, viveva a Cartagine, esercitava la professione di avvocato, professava dottrine neoplatoniche e neopitagoriche, compose il suo capolavoro in età avanzata, ad uso del figlio, probabilmente agli inizi del V secolo a. C.
Gli dèi dell’Olimpo, racconta nella sua fabula allegorica in nove libri, erano preoccupati del fatto che Mercurio, dio del linguaggio e della parola che Marziano Capella identifica esplicitamente con l’egizio Teuth, non avesse ancora trovato una sposa a lui adatta. Per porre fine al suo perdurante celibato, su consiglio del fratello Apollo Mercurio si decide a sposare una vergine mortale, Filologia, simbolo dell’amore per il logos e del sapere che l’uomo consegue per suo mezzo. La fanciulla, ascesa in cielo, è sottoposta all’esame del senato divino riunito al completo attorno a Giove. La sposa è accompagnata da sette damigelle, che personificano le sette arti liberali: le tre del discorso, grammatica, dialettica e retorica (il trivium), e le quattro del numero, geometria, aritmetica, astronomia e armonia o musica (il quadrivium). Ciascuna espone i contenuti della disciplina che rappresenta, e dall’insieme risulta un quadro dell’intero scibile umano, cioè del “ciclo” formativo che costituisce la cultura completa, “enciclopedica”, così detta perché nella filosofia neoplatonica il circolo era considerato figura geometrica perfetta.
Secondo la Ramelli, Marziano si rifà al sistema delle arti liberali elaborato da Marrone nei suoi Libri delle discipline, con un’importante variante: esclude dal novero la medicina e l’architettura. Invece secondo Ilsetraud Hadot, altra specialista dell’argomento, questa convinzione risalirebbe a un’errore di Friedrich Ritschl, il maestro di Nietzsche, che considerava Varrone quale primo codificatore latino dell’enciclopedia delle arti liberali secondo un preesistente modello ellenistico. Poco importa. Il testo, grazie all’ottima traduzione, si legge a tratti come un romanzo. E il commento ce ne fa gustare tutti i risvolti e le implicazioni.
Prendiamo per esempio l’entrata in scena della Dialettica, nel quarto libro. È presentata come una dama pallida in volto, ma dallo sguardo acuto e penetrante. Porta la veste e il velo di Atene, e in mano tiene i simboli del suo potere: nella sinistra un serpente, nella destra tavolette legate da un uncino nascosto, e mentre la sinistra nasconde sotto il vestito le sue insidie, la destra è esibita a tutti. Il suo aspetto è nell’insieme aggressivo e minaccioso, ed ella proferisce ad alta voce, in tono sacerdotale, formule incomprensibili ai più: che l’universale affermativa è contrapposta in modo obliquo alla particolare negativa, che entrambe sono convertibili, e che lei è la sola in grado di distinguere il vero dal falso. La dialettica dichiara inoltre di avere origini greche, ma di saper esprimersi anche nella lingua dei Romani grazie alla mediazione di Varrone. Espone quindi il suo insegnamento, comprendente tutte le dottrine fondamentali della logica classica. Infine, quando si accinge a illustrare i sofismi, ovvero i ragionamenti capziosi e gli inganni cui si ricorre per confutare l’avversario, interviene Pallade che la interrompe: “Basta così, o nobile fonte di scienza profonda”. Una descrizione allegorica, diventata canonica, il cui influsso si fa letteralmente tangibile se la si rilegge tenendo sott’occhio le numerose iconografie della dialettica. Essa è inoltre ricca di spunti filosofici da approfondire: per esempio l’identificazione della dialettica con la fonte stessa del sapere scientifico (fons scientiae), ossia la sua definizione come corpo di regole per ben ragionare al fine di discernere il vero dal falso, e quindi la sua rigorosa separazione dalla sofistica e dall’eristica.
Osservazioni analoghe potrebbero essere svolte per ciascuna delle altre discipline, a proposito delle quali è illuminante la documentazione storicofilologica fornita dalla curatrice. Ciò che importa è sottolineare che nel loro insieme le discipline liberali formano, per l’uomo tardoantico, il cammino ideale che l’anima deve compiere per conquistare la sapienza che la rende simile a Dio. Dopo l’unione con Mercurio, in effetti, Filologia sarà accolta tra gli immortali. In questa cornice teologicoallegorica e con questa finalità edificante l’opera presenta in un compendio enciclopedico dello scibile dell’epoca secondo una struttura diventata paradigmatica, che fu veicolata attraverso tutto il Medioevo fino al Rinascimento.
In età moderna, con l’irrompere del nuovo ideale di scienza, basato sul metodo matematico, il tradizionale sistema delle arti liberali perderà sempre più di interesse, e con la sua sparizione anche l’opera di Marziano Capella cadrà in oblio. Essa fu e rimane nondimeno uno dei pilastri del canone occidentale.
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Tratto da Repubblica del 2 gennaio 2001.
Giuliano De Zorzi
…non ne sapevo niente! La lettura mi è molto piaciuta!!!