Se ne va con Gadamer il testimone più rappresentativo e l’ultimo grande maestro della filosofia del Novecento. Nato nel 1900 formatosi alla scuola del neokantismo e della filologia classica, e soprattutto a quella di Heidegger, aveva raggiunto la celebrità solo nella tarda maturità con la pubblicazione di Verità e metodo (1960). Nel suo capolavoro aveva sviluppato il programma di un'”ermeneutica filosofica”, ossia il tentativo di considerare la “comprensione non soltanto come il tipo di sintesi conoscitiva che si attua nell’interpretazione e nella traduzione di testi, bensì come l’articolarsi stesso della vita umana nel suo essere nel mondo e nella storia. La sua prospettiva filosofica è compendiata nella tesi secondo cui “l’essere che può essere compreso è linguaggio”.
Sentenza, questa, che nella sua provocatoria acutezza rimane l’indice di un problema ancor oggi tutto da discutere.
Certo, Gadamer aveva tratto gran parte delle proprie convinzioni filosofiche da Heidegger. Eppure, evitando ogni scolasticismo, le aveva declinate secondo la misura e i valori della tradizione classico-umanistica in cui si era originariamente formato. Questa sua “urbanizzazione della provincia heideggeriana” è stata uno dei motivi che maggiormente hanno contribuito alla fortuna dell’ermeneutica, accolta e recepita non solo in ambito strettamente filosofico, ma anche in quello delle scienze umane e in particolar modo della giurisprudenza.
Dalla sua cittadella, costruita sull’eredità della grande filosofia greca ed europea che padroneggiava come pochi, Gadamer ha toccato problemi centrali del mondo d’oggi, invocando su di essi la nostra attenzione critica: il ruolo di compensazione che la cultura umanistica può svolgere nel “deserto che cresce” della nazionalizzazione e del disincanto del mondo; l’ingovernabile complessità del progresso tecnologico e la sua incapacità di generare risorse simboliche di senso; il conflitto delle culture e delle confessioni, e la rinnovata esigenza di tolleranza e solidarietà nel mondo della globalizzazione.
Da grande erede della tradizione umanistica, Gadamer ha osservato questi problemi con pacatezza, ma tenendo sempre viva una moderata inquietudine: quella di chi era consapevole di parlare di una storia e di un destino che ci riguardano tutti, ma sapeva pure che chi oggi va alla ricerca di colpevoli per le miserie del mondo, evidentemente non ha ancora capito la gravità della situazione.
Di fronte allo svanire dei modelli tradizionali di orientamento, dopo Verità e metodo egli ha sottolineato l’urgenza di una riflessione sulla ragione pratica, rivendicando l’attualità del “sapere pratico aristotelico”. Nel contempo ha intessuto un elogio della teoria, prendendo le difese del “protofilosofo” contro il riso delle “servette tracie” che oggi si motteggiano dell’estraneità del teoreta al mondo. Ma che cosa vuol dire riabilitare la saggezza pratica e al tempo stesso la teoria? Evidentemente si tratta di due strategie convergenti per affrontare i problemi di cui è costellato il cammino della finitudine umana in vista della sua riuscita, ovvero la felicità. In questo senso, Gadamer ha ricordato che il raggiungimento di una condizione felice presuppone la riuscita di quella prassi che è la vita. E che essa è possibile in quell’attitudine eccelsa, praticabile dall’uomo, che è la teoria. Ma la teoria non è una facoltà di cui noi disponiamo, bensì una condizione di serenità e di pienezza d’essere a cui bisogna prepararsi e formarsi. E il cui senso, purtroppo, sembra essere scomparso dall’orizzonte delle esperienze dell’uomo contemporaneo.
Gadamer non ha parlato però solo da ammiratore del mondo classico. E’ stato anche un filosofo del ventesimo secolo. Voglio dire: il problema che lo inquietava non era unicamente l’eredità dell’Europa, ma anche il suo futuro. Sapeva bene che il compiersi dell’avventura tecnologica non significa il recupero della felicità adamitica originaria, né equivale alla guarigione dagli esiti nichilistici cui la modernità ha condotto. Se è vero che “con il pericolo cresce anche ciò che salva”, come canta Hölderlin, è altrettanto vero che l’estenuarsi della ragione nella mera strumentalità e l’esplicarsi del nichilismo nelle sue ultime conseguenze – Dostoevskij a Manhattan – non producono necessariamente l’alternativa risolutrice, il ritrovamento del mito o l’aprirsi di nuove esperienze sostanziali di senso. Sappiamo quanto facilmente l’inquietudine per il futuro, specialmente nei momenti di consunzione degli ordinamenti tradizionali, può indurre a toni apocalittici o nostalgici. Nulla impedisce tuttavia che lo stato di deperimento si protragga a lungo, possa stagnare o cristallizzarsi. E in ogni caso noi ancora non conosciamo gli esiti ai quali il decorso della malattia, breve o lungo che sia, porterà. Con il suo senso per la finitudine umana e la sua sobrietà di pensiero, Gadamer ci ha insegnato la prudentia dell’attesa.
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Tratto da Repubblica del 15 marzo 2002.
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