È nelle librerie per i tipi di Altaforte Edizioni una novità di rilievo. Si tratta del volume di Guillaume Faye, Dèi e potenza. Testi e interviste per la riconquista europea (1979-2019), a cura di Adriano Scianca (pp. 284, euro 17,00). É una silloge di scritti del pensatore francese, per lo più inediti nella nostra lingua. Il percorso intellettuale di Faye, per un certo tratto vicino a quello della Nouvelle droite, iniziò con la frequentazione del Cercle Pareto. Dominique Venner lo introdusse al Grece, sorto nel 1969. Su di lui, lo ricorda opportunamente Scianca nell’informata prefazione, esercitarono decisiva influenza le tesi di Jean Mabire e, soprattutto, di Giorgio Locchi. Nel 1986 ruppe definitivamente con la Nouvelle droite, non per ragioni personali o contrasti d’idee, ma semplicemente perché la sua personale ricerca stava prendendo una strada diversa.
Provocatore intellettuale, oltre che per carattere, Faye, scomparso nel 2019, era dotato di una non comune capacità oratoria con la quale conquistava l’uditorio durante le affollate conferenze. La lettura di questa raccolta, che copre diversi decenni della sua produzione saggistica, consente di farsi un’idea precisa sul suo mondo ideale. Dello studioso francese si ricordano generalmente due testi, Il sistema per uccidere i popoli, che ben sintetizza la sua iniziale visione del mondo e Archeofuturismo che, al contrario, è il suo punto d’arrivo teorico. Dalle pagine di Dèi e potenza si evince, in prima istanza che egli ebbe: «un non banale retroterra filosofico, una eclettica visione della realtà di marca eraclitea. Il suo pensiero riposa su un’ontologia non finalista, non antropocentrica e non razionalistica, apertamente dionisiaca» (p. 8). Una posizione, quindi, che nel “paganesimo” ha avuto un punto di riferimento irrinunciabile, avendo la metafisica occidentale presentato una concezione della realtà finalistica e ordinata sull’idea di Dio. Per Faye il tratto ontologicamente costitutivo dell’uomo europeo è: «Spirito di conquista, audacia […] costruzione di forme sempre nuove» (p. 9). L’uomo, ai suoi occhi, è un trasgressore, un datore di senso, che vive svincolandosi dalle proprie conquiste. In ciò, ci pare di poter ravvisare un’evidente prossimità con l’individuo assoluto evoliano.
Gli dèi europei sono soggetti alle metamorfosi, appesi al possibile dionisiaco della libertà: «possono perfino morire, nel tramonto cosmico di un ordine che ne annuncia uno successivo» (p. 10) e l’uomo può assumere il tratto dell’ “eroe ribelle” all’ordine dato. In tal senso, è possibile asserire che, ab origine, il pensiero di Faye ha avuto tratto prometeico. Tale tendenza si mostra con chiarezza nella esegesi di Heidegger. Il francese si sofferma sull’idea di uomo che Heidegger desume da un passo di Sofocle, e legge to deinòtaton, come il “tremendo”, “ciò che vi è di più inquietante, il più arrischiato”. Tale tratto concederebbe all’uomo dell’età della Tecnica di affrontare il “mostruoso” prodotto dall’Impianto, attraverso una risposta capace di prendere le mosse dalle forze “mobilitate” dalla tecnica stessa, ritenuta inaggirabile (si pensi alle posizioni non dissimili di Bernard Stiegler). Tale potenza elimina dalla scena della storia ipotetici ritorni del passato. Faye, inoltre, mostra nella sua lettura della tecnica, un debito nei confronti dell’antropologia di Gehlen. A differenza dell’animale che subisce l’ambiente, l’uomo cambia se stesso e il mondo “tecnicamente”. Con Robert Steuckers, il pensatore francese è convinto che l’immaginario autenticamente europeo, a differenza di quello occidentale altrimenti strutturato, è in grado di sintetizzare radicamento e disinstallazione. Siamo animati dallo jüngeriano “cuore avventuroso” e dall’atteggiamento che Spengler chiamava faustiano, tendiamo alla conquista dell’infinito. Da sempre l’azzardo ha regolato i rapporti dell’uomo con l’ente. Il paganesimo post-cristiano di Faye si fonda, a differenza di quello di de Benoist, sul superamento dell’: «idea del divino […] Per noi […] l’idea di Dio ha preso una connotazione che tende a svalorizzare l’azione umana» e «ogni deità è definitivamente morta, definitivamente archeologica» (p. 53).
Dopo aver operato anche nel mondo dello spettacolo, egli tornò nell’agone intellettuale lanciando una nuova parola d’ordine: archeofuturismo. Essa: «dà l’idea che gli ultimi moderni constatino l’esaurimento del loro pensiero e si accontentino di annunciare un “dopo”» (p. 16). Faye era fermamente convinto dell’implodere della post-modernità: il presentarsi sincronico di catastrofi ne avrebbero minato la stabilità strutturale. Questa è una tesi piuttosto debole. Non tiene conto della capacità del sistema di “gestire” le crisi e di sopravvivere ad esse (pandemia docet) e, inoltre, implica una regressione alla visione deterministica della storia, fondata sulla ricerca dei “segni dei tempi”.
Più interessante l’esegesi dell’Occidente letto quale paradigma del declino: «meccanismo acefalo, una rete in cui certo non tutti gli snodi hanno eguale importanza, ma in cui non c’è alcun burattinaio, né alcun Palazzo d’Inverno da assaltare» (p. 19). Altrettanto significativa l’analisi, in seguito condivisa da Guy Debord, sulle “società di spettacolo”. Lo spettacolo “concentrato” offerto dal socialismo reale e quello “diffuso” proprio del mondo capitalista, espressioni dello spettacolo “integrato” offerto dalla Modernità.
La lettura di Dèi e potenza può svolgere un ruolo importante nel contrastare una della malattie infantili dell’area antagonista, il moderatismo conservatore oggi riemergente, ma ci pare insufficiente a delineare un percorso politico realmente rivoluzionario-conservatore. Tale iter deve implicare la conciliazione di Prometeo e di Orfeo, endiadi inseparabile. Privilegiare l’uno a scapito dell’altro, dà luogo a un’ incomprensione di fondo delle potestates che animano la physis. Tornare a leggere Bruno, Spinoza e Löwith potrebbe essere di giovamento.
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