“Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qual volta una qualsiasi forma di Governo, tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo governo, che ponga le sue fondamenta su tali principi e organizzi i suoi poteri nella forma che al popolo sembri più probabile possa apportare Sicurezza e Felicità. La Prudenza, anzi, imporrà che i Governi fondati da lungo tempo non andrebbero cambiati per motivi futili e transitori; e di conseguenza ogni esperienza ha dimostrato che l’umanità è più disposta a soffrire, finché i mali sono sopportabili, che a cercare giustizia abolendo le forme alle quali sono abituati. Ma quando una lunga serie di abusi e di usurpazioni, che perseguono invariabilmente lo stesso obiettivo, evince il disegno di ridurre il popolo a sottomettersi a un dispotismo assoluto, è il suo diritto, è il suo dovere, rovesciare tale governo e affidare la sua sicurezza futura a dei nuovi Guardiani”.
Così recita il nucleo fondamentale della Dichiarazione d’Indipendenza americana del 1776, uno dei due documenti fondativi (l’altro è la Costituzione del 1789) su cui si regge tutta l’etica e la legislazione degli Stati Uniti.
Cerchiamo di esaminare i punti salienti del passaggio:
1) tutti gli uomini sono uguali;
2) tutti gli uomini hanno diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità e nessun governo può alienare questi diritti dai propri cittadini;
3) ogni governo deriva i suoi poteri dal consenso dei governati;
4) è diritto e dovere del popolo rovesciare ogni forma di dispotismo assoluto.
Insomma, semplicemente si statuiscono i principi basilari che fondano o dovrebbero fondare ogni democrazia.
Prendiamo un’altro passaggio piuttosto fondamentale della storia americana: il discorso del Presidente Truman al Congresso il 12 marzo 1947, in cui viene enunciata quella che è passata alla storia come “Dottrina Truman”. Leggiamo testualmente:
“uno degli obiettivi primari della politica estera degli Stati Uniti è la creazione di condizioni in cui noi e le altre nazioni saranno in grado di elaborare uno stile di vita libero da coercizione. […] Noi non realizzeremo i nostri obiettivi, tuttavia, a meno che non siamo disposti ad aiutare i popoli liberi di mantenere le loro libere istituzioni e la loro integrità nazionale contro i movimenti aggressivi che cercano di imporre loro regimi totalitari. […] In questo momento nella storia del mondo quasi ogni nazione deve scegliere tra modi alternativi di vita. La scelta non è troppo spesso libera. Un modo di vita è basato sulla volontà della maggioranza, e si distingue per libere istituzioni, governo rappresentativo, libere elezioni, garanzie di libertà individuale, libertà di parola e di religione, e libertà dall’oppressione politica. Il secondo modo di vita è basato sulla volontà di una minoranza imposta con la forza alla maggioranza. Si basa sul terrore e l’oppressione, su stampa e radio controllate; elezioni predeterminate, e la soppressione delle libertà personali. Io credo che debba essere la politica degli Stati Uniti a sostenere i popoli liberi che resistono ai tentativi di sottometterle da parte di minoranze armate o con pressioni esterne. Credo che dobbiamo aiutare i popoli liberi a elaborare il loro destino a modo loro”.
Anche in questo caso una piccola analisi è opportuna. In sostanza Truman afferma che gli Stati Uniti lotteranno per aiutare ovunque le Nazioni a mantenere “libere istituzioni, governo rappresentativo, libere elezioni, garanzie di libertà individuale, libertà di parola e di religione, e libertà dall’oppressione politica”, perché questo è interesse anche del popolo americano. Indipendentemente dall’uso strumentale (ma la dichiarazione stessa era, in qualche modo, strumentale) con cui vari governi statunitensi hanno messo in pratica questa statuizione di principi, letta al di fuori del contesto, la dichiarazione non può che apparire una legittima sottolineatura della interdipendenza globale delle istituzioni democratiche e una riaffermazione dei pilastri fondamentali di tali istituzioni.
Fin qui, tutto molto chiaro. I problemi sorgono quando si cerca di armonizzare questi dati con lo status concesso dagli Stati Uniti all’Arabia Saudita di “partner commerciale privilegiato”, con i trattati di alleanza militare che legano i due Paesi almeno dal 1963, con i legami accademici che hanno fatto sì che, dalla fine degli anni ’70, oltre 2/3 dei membri della classe dirigente saudita siano stati educati nelle università americane e che il governo di Riyadh abbia stanziato miliardi di dollari per borse di studio di tali università, con le basi concesse all’esercito di Washington sul sacro suolo saudita, con la vendita governativa americana di armi agli Arabi per un corrispettivo di oltre sessantacinque miliardi di dollari solo nel 2010.
Perché? Semplicemente perché l’Arabia Saudita rappresenta la negazione totale e assoluta di qualsiasi principio stabilito nella Dichiarazione d’Indipendenza e, secondo il discorso di Truman, dovrebbe essere uno dei peggiori nemici della Nazione americana e non un suo partner privilegiato.
Per rendercene conto, basta gettare uno sguardo su alcuni elementi che caratterizzano uno degli Stati più anti-democratici del mondo.
L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta (l’ultima al mondo) in cui il solo limite al potere reale è, secondo il regio decreto nel 1992 considerato legge fondamentale di governo, il rispetto della Sha’aria e del Corano. Nessun partito politico e nessuna elezione sono consentiti, il re deve essere scelto, sempre secondo il regio decreto, tra i figli ed i nipoti del primo re, Abdul Aziz Al Saud e la successione al trono è determinata dalla famiglia reale (attraverso una commissione interna alla famiglia istituita nel 2007), con la successiva approvazione dei leader religiosi (ulema). Il re combina nella sua persona poteri legislativo (i decreti reali formano la base della legislazione del Paese), esecutivo e giudiziario: sempre il re è anche primo ministro, presiede il Consiglio dei Ministri (il “Majlis al-Wuzarāʾ”), formato da i due vice primi ministri (di solito il primo e il secondo nella linea al trono), 22 ministri con portafoglio e sette ministri di stato (appartenenti alla famiglia reale), due dei quali hanno particolari responsabilità, è presidente delle commissioni per le questioni amministrative, la politica interna ed estera, la difesa, le finanze, la salute, e l’istruzione e può decidere a suo piacimento se accogliere o no i suggerimenti di una Assemblea Consultiva formata da 150 membri da lui scelti. E’ vero che questo incredibile potere è praticamente limitato dal consenso degli altri membri della famiglia reale, dal consiglio degli ulema e dai “diwan” (raduni locali, normalmente retti da sceicchi tribali e capi di importanti famiglie commerciali), ma si tratta di una pura concessione reale, che formalmente non scalfisce minimamente il potere di vita e di morte che il re ha su chiunque all’interno della sua enorme Nazione.
Anche praticamente, per altro, sebbene tutti i maschi maggiorenni hanno il diritto teorico di petizione dinanzi al re proprio attraverso i “diwan”, la partecipazione al processo politico risulta limitata a un numero molto ristretto di individui, mentre il popolo saudita nel suo complesso non è autorizzato a partecipare ad alcun processo decisionale e non viene neppure informato dai media su come tali processi si sviluppino.
In concreto, la famiglia reale domina totalmente il governo e la politica in Arabia Saudita: le stime più ragionevoli parlano di circa 7.000 membri del clan Al Saud che occupano tutti i posti di rilievo della Nazione, con circa 200 persone discendenti maschi del re Abdul Aziz il cui potere e pressoché illimitato e che detengono i ministeri chiave e la maggior parte dei tredici governatorati regionali a lungo termine. Così re Abdullah, è stato comandante della Guardia Nazionale dal 1963 (fino al 2010, quando ha nominato il figlio di sostituirlo), il principe ereditario Sultan, è ministro della Difesa e dell’Aviazione dal 1962, il principe Nayef è ministro dell’Interno dal 1975, il principe Saud è Ministro degli Affari Esteri dal 1975 e il principe Salman è governatore della regione di Riyadh dal 1962. Il risultato è la creazione di veri e propri “feudi” politici in cui i principi spesso mescolato i propri interessi personali con quelli governativi, portando il tasso di corruzione nazionale a livelli altissimi (Transparency International nel suo rapporto annuale “Corruption Perceptions Index” per il 2010 ha assegnato all’Arabia Saudita un punteggio di 4,7 su una scala da 0=”altamente corrotto” a 10=”molto pulito”): semplicemente, gli Al Saud considerano lo Stato come un “bene di famiglia” di cui possono disporre a loro piacimento, facendosi pagare tangenti per commesse statali (particolarmente famoso in questo senso è stato il caso delle tangenti pagate dalla BAE System nel 2003, che ha portato la multinazionale aerospaziale al pagamento di una multa di 400 milioni di dollari dopo la condanna da parte di un tribunale statunitense, nonostante le pressioni governative) e stornando fondi di Stato per investimenti personali.
Re Abdullah, al momento della sua ascesa al trono, nel 2005, aveva promesso di modernizzare e riformare il governo saudita, arrivando “persino” a scegliere una donna come ministro, ma, in realtà, i cambiamenti sono stati lentissimi e più che altro apparenti, soprattutto per l’opposizione della fazione “Sudairi” nella famiglia reale, appoggiata dall’onnipresente potere spirituale degli ulema, che svolgono un ruolo chiave all’interno del regno, soprattutto influenzando pesantemente il sistema giudiziario (come interpreti e dispensatori della Sha’aria), e l’istruzione e la ricerca scientifica (controllando il Ministero della Pubblica Istruzione). Tenendo conto che il Consiglio degli ulema è guidato dai discendenti di Ibn Muhammad Abd al-Wahhab, il creatore del “wahhabismo” (l’interpretazione più tradizionalista e retrograda dell’Islam sunnita) è facile capire come questo renda ancora più pesante la situazione di assolutismo all’interno del Paese, tanto più che l’alleanza tra Al-Saud (la famiglia reale) e Al-Sheikh (i discendenti dei al-Wahhab) è fortissima fin dalla nascita dell’Arabia Saudita nel 1932.
In questa situazione, assolutamente sconfortante dal punto di vista della democrazia (almeno come intesa in occidente), l’opposizione al governo risulta praticamente inesistente, o meglio riservata a clan interni alla famiglia reale, come quello menzionato, ultra-tradizionalista, dei “Sudairi” legato alla famiglia Al Fahd (i cui membri includevano il defunto re Fahd e includono l’attuale principe ereditario), costantemente in lotta per la successione alla corona. Al di fuori di tali clan, le uniche forme di dissenso possono provenire dall’attivismo islamista sunnita (autore di attentati alqaedisti negli ultimi anni), dalle rarissime critiche liberali a favore di una maggiore democrazia (costantemente tacitate con metodi brutali), dalla minoranza sciita (presente soprattutto nella Provincia Orientale) e da qualche particolarismo tribale. In realtà, però, nessuna protesta contro il governo, anche se pacifica, è tollerata, come ha dimostrato, il 29 gennaio 2011, la manifestazione di alcune centinaia di persone di Jeddah riunitesi per lamentarsi pubblicamente del sistema infrastrutturale riservato ai poveri della città dopo alcune disastrose inondazioni: la polizia ha fermato violentemente la manifestazione dopo esattamente 15 minuti e ha arrestato 50 “capipopolo” che sono ancora in attesa di processo.
La farraginosità del sistema giudiziario, basato sul “Fiq Hanbali” (il codice coranico), sulle interpretazioni di giuristi e scuole diverse, su ridde di decreti reali e consuetudini tribali e su centinaia di interpretazioni della Sha’aria, è un’altra arma in mano al potere costituito: internazionalmente noto per la sua lentezza e complessità, tale sistema permette un controllo pressochè totale dell’elemento religioso sulla magistratura e sui tre gradi di giudizio (per reati minori, per reati gravi o compiuti da cittadini stranieri e per reati amministrativi), nonostante i tentativi reali, nel 2007, di ammodernare i processi, tentativi, per altro, ancora una volta di facciata, non avendo mai messo in discusione, ad esempio, la possibilità del re di comportarsi come la più alta corte d’appello della Nazione, con la possibilità di perdonare a suo piacimento qualsiasi reato.
Ma cosa significa applicazione integrale della Sha’aria?
Significa, innanzitutto, utilizzo estensivo della pena di morte (e, fino a questo punto, non esisterebbe una grande differenza con gli USA), che viene per lo più comminata tramite decapitazione pubblica mediante scimitarra (una punizione “obbligata” in caso di omicidio volontario, rapina, stupro o traffico di stupefacenti). I dati sulla frequenza di utilizzo di tale punizione barbarica sono agghiaccianti: nel 2005 ci sono state in Arabia Saudita 191 esecuzioni, nel 2006 38, nel 2007 153 e nel 2008 102. Quando nel 2004 è stata per la prima volta concessa l’apertura di una agenzia indipendente per il controllo del rispetto delle condizioni minime di umanità nel trattamento dei prigionieri, la “Società Nazionale per i Diritti Umani”, si è pensato che qualcosa stesse cambiando, ma, ancora una volta si è trattata solo di una operazione “cosmetica” se, nel 2006, un rappresentante di tale istituzione, interrogato dalla “Commisione ONU per i Diritti Umani” ha affermato che il numero di esecuzioni è in aumento perché i tassi di criminalità sono in aumento, che i detenuti sono trattati umanamente, e che le decapitazioni scoraggiano il crimine, arrivando a dire: “Allah, il nostro creatore, sa meglio di chiunque ciò che è buono per il suo popolo … Dobbiamo solo pensare e preservare i diritti dei assassino e non pensare ai diritti degli altri?”.
Ma utilizzo estensivo della Sha’aria significa anche che il sistema giuridico prevede tutta una serie di punizioni corporali che vanno dall’amputazione della mano o del piede in caso di furto (in particolare in caso di recidività) alla somministrazione di frustate, da qualche decina a centinaia inflitte nell’arco di più giorni o mesi a discrezione del giudice, in caso di delitti contro la morale (ma, si badi bene, in Arabia Saudita, delitto contro la morale è anche baciare la propria compagna o bere una birra se questi atti vengono compiuti in pubblico). Nel 2004, il Comitato delle Nazioni Unite contro la Tortura ha criticato l’Arabia Saudita per tali pratiche ma la delegazione saudita ha risposto difendendo una “tradizione giuridica” che si fonda sin dalla nascita dell’Islam 1.400 anni fa e ha respinto ogni interferenza nel suo ordinamento giuridico.
Già la presenza di un sistema di questo genere dovrebbe escludere l’Arabia Saudita dal consesso internazionale o, almeno, portare all’imposizione di sanzioni internazionali a un Paese che, invece, per questioni strategiche e di ricchezza petrolifera, viene costantemente “coccolato” dal mondo occidentale.
Ma la follia di un ordinamento giuridico altomedievale non si ferma a questo. Per l’omicidio colposo o preterintenzionale e per lesioni permanenti è previsto che la famiglia della vittima possa scegliere se optare per un “risarcimento di sangue” o un “risarcimento pecuniario” (ovviamente aprendo a nette disuguaglianze di trattamento tra sudditi ricchi e poveri). Ebbene, incredibilmente, la pena pecuniaria da pagare per la morte accidentale di una donna è stabilità nella metà di quanto è necessario pagare per un maschio musulmano. Generalmente si giustifica questo dato assurdo dicendo che la legge islamica impone agli uomini di mantenere le loro famiglie e, di conseguenza, di guadagnare di più e che il risarcimento dovrebbe essere tale da riuscire a mantenere la famiglia della vittima almeno nel periodo iniziale successivo alla sua scomparsa. Quello che non torna in tale ragionamento è che, evidentemente, i tribunali coranici ritengono che solo i Musulmani possano avere moglie e figli dal momento che la “multa” da pagare per la morte di un uomo cristiano o di una “scimmia ebrea” (come gli Israeliti sono definiti da Maometto stesso nel Corano) è fino alla metà di quella per un Musulmano maschio e che per gli aderenti a tutte le altre religioni “non del Libro” essa arriva addirittura a un sedicesimo di quella per un Musulmano.
La cosa più ridicola è che il Regno dell’Arabia Saudita, pur mantenendo assolutamente inalterate tutte queste pratiche discriminatorie, inumane e inaccettabili, ha ratificato, nell’ottobre 1997, la Convenzione Internazionale contro la Tortura, ha incluso la specifica dei diritti umani all’articolo 26 della propria “Legge Fondamentale” (ovviamente non esiste una Costituzione) e, nel 2008, il Consiglio della Shura ha ratificato la Carta Araba dei Diritti dell’Uomo.
Di fatto, parlare di diritti umani in Arabia Saudita sfiora l’assurdo, soprattutto se si entra in questioni legate alla parità sessuale, alla tolleranza religiosa o alla libertà di pensiero e di espressione.
Per quanto riguarda la parità sessuale, è assolutamente innegabile che essa risulti inesistente nella penisola araba in qualunque campo. Dal punto di vista lavorativo le donne costituiscono solo il 5% della forza lavoro, la percentuale più bassa al mondo, dovuta alla mentalità tradizionale che vede le donne solo come depositarie della cura della casa e della famiglia, e dal fatto che qualunque tentativo, persino governativo, di mutare la situazione è da sempre bloccato da resistenza all’interno del Ministero del lavoro, da parte della polizia religiosa, e, soprattutto, da gran parte dei sudditi di sesso maschile.
Dal punto di vista sociale, le donne non sono autorizzati a viaggiare senza il permesso del loro parente più prossimo di sesso maschile, che può essere anche un figlio o un fratello minore. Le donne che divorziano, ritornano sotto l’autorità del padre e, come per ogni donna adulta, viene loro negato il diritto di vivere da sole e di sposarsi o risposarsi per loro libera volontà. Inoltre, il governo saudita considera la “disobbedienza” filiale come un delitto per il quale non infrequentemente alcune donne sono state imprigionate o hanno perso la custodia dei loro figli. Raramente le donne hanno la possibilità di difendersi contro queste angherie, sia per la sottomissione al volere maschile in cui crescono, sia anche per questioni culturali: secondo il “World Factbook” della CIA, solo il 70,8% delle femmine sono alfabetizzate, in confronto a un tasso di alfabetizzazione dell’84,7% nei maschi, ma, anche all’interno di questo 70,8%, solo poche superano il livello di istruzione primaria. L’Arabia Saudita è, inoltre, l’unico Paese al mondo dove a lungo alle donne è stato proibito guidare nelle principali città e cittadine (potevano guidare solo nei villaggi isolati o nelle proprietà private, alcune delle quali si estendono per molti chilometri quadrati). Il divieto di circolazione è stato reso ufficiale nel 1990, dopo la protesta di 47 donne che avevano guidato lungo le strade di Riyadh per manifestare contro le limitazioni tradizionali in tal senso ed è stato sollevato solo nel 2008 dal Consiglio della Shura (che, comunque, ha mantenuto numerose restrizioni contro la guida femminile) ma è, in realtà, rimasto in vigore in gran parte del Paese. Fino al 2008, inoltre, alle donne non era permesso entrare in un hotel e in appartamenti arredati senza un accompagnatore o “mahram”: con un regio decreto del 2008, si è stabilito che l’unico requisito necessario per permettere alle donne di entrare in un hotel sia fornire documenti validi, ma ancora oggi gran parte delle strutture alberghiere rifiutano di dare camere a donne sole. Se la vita è difficile per le donne, è assolutamente impossibile per gli omosessuali: in Arabia Saudita l’omosessualità è illegale ed è punibile con una serie di sanzioni, comprese le punizioni corporali (continuamente comminate) e la pena di morte (più rara), dal momento che qualsiasi l’attività sessuale al di fuori di un matrimonio tradizionale eterosessuale è illegale.
Dal punto di vista della tolleranza religiosa, semplicemente la legislazione saudita legge non riconosce la libertà di culto e la pratica pubblica delle religioni non musulmane è attivamente vietata, così come la costruzione di qualunque luogo sacro non islamico. In effetti, nessuna legge prevede espressamente che ai cittadini debbano essere musulmani, ma l’articolo 12.4 della legge di naturalizzazione richiede che i ricorrenti attestino la loro appartenenza religiosa, e l’articolo 14.1 prevede che i richiedenti ottengano un certificato di idoneità approvato dall’esponente religioso musulmano locale. Ciò è “normale” nel momento in cui il governo ha dichiarato il Corano e la Sunna unica possibile Costituzione del Paese e lo Stato fonda la propria legittimità in materia di governo sulla interpretazione rigorosamente conservatrice e rigida della scuola salafita e wahabita del ramo sunnita dell’Islam, discriminando qualunque altra corrente di pensiero e non accettando il concetto di separazione tra religione e Stato. La conseguenza naturale di questa concezione è che l’Arabia Saudita dia un trattamento preferenziale ai Musulmani sunniti: così, pur consentendo agli stranieri di venire a lavorare sul territorio arabo, il governo proibisce la sepoltura dei non musulmani sul suolo saudita; l’apostasia dall’Islam è considerato un reato punibile con la pena di morte; durante il Ramadan, mangiare, bere o fumare in pubblico durante le ore diurne è strettamente proibito; ogni scuola, incluse quelle straniere, deve insegnare un segmento introduttivo annuale sull’Islam; qualunque genere di opera missionaria di qualsiasi religione diversa dall’Islam wahhabita è proibita; non è accettata l’esposizione di alcun simbolo religioso e sono persino stati riportati casi di pellegrini sciiti arrestati dalla polizia religiosa mentre partecipavano all’Hajj (presumibilmente con l’accusa di essere “infedeli alla Mecca”). La situazione è particolarmente pesante per gli Israeliti, anche tenendo conto che chi ha passaporto israeliano o un visto israeliano sul proprio passaporto di altra Nazione non può entrare nel Regno e che, fino a qualche tempo fa (quando un deputato del Congresso americano ha proposto una legge di limitazione dei visti d’ingresso negli Stati Uniti per i Sauditi nel caso di mantenimento dello status quo) veniva pubblicamente e ufficialmente utilizzato il linguaggio coranico che definiva “scimmie” tutti gli Ebrei (e, in qualche caso, “maiali” i Cristiani).
Appare addirittura pleonastico, dopo quanto detto, affermare che libertà di espressione e di pensiero siano completamente aliene alla mentalità saudita, non solo per quanto riguarda qualsiasi aspetto religioso, ma anche per quanto riguarda qualunque forma di critica al governo: ogni televisione, giornale e testo è sottoposto a censura preventiva e si è arrivati al punto che, nel 2007, un blogger saudita, Fouad al-Farhan, sia stato imprigionato per cinque mesi in cella di isolamento senza accuse per aver osato criticare alcune preminenti figure religiose e finanziarie del Paese.
Se tutto ciò non bastasse per bloccare, su basi morali, etiche e di condanna delle costanti violazioni del diritto internazionale perpetrate in Arabia, ogni rapporto tra l’occidente e una Nazione che quotidianamente compie atti ben più inaccettabili di quelli per i quali altri Stati sono stati definiti “canaglia” e posti sotto embargo, è generalizzata l’idea che l’Arabia Saudita non sia completamente aliena da colpe nella diffusione del fondamentalismo terrorista: è un dato di fatto che negli ultimi 4 anni il governo saudita abbia effettuato donazioni per oltre 57 miliardi di euro a istituzioni per la diffusione della ultra-radicale religione wahhabita nel mondo, è un dato di fatto che Osama bin Laden e 15 dei 19 dirottatori dell’11 settembre fossero di nazionalità saudita, è un dato di fatto che l’ ex direttore della CIA James Woolsey abbia parlato apertamente di stretti contatti e connivenze tra vertici salafiti (cioè wahhabiti) e Al-Qaeda.
Tutto questo, però, passa sotto silenzio.
Non importa che il comportamento saudita sia costantemente uno sputo in faccia ai valori fondativi della Nazione americana e dei Paesi europei, non importa che re Abdul Aziz Al Saud si prenda apertamente gioco del mondo affermando durante una sessione plenaria delle Nazioni unite che: “E’ assurdo imporre a un individuo o a una società diritti che sono estranei alle sue convinzioni o principi”, non importa che un Paese attui una politica doppiogiochista, combattendo apertamente il terrorismo e, nello stesso tempo, sovvenzionando per vie traverse i fautori del clima di terrore: i petrodollari e l’uso di un paio di basi militari sono più forti di qualunque altra considerazione.
Riferimenti bibliografici:
– Ibn Abdul Aziz Al-bishr, Judicial Systems and Safeguards of Human Rights in the Kingdom of Saudi Arabia, Garnet Publishing 2011;
– S. Alrabaa, Veiled Atrocities: True Stories of Oppression in Saudi Arabia, Prometheus Books 2010;
– J.R. Bradley, Saudi Arabia Exposed: Inside a Kingdom in Crisis, Palgrave Macmillan 2006;
– R. Bronson, Thicker Than Oil: America’s Uneasy Partnership with Saudi Arabia, Oxford University Press 2008;
– D. Gold, Hatred’s Kingdom: How Saudi Arabia Supports the New Global Terrorism, Regnery Publishing 2004;
– R. Lacey, Inside the Kingdom: Kings, Clerics, Modernists, Terrorists, and the Struggle for Saudi Arabia, Viking 2009;
– S. Mackey, The Saudis: Inside the Desert Kingdom, W. W. Norton & Company 2002;
– J. Sasson, Princess: A True Story of Life Behind the Veil in Saudi Arabia, Windsor-Brooke Books, LL. 2001;
– A. Vassiliev, The History of Saudi Arabia, NYU Press 2000.
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