L’unico romanzo scritto da Edgar Allan Poe, come è noto, è Le avventure di Arthur Gordon Pym, (titolo originale: The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket), pubblicato nel 1838: resoconto di una navigazione antartica permeato d’inquietudine, di orrore e di mistero, che risente del clima di entusiasmo per le prime scoperte antartiche da parte di spedizioni scientifiche organizzate da Russi, Britannici, Francesi e Statunitensi.
Il romanzo rimane volutamente interrotto ed il suo finale “aperto” ha stuzzicato a tal punto la fantasia delle generazioni successive, che Jules Verne volle scriverne il seguito con La sfinge dei ghiacci.
Verso la fine dell’opera, infatti, il protagonista e un suo compagno d’avventura, che una inspiegabile corrente marina calda ha portato oltre la barriera dei ghiacci galleggianti, verso le acque libere del Polo Sud, intravvedono, in mezzo al volo d’innumerevoli uccelli bianchi, una gigantesca figura umana che si leva all’orizzonte, d’un candore innaturale, stagliandosi torreggiante su di loro.
«5 marzo. Il vento era completamente cessato, ma noi continuavamo a correre lo stesso verso il sud, trascinati da una corrente irresistibile. Sarebbe stato naturale che provassimo dell’apprensione per la piega che prendevano le cose, invece niente. […] “6 marzo. Il vapore si era alzato di parecchi gradi e andava a poco a poco perdendo la sua tinta grigiastra. L’acqua era calda più che mai, e ancora più lattiginosa di prima. Ci fu una violenta agitazione del mare proprio vicinissimo a noi, accompagnata, come al solito, da uno strano balenio del vapore e da una momentanea frattura lungo la base di esso. […] “9 marzo. La strana sostanza come di cenere continuava a pioverci attorno. La barriera di vapore era salita sull’orizzonte sud a un’altezza prodigiosa, e cominciava ad assumere una forma distinta. Io non sapevo paragonarla altro che a una immane cateratta la quale precipitasse silenziosamente in mare dall’alto di qualche favolosa montagna perduta nel cielo. La gigantesca cortina occupava l’orizzonte in tutta la sua estensione. Da essa non veniva alcun rumore.
“21 marzo. Una funebre oscurità aleggiava su di noi ma dai lattiginosi recessi dell’oceano scaturiva un fulgore che si riverberava sui fianchi del battello. Eravamo quasi soffocati dal tempestare della cenere bianca che si accumulava su di noi e riempiva l’imbarcazione, mentre nell’acqua si scioglieva. La sommità della cateratta si perdeva nella oscurità della distanza. Nel frattempo risultava evidente che correvamo diritto su di essa ad una impressionante velocità. A tratti, su quella cortina sterminata, si aprivano larghe fenditure, che però subito si richiudevano, attraverso le quali, dal caos di indistinte forme vaganti che si agitavano al di là, scaturivano possenti ma silenziose correnti d’aria che sconvolgevano, nel loro turbine, l’oceano infiammato.
“22 marzo. L’oscurità si era fatta più intensa e solo il luminoso riflettersi delle acque della bianca cortina tesa dinanzi a noi la rischiarava ormai. Una moltitudine di uccelli giganteschi, di un livido color bianco, si alzava a volo incessantemente dietro a noi per battere, appena ci vedevano, in ritirata gridando il sempiterno Tekeli-li. Nu-Nu [un indigeno della misteriosa isola di Tsalal che i due avevano fatto prigioniero] ebbe, a quelle grida un movimento sul fondo del battello, e, come noi lo toccammo, scoprimmo che aveva reso l’ultimo respiro. Fu allora che la nostra imbarcazione si precipitò nella morsa della cateratta dove si era spalancato un abisso per riceverci. Ma ecco sorgere sul nostro cammino una figura umana dal volto velato, di proporzioni assai più grandi che ogni altro abitatore della terra. E il colore della sua pelle era il bianco perfetto della neve [trad. di Elio Vittorini]».
La poetica di Poe è caratterizzata, e ben lo si vede anche in questa pagina di prosa, da una strana, affascinante mescolanza di spirito romantico, sognante, inquieto, a volte grandiosamente allucinato, e di fredda, analitica lucidità, di “scientificità” apparentemente impersonale, quasi nel senso che avrebbero attribuito al termine, alcuni decenni più tardi, i naturalisti francesi, sulla scorta delle teorie estetiche di Hippolyte Taine.
Ebbene, coloro che si son presi la briga di riportare sulla carta geografica la rotta della nave di Gordon Pym attraverso gli oceani, hanno avuto una sorpresa a dir poco sconcertante: congiungendone i punti, si è delineata nettamente la sagoma di un grande uccello con le ali spiegate – come i misteriosi uccelli bianchi che, nella parte conclusiva del romanzo, gridano al vento del Sud il loro incessante richiamo: Tekeli-li.
Si tratta di un caso, di una semplice coincidenza? Ma Poe amava moltissimo i giochi di decrittazione, gli enigmi logici e linguistici: sempre nel Gordon Pym, il protagonista scopre, incisi sulla roccia dell’isola sconosciuta, dei caratteri apparentemente senza significato, ma che si riveleranno poi parole di antico egiziano, di etiopico, di arabo le quali accennano al segreto inaudito che si annida nella regione del Polo antartico.
E tale passione per le sciarade, per i rompicapi, per l’applicazione pratica di una logica rigorosa di tipo matematico si rivela pienamente nel filone dei racconti polizieschi, particolarmente ne I delitti della rue Morgue, ne Lo scarabeo d’oro, ne La lettera rubata. Ricordi, forse, degli studi fatti a West Point, all’epoca del breve e fallimentare tentativo di farsi una carriera nell’esercito; ma, senza dubbio, anche interesse personale, attrazione verso quella particolare forma di mistero che la mente umana può, a certe condizioni, decifrare.
Eppure, nel finale del Gordon Pym, Poe sembra gettare la spugna: la sua rinuncia a descrivere il mistero sembra corrispondere al riconoscimento che non tutto è suscettibile di una spiegazione razionale e che vi sono delle verità di cui l’animo umano può bensì fare esperienza, ma che non è possibile raccontare a parole, perché non esiste alcun linguaggio capace di descriverle, così come non esiste intelligenza capace di penetrarle sino in fondo.
Un po’ come l’Ulisse dantesco destinato a concludere il suo “folle volo” nella tempesta che lo farà affondare proprio in vista della montagna del Purgatorio, simbolo della redenzione dal peccato per opera della Grazia divina (e che, quindi, non può essere raggiunta con i soli mezzi umani o, peggio, con l’orgoglio umano), anche Gordon Pym si spinge così lontano sul sentiero della conoscenza, da oltrepassare ciò che la ragione e la parola possono esprimere; più fortunato del suo predecessore, tuttavia, riesce a far ritorno in patria dal «mondo sanza gente», non si sa come, e a narrare la sua straordinaria avventura, almeno fino alla fatidica data del 22 marzo.
Nella finzione letteraria della «Nota introduttiva» al romanzo, attribuita allo stesso Gordon Pym, Poe fa dire a quest’ultimo di essersi deciso a raccontare la propria esperienza di viaggio nei mari australi su sollecitazione di alcuni gentiluomini virginiani e particolarmente dell’ex direttore del «Sothern Literary Messenger» di Richmond, mister Poe, il quale, in un primo tempo e con la sua autorizzazione, ne aveva pubblicato un anticipo per il pubblico.
Ma perché il racconto si interrompe nel momento più enigmatico, quando il soprannaturale fa la sua comparsa all’interno di una narrazione che fino a quel momento, pur dovendosi confrontare con esperienze estremamente drammatiche e al limite dell’incredibile, non si era mai allontanata da un tono di studiata, rigorosa oggettività? Si tratta puramente e semplicemente di un espediente letterario per accrescere la curiosità del lettore, lasciandola insoddisfatta sul più bello; oppure c’è una ragione più intima e profonda?
Noi propendiamo per questa seconda possibilità: che, cioè, il finale del romanzo rimanga “aperto” per la difficoltà, anzi per l’impossibilità di riferire qualcosa di inesprimibile o, forse, qualcosa che non deve essere detto, qualcosa di talmente sconvolgente, di talmente segreto, che divulgarlo sarebbe contravvenire a un comando morale ben preciso.
Un comando della propria coscienza, oppure un comando proveniente da una fonte esterna? Difficile, se non impossibile, dirlo.
Ma ecco le interessanti riflessioni svolte in proposito di Maurizio Vitta (nella Introduzione alla versione di Elio Vittorini, Mondadori, 1981, 1983, pp. VIII-X):
«Tra le opere di Poe, due in particolare sono accostabili al “Gordon Pym” tanto da costituire con esso una specie di trilogia: «Una discesa nel Maelström» e «Il manoscritto trovato in una bottiglia». Gli elementi comuni sono il mare, il naufragio, la deriva, l’attesa della scoperta, la caduta, il precipitare inarrestabile. In tutt’e tre i racconti la vicenda ha un andamento escatologico: nella prima si sfugge al risucchio mortale mediante l’uso freddo e disperato della ragione, che consente di sfruttare le leggi stesse della forza scatenante; negli altri due, l’ineluttabilità dei fenomeni cosmici si fa mortale, perché di essi si ignorano, per il momento, tutte le regole. Il mistero, per Poe, non è mai l’inconoscibile, ma l’ignoto. Anche nel “Gordon Pym”il narratore avverte fin dall’inizio che tutto si concluderà con “episodi di natura così eccezionale e così fuori dei limiti dell’umana credibilità” da far confidare solo “nel tempo e ne progresso della scienza” perché essi possano trovare conferma. Così l’addentrarsi in un mondo sempre più enigmatico e inquietante si risolve nella stessa ansia di scoperta del pescatore risucchiato nel Maelström e che esalta alla fine l’anonimo naufrago del “Manoscritto”, prigioniero del gigantesco vascello lanciato da una sua furia interna verso il precipizio marino. Rispetto a questi due personaggi, Pym perviene al mistero finale attraverso vicende più complesse, che, per quanto non sempre felicemente risolte sul piano letterario, si compongono pure in una sorta di rituale di iniziazione: dall’agonia nella cala alla lotta contro gli ammutinati, dagli episodi di fame, di cannibalismo e di morte (e qui è da ricordare particolarmente l’apparizione terrificante del vascello olandese colmo di cadaveri), fino ai contatti con i misteriosi selvaggi dell’isola di Tsalal. Con ragione è stato detto che proprio queste pagine ripropongono il mito del passaggio dall’adolescenza alla maturità, ricorrente nelle opere di Melville, Twain, James, Stevenson o Conrad, con accenti ed esiti diversi. In Poe, tuttavia, la maturità è sempre un’esperienza individuale, una SCOPERTA, appunto, destinata ad annientare colui che la raggiunge.»
Pym, a quanto pare, non muore al termine della sua avventura fra i ghiacci eterni. Ma di lui e di Peters non si sa, alla fine più nulla, e Poe mantiene volutamente la vicenda in un’atmosfera di ambigua reticenza. Espediente da grande maestro, senza dubbio: ma anche fedeltà ad una concezione della vita e della letteratura che non l’ha mai abbandonato.
Non è un caso, perciò, che la vicenda di Gordon Pym sia stata poi ripresa, nel tempo, in una serie di tentativi di spiegazione. Jules Verne, nella sua Sphinx des glaces, ha ripercorso l’itinerario poetico, ritrovando alla fine lo scheletro di Pym inchiodato al polo magnetico, in un racconto in cui traspare il desiderio, tipico della sua cultura, di spiegare ogni mistero con la fredda luce della scienza positiva. Molto tempo dopo è stato H. P. Lovecraft, in The Mountains of the Madness, il tema del misterioso continente antartico, in un racconto che fa di quelle regioni la sede di primordiali esseri paurosi filtrati dalle stele quando ancora la terra non conosceva l’uomo, e di Poe una sorta di iniziato a quei misteri. E ancora nel 1947 la storia di Arthur Gordon Pym si è riaffacciata in un romanzo di Dominique André, La conquéte de l’eternel, il cui protagonista ritorna fra quei ghiacci scoprendo nella terribile creatura dal volto velato un’immagine del Saturno evocato già da Virgilio e invocato oggi da un’umanità prostrata da guerre e lotte fratricide. Tutti temi, come si vede, che vanno dallo scientifico al filosofico fino alla fantascienza, e che convivono e s’intrecciano nell’opera di Poe facendone il punto d’origine di tanti filoni letterari contemporanei. Perché la scoperta, in Poe, è sempre scoperta letteraria, ossia rivelazione attraverso la parola. A certi spiriti non basta, come egli stesso ha scritto nei “Marginalia”, che una certa cosa sia fatta: ad essi è necessario sapere e mostrare che essa è stata fatta. Conoscere e far conoscere, esprimere e trasmettere nelle parole la complessità dell’esistenza che in esse, alla fine, troverà il proprio simbolo: questa è, per Poe, la funzione della letteratura. Così, nell’episodio conclusivo del Gordon Pym, in quella “sorta di finale sinfonico degno del Wagner più puro”, come l’ha definito Emilio Cecchi, il bianco dei ghiacci, e lo stesso aspetto lattiginoso del mare, più volte osservato nelle spedizioni polari, si compongono in un simbolo terribile e invitante che riassume non soltanto un’intera vicenda umana, ma anche quello che, per Poe, è il suo destino, un annientamento che forse è il passaggio a quella specie di “materialità spirituale” che egli ha descritto in “Rivelazione magnetica” e che costituì uno dei punti fermi della sua religione laica. Il bianco di quel panorama allucinato e della gigantesca figura verso la quale la canoa di Pym precipita inarrestabilmente trascende la sua materialità senza tuttavia perderla mai, perché essa è incarnata nella parola. Per questo i due fenomeni – quello naturale e quello immaginario – possono convivere senza forzature. In effetti, l’uno non è che la proiezione dell’altro, ed entrambi esprimono, attraverso il simbolo verbale, una stessa realtà.»
Poe-Pym, dunque, interrompe la narrazione del romanzo perché lingua umana non può dire ciò che egli ha visto e sperimentato in quell’estremo frangente, mentre la sua imbarcazione era inarrestabilmente risucchiata verso le estreme latitudini australi.
Forse si è trattato di una esperienza della coscienza superiore, di una sorta di esperienza mistica, ma d’un misticismo lucido, come quello dei sogni consapevoli e guidati; un misticismo quale poteva concepirlo e sperimentarlo un uomo che, come Poe, non credeva realmente in un aldilà, ma in una sorta di sublimazione dell’aldiqua; un uomo che, assuefatto a raggiungere gli stati alterati di coscienza per mezzo di abbondanti dosi di alcool e sostanze stupefacenti, riteneva che la porta del mistero possa dischiudersi non tanto all’autentico ricercatore spirituale, bensì all’uomo determinato e razionale, armato della fiducia nella scienza e nelle sue estreme risorse.
In fondo, la disperazione esistenziale di Poe, tipicamente romantica, nasce proprio da questo contrasto, che sarà anche, per inciso, lo stesso di Nietzsche: voler esperire l’infinito attraverso il finito e l’assoluto per mezzo del relativo; voler bussare alle porte del mistero ed accedere al segreto dell’esistenza, senza dismettere i panni dell’indagatore razionale e del viandante che non crede esistano altre strade verso la verità, al di fuori di quelle riconoscibili dalla ragione ma che, tuttavia, avverte e intuisce che c’è qualcos’altro, forse un Dio Ignoto, per avvicinarsi al quale sarebbero necessari altri strumenti ed altri atteggiamenti mentali.
Questo, forse, rappresenta la gigantesca figura velata, bianca come la neve, che si profila e svetta al di sopra di Gordon Pym nell’ultima immagine del romanzo: un Dio Ignoto, verso il quale l’anima di Poe si protende, ma di cui egli non sarà in grado di riferire nulla, perché non dispone letteralmente dei mezzi, conoscitivi e linguistici, per farlo.
Un Dio che, nel suo tremendo e gelido splendore, coincide con l’accecamento o con la distruzione dell’uomo; un Dio che non è amore, né pietà, e nemmeno ira o corruccio, ma semplicemente altro: altro da tutto ciò che la mente ed il cuore umano possano arrivare a concepire, a comprendere e a raccontare.
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Tratto, col gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.
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