La realtà del partito-milizia è tipica della prima metà del Novecento. In essa prendevano forma le ideologie armate della rivoluzione, che si affidavano alle organizzazioni paramilitari come agli strumenti per conquistare il territorio, battere il nemico ideologico e presentarsi in qualità di elemento condizionante per la conquista del potere. La recente uscita del grosso volume di Sven Reichardt Camicie nere, camicie brune. Milizie fasciste in Italia e in Germania (Il Mulino), che per altro traduce soltanto una parte dell’imponente lavoro dello storico tedesco, rappresenta l’occasione per analizzare da vicino fenomeni politici che hanno pesantemente segnato la storia europea, presentandosi in qualità di strumenti rivoluzionari per pervenire alla conquista dello Stato.
Lo studio di Reichardt accentra la sua attenzione sui periodi in cui i due movimenti furono prossimi all’ascesa al potere, gli anni 1921-22 per lo squadrismo fascista e 1929-32 per le SA nazionalsocialiste. La principale notazione su cui insiste l’autore è che queste milizie erano incentrate essenzialmente sull’uso della violenza. Tale asserzione viene presentata come caratterizzante in negativo, indicando in questa pratica la natura centrale dello squadrismo italiano e tedesco. Verrebbe da obiettare che sarebbe stato ben strano che altre fossero state le pratiche di movimenti rivoluzionari in un’epoca, nella quale non solo i partiti fascisti, ma anche quelli comunisti e socialisti ebbero milizie armate organizzate in senso paramilitare e basate sull’utilizzo strategico della violenza come tecnica di lotta politica. Gli spartachisti, per dire, furono i primi in Germania, sin dal 1919, a possedere una militanza armata e a farla lavorare allo scopo di eliminare gli avversari politici. E persino il partito socialdemocratico tedesco ebbe il suo Bund di squadristi che scendevano in piazza a difendere i propri comizi, a disturbare quelli altrui e insomma non con l’intenzione di divulgare messaggi di pace, ma con quella di ingaggiare una battaglia politica cruenta, che considerava la violenza come uno strumento legittimo di lotta politica, attraverso la quale eliminare il nemico ideologico.
In Italia, poi, il partito socialista e le leghe sindacali – che ebbero il dominio della piazza fino a tutto il 1920, dopo l’occupazione delle fabbriche – e in seguito il giovane partito comunista, ad esempio con l’organizzazione armata degli Arditi del Popolo, non mancarono neppure essi di ricorrere all’uso dogmatico della violenza. Non si vede, dunque, cosa ci fosse di particolare nel fatto che anche le milizie fasciste, per altro sorte in Germania e in Italia come risposta alle violenze dei rivoluzionari “di sinistra”, facessero ricorso a loro volta a metodi radicali, senza i quali evidentemente non ci sarebbe stata partita.
Non è pertanto in questa osservazione banale e storicamente impropria di Reichardt che risiede il valore del libro. Questo lo troviamo semmai nel ricco lavoro di scavo storiografico che viene compiuto a proposito della composizione sociale delle squadre d’azione nere e brune, delle storie di vita dei loro membri, dei contesti sociali di provenienza, delle azioni e delle dinamiche interne dei due movimenti, così che davvero lo spaccato storico si apre su uno scenario in cui l’idea di movimento, e di movimento sociale, è centrale, implicando le motivazioni che stavano dietro alle aggregazioni di molte migliaia di uomini, per lo più giovani, che sceglievano questa via di identificazione politica. Importante, ad esempio, è «l’elevata integrazione simbolica» cui davano luogo queste appartenenze. Oppure, la larga autonomia che caratterizzò le milizie nei confronti dei rispettivi partiti di riferimento, tanto che, come scrive Reichardt, gli squadrismi italiano e tedesco svilupparono, ognuno per suo conto, «una propria autonoma cultura organizzativa che si differenziò da quella del movimento complessivo». Sia le SA, che formalmente erano indipendenti dalla NSDAP, che gli squadristi, che invece erano emanazione diretta dei Fasci di Combattimento, su singoli punti possedevano proprie concezioni politiche e strategie di lotta, che in svariate occasioni causarono frizioni anche gravi con il centro del comando politico.
L’indagine di Reichardt, molto documentata e interessante anche per gli aspetti legati alle influenze che il Fascismo ebbe – in quanto movimento pervenuto per primo al potere – sulle SA del periodo della lotta, di cui costituì il modello, presenta importanti analisi su molti aspetti, dai rapporti tra fascisti e nazionalsocialisti negli anni precedenti il 1933, alla complessa ritualistica (avente sostanza di vera e propria religione politica), alla cultura “giovanilista” che caratterizzava la militanza, fino a quei luoghi di aggregazione sociale – la sezione, la sede del Fascio, il bar, lo Sturmlokal -, in cui si creavano la “prassi del cameratismo”, la politicizzazione “dal basso” e una socializzazione militante tutta innestata sulla «fedeltà del seguace». L’impostazione per così dire “sociologica” di Reichardt lo porta a privilegiare estese descrizioni circa le dinamiche di gruppo, l’efficienza combattiva, la struttura organizzativa o la dialettica tra l’adesione volontaria e la disciplina militare. Tutte fasi essenziali in un’epoca di radicale contrapposizione ideologica e, di fatto, di guerra civile vera e propria.
L’indulgere di Reichardt alle abusate categorie circa la retorica del “picchiatore fascista” (ma i fucilatori dello Spartakus Bund o i picchiatori socialcomunisti, come più tardi i killer dei GAP erano forse animati da una più nobile etica?), oppure circa la tenace favola sulla latente omofilia interna ai manipoli, o la loro supposta “desessualizzazione della donna”; il ripetere alcuni topoi superficiali (ad esempio il disprezzo che gli squadristi italiani, sulla scorta dei futuristi, avrebbero manifestato per il mondo femminile, laddove oggi sappiamo che ci fu una precisa partecipazione femminile alla mobilitazione squadrista), indebolisce non di poco l’interpretazione di Reichardt, incapace di una lettura emancipata dal collaudato pregiudizio. Ma resta la portata storiografica di un documento sulla militanza squadristica, che mancava soprattutto per quanto riguarda lo studio ravvicinato del caso italiano.
* * *
Tratto da Linea del 31 gennaio 2010.
SEPP
L’osservazione sul metodo di porre i fatti per nascondere quelli dell’avversario e’ importante.
Questi cosiddetti scrittori sono in gamba per fuorviare il lettore, in quanto non portano paragoni
con gli avversari del tempo, fanno sembrare una parte dei contendenti come i soli portatori di violenza.
Purtroppo quando si ha in mano l’editoria e i mezzi di informazione e il tempo dalla propria parte, e’ facile dare torto solo alla parte avversa. Questi hanno capito che prima viene la propaganda e poi l’azione, meglio se l’azione la compie la massa che e’ stata manipolata.
Una dura lezione che nessuno ha mai imparato, perche’ il primo esercito da schierare e’ quello che gia’ sta in casa.
Mi riferisco alle rivoluzioni che hanno disintegrato l’impero austroungarico e alla rivoluzione russa.
Allevare il disfattismo interno con notizie false.