Allegre distopie

E’ curioso come, lungo gli accidentati, funambolici percorsi della letteratura, esistenze diverse e apparentemente antitetiche possano trovare insospettabili punti di contatto. La storia del libro del quale mi accingo a scrivere in questa breve nota è anche quella di una scombinata e improbabile amicizia, quella tra me e Marco Pinti, talentuoso scrittore suo malgrado che con Il periodo ipotetico, fresco di stampa per i tipi delle Edizioni Effetto, ci regala un esordio letterario davvero inaspettato.

Come i lettori sanno, il sottoscritto vanta trascorsi di militanza nelle fila di quella curiosa, chimerica creatura che fine a qualche anno fa si era soliti chiamare Destra radicale. Una realtà chiusa, autoreferenziale, orgogliosamente serrata a difesa del culto di una memoria storica settaria, divisiva, ben lontana dall’essere condivisa. Una corte dei miracoli che all’isolamento politico pressoché totale opponeva però gli anticorpi di una ricchezza e di una vivacità culturali non riscontrabili in altri ambienti più blasonati, segno tangibile di uno slancio vitale che, in tutta evidenza a dispetto dello spirito del tempo, le inveterate persecuzioni, accademiche, mediatiche e giudiziarie, non sono riuscite a fiaccare. Frequentando quell’universo catacombale ho incrociato i passi di alcuni giganti della parola scritta come Pierre Drieu La Rochelle, Céline, Paul Morand, Curzio Malaparte che sono diventati miei inseparabili compagni di viaggio e, a loro insaputa, mi hanno insegnato a declinare la sindrome dell’assedio che ancora oggi mi affligge come il simbolo di una rabbiosa refrattarietà agli asfittici dettami del politicamente corretto, supremo antidoto ad ogni compromesso, ad ogni farisaico accomodamento dettato dalle necessità contingenti, dalle piccole e grandi ingordigie. Nella notte in cui tutte le vacche sono nere, come diceva Hegel, difendere ciò che l’opinione pubblica narcotizzata dal mainstream considera inaccettabile è, in definitiva, la più vertiginosa forma di libertà.

Essendo nato nel 1985, Marco Pinti è troppo giovane per aver sperimentato in prima persona un’esperienza simile alla mia e quando ci siamo incontrati per la prima volta all’ombra del Bernascone, il campanile settecentesco che vigila sul dedalo di strade e piazze del piccolo microcosmo nel quale entrambi viviamo, io ero già un sopravvissuto che aveva alle spalle il naufragio di un mondo, mentre lui era un ragazzino zazzeruto e scapestrato, affetto da un’oscura passione per il Novecento e per le sue insanabili aporie ideologiche, indagate con una profondità di analisi non comune nei suoi coetanei attraverso letture disordinate, compulsive e onnivore. Infaticabile camminatore, la convinzione che la seconda guerra mondiale sia il grande poema epico del Secolo Breve, lo ha spinto a ripercorrere i luoghi degli scontri lungo la Linea Gotica, coltivando un’ammirazione segreta per Albert Kesselring che molti tra i suoi amici benpensanti, a cominciare dal beatamente ignaro editore, definirebbero quantomeno torbida. L’epoca eroica dei totalitarismi contrapposti è diventata per noi due l’invisibile confine di un confronto costante costellato di interminabili discussioni e torrenziali telefonate notturne interrotte dalle sacrosante reprimende della sua fidanzata Giada, durante le quali abbiamo discusso senza posa del terrorismo islamico, degli Anni Settanta, delle Brigate Rosse, della Russia e degli Stati Uniti, di Dio e del Demonio. Un coacervo ribollente e magmatico di apodittiche prese di posizione, scambi di vedute e suggerimenti librari che, scivolando oltre la sfera del privato, negli anni ci ha visto entrambi protagonisti di una seguitissima trasmissione radiofonica, andata in onda sulle frequenze di una nota (anche se famigerata per alcuni) emittente e ora rivive sotto nuove forme nelle pagine di questo libro.

Nel difendere con fermezza il proprio particolarissimo punto di vista sugli uomini e i loro modi, con i quali, a differenza del sottoscritto, solipsista impenitente, Pinti rivela grande dimistichezza, l’Autore è attento a mantenere nei confronti del lettore un atteggiamento smagato, apparentemente distratto, noncurante, come se le grandi questioni che si agitano sotto il cielo non lo riguardassero fino in fondo, non fossero anche un suo problema. Si tratta in tutta evidenza di un artificio stilistico, un atteggiamento esistenziale, un vezzo se vogliamo, che non lo esime certo dal misurarsi con un evento apocalittico come quello descritto nel suo romanzo, ovvero l’esplosione di una rivolta di desperados nelle periferie di Parigi che in breve tempo trascina la Francia e l’Europa nel baratro di un abisso senza fondo, coinvolgendo anche le vite minute di sette personaggi in cerca d’autore, travolti a vario titolo dall’inarrestabile montare della marea. Gli Stati nazionali vengono meno all’improvviso, rovinano al suolo come castelli di carte e al loro posto emergono forme alternative di aggregazione sociale, insieme nuove e antichissime, basate su vincoli di natura etnica e religiosa.

Se in questo Medioevo postmoderno la narrazione non assume i toni cupi della distopia classica, quelli per intenderci che troveremmo in George Orwell, in Philp Dick o in Laurent Obertone, conservando ad ogni passo una leggerezza e una levità invidiabili, consegnate ad un registro linguistico colloquiale, sempre ironico e antiretorico, ciò non accade di sicuro per insipienza. L’Autore non è uno sprovveduto, credetemi, anche se si diverte a sembrarlo. Sa senza esitazione che il buio ci stringe d’assedio appena oltre la soglia di casa, altrimenti non avrebbe disseminato lungo il percorso citazioni di Carl Schmitt, Ernst Jünger e Henri de Montherlant, che spuntano all’improvviso come piccole amanita muscaria a sparigliare le carte e disorientare il viandante. Estimatore di Rousseau fuori tempo massimo, Pinti diffida tuttavia delle tentazioni hobbesiane, non riesce ad arrendersi all’idea che il solo antidoto alla paura è la paura stessa e si ostina a conservare una disarmante fiducia nella natura costruttiva del genere umano, convinto che la redenzione possa essere affidata alle insospettabili risorse dei singoli. E’ una disperata, tragica illusione la sua. E lui ne è consapevole. Ma la grande letteratura si nutre anche di questo.

Marco Pinti, Il periodo ipotetico, Edizioni Effetto, Torino, 2022; pag. 568 € 25,00.

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