Cosa direbbe, Yukio Mishima, dei tempi che corrono, se fosse ancora in vita?
Cosa penserebbe dei ragazzi di oggi – che un domani forse saranno uomini – i cui fini inconsapevoli risiedono nel conformismo e nella consunzione di sé? E cosa giudicherebbe più increscioso? Tali fini, ammesso e non concesso che così possano definirsi, o la netta mancanza di presa di coscienza del proprio essere nel mondo da tramutare in volontà e, quindi, in destino irripetibile?
Cosa farebbe, Mishima, nell’apprendere che un moralismo preconfezionato, il politically correct, ha soppiantato nell’uomo ogni tensione spirituale, ogni conflitto interiore teso al massimo sforzo come la corda di un arco da cui scocca l’inesorabile freccia?
Cosa direbbe, a chi antepone la vita al senso della vita? A chi consegna la propria storia e delega i compiti e i doveri di uno Stato a un Paese straniero, che, beffa delle beffe, è quasi privo di storia? Cosa penserebbe di chi, di fronte all’horror vacui, fa spallucce?
L’autore giapponese, il quale riteneva che le proprie opinioni dovessero essere difese con il corpo e con le arti marziali, più che con il suffragio democratico di altre idee – visto come contraddizione di metodo – ha già risposto a queste domande, in sintonia con il proprio sublime credo, nel 1970 nel Ministero della Difesa di Tokyo.
Ispirato ideologicamente ed esteticamente dallo Hagakure di Jōchō Yamamoto, compendio zen del samurai settecentesco, si consegna alla morte per mezzo del seppuku, rituale in cui splende la decisionalità tragica e ineluttabile del sacrificio di sé come estrema affermazione di sé.
La sua morte fu un’azione dettata da una volontà interamente individuale, votata alla purezza e all’essenzialità di un atto, che in un istante concentra e consuma un’intera esistenza; questa è la rivelazione mishimiana: «è il fuoco d’artificio che possiede l’eternità dell’istante».
Nella bella morte, Mishima svela il suo estremo anelito alla vita, l’intima vocazione all’infinito e non, come più di uno ebbe a dire, una narcisistica ossessione della morte perseguita affannosamente.
Nello Hagakure è scritto che «vivere nell’affanno è follia» e Mishima forgiò sempre l’azione, compresa l’ultima, nella calma e nella pazienza propria della disciplina sapienziale guerriera; l’attesa del momento propizio gioca qui un ruolo fondamentale: è nell’abitudine, negli esercizi estenuanti (come lo zazen) e persino nel tedio della vita quotidiana che il monaco guerriero si prepara a concentrare il tempo nell’istante decisivo, in cui volontà e azione raggiungono la loro reale efficacia; tuttavia non è possibile progettare lo scontro più duro, quello tra piano e azione, laddove il caso può avere la meglio, con le sue misteriose incognite, sull’intelligenza dell’uomo; è per questo che il vero samurai deve abbattere le difese razionali, affidandosi interamente alla propria forza spirituale, che è trascendente e segreta quanto il caso.
Mishima fu più lungimirante dei suoi contemporanei, accecati dai falsi idoli dell’umanesimo occidentale e dalla democrazia prêt-à-porter; egli visse non all’ombra delle caverne platoniche, ma alla luce solare di cui fu specchio la lama della sua spada.
Tra lui e il suo ultimo gesto eroico non vi fu alcun sdoppiamento narcisistico, non si ammirò come un oggetto e la sua azione, come la bellezza, fu gratuita: nell’atto estremo, infatti, non conta il fine, ma come lo si consegue; prevalgono l’etichetta, il codice comportamentale e morale, che, secondo il kendō, regolano le contese nell’universo virile, esaltano l’autorità e salvano comunque dalla disfatta.
L’esteta guerriero – come da noi lo fu Drieu La Rochelle – proverebbe, oggi come ieri, senz’altro pudore dinnanzi agli eventi, che hanno la meglio sugli uomini e anche di fronte a questi ultimi, che non sono più padroni della loro stessa esistenza. Sarebbe un pudore culturale e spirituale quello di Mishima; un pudore che ai più è sconosciuto, se va bene, altrimenti viene marchiato ed esiliato.
E, oggi come ieri, con un convulso grido d’attacco, estrarrebbe dalla guaina la sua spada per fendere, in linea retta, la cieca frenesia attuale e permettere così l’irrompere, lo sbocciare di un attimo di eternità, fiore di loto in cui dimora il vero.
L’azione di Mishima risiede nel coniugare l’eleganza alla tradizione guerresca, nell’allontanare il chiacchiericcio, verso cui l’azione resta irriducibile – non essendo di natura logica – e nel rendere «il proprio spirito sottile come il sangue».
La bella morte avvenne in un periodo storico in cui a regnare non era più la guerra, ma la pace; una pace che Mishima, metaforicamente, rivestì di bianco – colore tradizionale del lutto – emblema della fine simbolica, cioè effettiva, del Giappone, Paese in cui sorgeva il sole d’acciaio e soffiava il vento divino.
Si può comprendere, si deve comprendere l’atto di sacrificare la vita per qualcosa che vale più della vita.
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