Nella sua lunga vita ha scritto prevalentemente di se stessa, della propria vita tormentata ma colma di avvenimenti e personaggi. Ha compilato diari, spedito e ricevuto lettere e scritto poesie e romanzi tanto da poter contare circa 30mila fogli; ha attraversato generazioni diverse della storia letteraria nazionale da D’annunzio a Pasolini, è stata una delle amanti del “superfascista” Julius Evola e poi iscritta al Pci di Togliatti, è stata anche l’unico amore di Vincenzo Cardarelli e ha avuto (fra le tante) una storia tormentatissima con Dino Campana nel periodo della Grande Guerra divenuta in anni abbastanza recenti anche un film.
Si chiamava Rina Faccio, ma per tutti è stata e sarà per sempre Sibilla Aleramo, nata nella piemontese Alessandria nell’estate del 1876 e morta cinquant’anni fa, il 13 gennaio del 1960, nella Capitale, dove si era da tempo trasferita seppur conduceva una vita a tratti quasi da nomade.
Sul valore letterario dei suoi scritti si discute da tempo (circa venti fra prose e poesie), tanto che l’incipit del breve saggio di Maria Corti, prefatrice di una delle edizioni del primo e più noto romanzo della Aleramo (Una donna – 1906), è di questo tenore: «Nel corso di quell’interminabile amare che fu la sua esistenza Sibilla Aleramo finì col costruire di sé un personaggio che offuscò a volte nei lettori e nei critici l’immagine della scrittrice; restò così, e a parer nostro resta ancora, parzialmente sottovalutata quest’ultima. Aggiungasi che la bellezza, l’esuberanza fisica ed emotiva, l’intensità con cui visse le passioni, quasi tutte svoltesi dentro l’universo artistico, diedero a lungo andare a Sibilla i caratteri di un essere fittizio prodotto dal punto di vista maschile o maschilista entro una determinata società letteraria». Un giudizio forse non completamente a fuoco, dato che la stessa Aleramo diede testimonianza dei suoi amori (anche omosessuali) nelle sue opere, a cominciare dal poeta Felice Guglielmo Damiani («…il tuo viso era chiaro e fiamme erano i tuoi capelli e bello trovai per la prima volta l’ardore virile…»), e proseguendo col siciliano Salvatore Quasimodo («…l’amore era stato per noi una sorda vana battaglia…»), passando anche per Lina Poletti e probabilmente Eleonora Duse, un giudizio compilato forse anche per contrastare pareri certo poco lusinghieri come quelli di Giuseppe Prezzolini che ebbe a definire Sibilla Aleramo come il lavatoio sessuale della cultura italiana.
Al di là però delle simpatie e delle antipatie – del tutto legittime le une e le altre – è certo che la Aleramo fu una scrittrice dal talento descrittivo che subì l’influenza di un periodo chiave della storia europea, vale a dire della crisi del positivismo e della scoperta di nuove culture e tendenze spesso intrise di «psicologismi e romanticismi», ed è altrettanto certo che la sua vera vita fu essa stessa una cartina di tornasole delle condizioni politiche e sociali dello Stivale, oltreché di quella che ordinariamente viene chiamata condizione della donna.
Una donna venne infatti salutato come un testo sacro del femminismo europeo, il canto di una donna che agli albori del nuovo secolo poteva scrivere e descrivere non la propria felicità (vera o falsa che fosse), ma la propria libertà: «Per tanto tempo, nell’epoca buia della mia vita, ho guardato a quella mia alba come a qualcosa di perfetto, come alla vera felicità», scrive la Aleramo, «Ora, con gli occhi meno ansiosi, distinguo anche ne’ primissimi anni qualche ombra vaga e sento che già da bimba non dovetti mai credermi interamente felice. Non mai disgraziata, neppure; libera e forte sì, questo dovevo sentirlo…».
Proprio la libertà diede alla Aleramo la spinta per arricchire interessi, frequentazioni e contatti. Fra questi Marinetti ovviamente, protagonista indiscusso della primissima parte del Novecento.
Da una lettera del papà del futurismo a Sibilla è possibile intuire peraltro l’accesa passione unità a un grande istinto della giovane scrittrice per l’arte e la cultura (cifre caratteriali già apprezzate peraltro da un intellettuale assai diverso come Benedetto Croce): «Le faccio mandare fotografie di quadri futuristi, con le indicazioni ai lati o sul dorso, del verso per cui devono essere interpretati. Le faccio mandare inoltre i Versi liberi di Buzzi e L’Incendiario di Palazzeschi, con molti Manifesti e alcune riviste interessanti. Mi scriva se le occorre ancora qualche altro opuscolo o libro…». Grazie a Marinetti peraltro Sibilla conoscerà uno dei suoi più grandi amori ancora un artista ovviamente: Umberto Boccioni. Almeno un decennio prima che si consumasse la relazione col pittore calabrese, Sibilla aveva abbandonato il marito (sposato per riparare ad un abuso sessuale subito all’età di 15 anni!) e con lui il suo unico figlio, e si era già legata a Giovanni Cena, colui che l’aveva convinta a mettere nero su bianco il primo romanzo autobiografico. Allo stesso Cena risalirà l’origine dello pseudonimo con cui Rina Marta Felicina è universalmente conosciuta.
La Aleramo fu una femminista convinta (partecipò alle lotte per il voto alle donne, per la pace, l’istruzione e contro la prostituzione e l’alcolismo), ma tutto sommato sui generis perché molto presto decise di rivedere la propria appartenenza al movimento (giudicandola immatura…), fu inoltre una socialista definibile come umanitaria e collaboratrice e direttrice di fogli socialisti e perfino dell’Unità; fu ovviamente antifascista (venne perfino arrestata), ma in seguito dopo un incontro con Mussolini destinata ad assumere una posizione di ordinario equilibrio col Regime. In Andando e stando, prose del 1921, la Aleramo manifestò il convincimento di una indipendenza spirituale della donna rispetto all’universo maschile, una voglia di indipendenza che fu certamente materiale, rintracciabile nella prassi e nella volontà di essere una “saggia” ribelle.
A sessant’anni visse la sua ultima autentica storia d’amore con Franco Matacotta, uno studente di quarant’anni più giovane: «Odore dei tuoi vent’anni che su te respiro ben desta e l’aurora t’è intorno, sei tu stesso aurora», scrisse per lui.
Fedele a se stessa e alla propria natura d’amante generosa e incosciente («e amai perdutamente Campana per non lasciarlo solo nella sua follia…»); la Aleramo fu consapevole di una diversità che alimentò sempre come un fuoco al crepuscolo.
«Non bisogna aver paura della vita» scrisse una volta a trentasette anni: da quel giorno la nostra Sibilla vivrà per quasi mezzo secolo ancora.
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Tratto da Linea del 19 maggio 2010.
Andrea Mazzanti
Le storie di donne come la Aleramo o la Sarfatti sono estremamente illustrative di un periodo storico che riteniamo così distante dal nostro. Ci chiariscono come, a dispetto del tempo passato, le persone che tendiamo a mitizzare come le nostre nonne, nel mio caso coetanee di queste due signore, non erano di fatto così diverse da quelle dei tempi nostri e anche quanto limitati siano stati i cambiamenti che separano le due epoche… Il genere umano si manifesta sempre simile a sé stesso, questo le avvicina al nostro modo di pensare, di agire, di interpretare… Ce le fa quasi amare come vicine di casa gentili, preziose. È grazie alle loro testimonianze, oltre agli storici ovviamente, che abbiamo opportunità di comprendere in modo appena un poco più maturo noi stessi e l’ambiente in cui stiamo vivendo.
Grazie Sibilla, grazie Margherita, grazie alle decine di persone che, dal passato, hanno cercato di migliorare noi stessi e il mondo attorno a noi. Troppe volte con scarsi risultati purtroppo.