A partire dalla fine della I Guerra Mondiale, in un’Europa che, per ragioni storiche (la visione dei massacri della guerra), politiche (la crescita esponenziale della diffusione dell’ideologia socialista) e culturali (lo sviluppo di una nuova fede para-umanistica irrazionale, sviluppata dalla caduta delle certezze razionali ad opera di intellettuali quali Nietzche, Freud, Einstein e molti altri), sta vivendo un massiccio movimento di de-cristianizzazione, numerosi movimenti e federazioni cattoliche, soprattutto in Francia e Belgio (in cui il movimento è particolarmente forte) cercano di arginare il fenomeno attraverso azioni radicali[1].
E’ in questo quadro che, ad opera di Joseph Cardijn si sviluppa, in Belgio, la JOC (Jeunnesse Ouvrière Chrétienne), il cui scopo è di riportare il messaggio cristiano tra le masse operaie tramite la formazione di una sorta di “comitati di base” cattolici nelle zone più povere e nelle fabbriche. A metà degli anni ’20, il prete Georges Guérin, anch’egli, come Cardijn, di estrazione proletaria e parroco in aree periferiche e operaie, esporta l’esperienza in Francia, creando un nuovo ramo della JOC nel suo paese. Il nucleo propulsivo della JOC è l’idea che la chiave della ri-cristianizzazione popolare risiedesse nella possibilità di coinvolgere i giovani nell’opera pastorale, cosicché essi potessero diffondere l’azione catechetica all’interno delle fabbriche e in quegli ambienti popolari che apparivano ormai completamente alieni al messaggio religioso.
Una strategia di questo genere apparve da subito vincente: da Parigi lo JOC si diffuse in tutte le città industriali di Francia e, dopo dieci anni di attività, contava qualcosa come 65.000 aderenti e poteva vantarsi di un giornale, “Jeunnesse Ouvrier” che tirava poco meno di 270.000 copie[2].
Per molti versi, le ragioni del successo dello JOC risiedevano nel suo porsi come alternativa al partito comunista e ai sindacati di sinistra tramite un forte interesse per i temi della giustizia sociale, letti in un ottica anti-marxista (un esperimento già tentato, con minor successo, a partire dal 1919, dal CFTC, il sindacato cristiano francese).
Pur avendo come punto di forza una massiccia presenza di attivisti operai, però, lo JOC non riuscì mai a penetrare completamente nel tessuto sociale del proletariato: le sue sezioni attiravano solo un numero esiguo di lavoratori e ben presto risultò chiaro come fosse impossibile integrare efficacemente una struttura operaista all’interno di contesti parrocchiali dominati da una cultura medio-borghese. Permaneva, dunque, la necessità di sviluppare nuove forme di connessione e di integrazione con una classe operaia ormai in grande misura socialista e di superare il divario socio-culturale che separava tale classe e la Chiesa[3].
E’ in quest’ottica che nasce il movimento dei preti operai, un movimento senza un fondatore vero e proprio ma nato da esigenze missionarie sviluppatesi in numerosi contesti differenti.
Una prima radice del movimento può essere rintracciata nell’apertura, nel 1942, del seminario “Mission de France” a Lisieux: al suo interno, i futuri sacerdoti dovevano essere istruiti ad operare nelle aree surali e urbane neo-paganizzate e una parte integrante del loro addestramento consisteva nel seguire corsi pratici nelle fabbriche e nella fattorie per impratichirsi con le condizioni di vita di coloro che avrebbero in futuro dovuto evangelizzare. L’esperimento ebbe un discreto seguito, tanto che, negli anni seguenti, due succursali del seminario vennero aperte a Limoges e Pontigny[4].
Se, però, vogliamo trovare chi per primo s’impegnò ad assumere su di sé la doppia figura di sacerdote e di operaio, dobbiamo risalire all’anno precedente, quando il Padre Domenicano Jaques Loew (1901-1999), che in uno studio sociologico voleva analizzare le connessioni tra lavoro e condizioni di vita, decise di sperimentare in prima persona la situazione vissuta dai portuali di Marsiglia e si fece assumere come facchino: nel 1943 uscì il suo Les Dockers de Marseille in cui criticava aspramente, da una prospettiva cristiana, le pessime condizioni di lavoro dei suoi colleghi e lo sfruttamento a cui erano sottoposti[5]. Ciò che risulta particolarmente importante è che Loew si sentisse al tempo stesso intellettuale, prete e operaio e che, sebbene non smettesse mai di dirigere una parrocchia marsigliese, si impegnasse attivamente nelle rivendicazioni sindacali di migliori condizioni di sicurezza e retribuzione (opera che continuò anche dopo la pubblicazione del suo libro, creando un istituto secolare “Saints Pierre et Paul”, attivo sia nell’evangelizzazione del proletariato che nell’azione sociale e previdenziale a favore dei portuali).
Una seconda radice del movimento dei preti operai è direttamente connessa agli eventi della II Guerra Mondiale: la truppe di occupazione tedesche reclutarono a forza in Francia circa 800.000 lavoratori da utilizzare nell’industria bellica e proibirono alla Chiesa di fornire loro qualunque forma di supporto spirituale. I vescovi francesi, allora, decisero di aggirare tale proibizione e inviarono 25 preti regolari, scelti tra 200 volontari, travestiti da operai, a lavorare nei campi di lavoro delle fabbriche tedesche[6]. Certo non possiamo ancora parlare realmente di preti operai, dal momento che il loro obiettivo ultimo era quello di continuare l’opera pastorale in un ambiente in cui essa era proibita, ma, indubbiamente, non potendo farsi scoprire, i 25 volontari vissero completamente la loro nuova condizione di operai tra gli operai, tanto che il Gesuita Padre Henri Perin, uno dei partecipanti all’esperimento, ebbe poi modo di scrivere: “Eravamo ansiosi di assumere completamente il nostro ruolo in quell’ambiente, in modo che gli operai ci vedessero come colleghi. In una parola, il nostro scopo era l’amicizia”[7]. Così, i preti compresero ben presto che la cura pastorale non potesse essere aliena dalle preoccupazioni sul benessere e la libertà personale del proletariato. Sempre con la parole di Padre Perin: “sempre più mi convinsi che gli apostoli di Cristo debbano apparire gli esser umani come liberatori capaci di portare messaggi di libertà e pace. Dobbiamo liberarci dalla erronea concezione di noi stessi come di un ‘buon pastore’ …”[8].
Insomma, già da questa prima esperienza risultò evidente che il clericalismo e la visione di Chiesa tipica della classe borghese rendevano il contatto con il proletariato quasi impossibile: un ponte tra due mondi diversissimo era possibile solo a patto di decisi cambiamenti. Ancora una volta con Perin: “Essi non conoscono per nulla il preti; sono separati da noi e noi da loro da un fossato enorme. Si potrebbe quasi dire che viviamo in mondi differenti. Tutto di noi li respinge: il nostro pio linguaggio che non capiscono, i nostri strani paramenti a metà del XX secolo, il comportamento condiscendente che alcuni di noi hanno, il nostro dipendere da certe maniere che ci marchiano inevitabilmente come borghesi”[9]. Ecco, dunque, che i preti dovevano lasciare da parte la loro identità clericale e la loro radice borghese per imparare ad adattarsi all’ambiente operaio.
Nel frattempo, fin dall’inizio del XX secolo, stavano avendo luogo alcuni importanti cambiamenti della vita religiosa e spirituale che avrebbero poi indubbiamente influenzato la formazione del movimento dei preti operai. Centrale in questo senso è la figura di Charles de Foucauld (1885-1916), un nobile ex militare che, dopo una vita a dir poco movimentata si era ritirato in un romitorio in Algeria in cui aveva intrapreso una vita contemplativa e si era dato da fare a scrivere la regola di un nuovo ordine, basata sull’importanza del lavoro manuale e della presenza di Gesù tra i più poveri e miserabili, sulla forza spirituale della mistica e, parzialmente, anche su un certo entusiasmo per l’Islam[10]. Nel 1933, il prete francese René Voillaume (1905-2003) aveva ripreso le dottrine di Foucauld, fondando l’Ordine dei “Piccoli Fratelli di Gesù”, inizialmente votato ad una vita monastico-contemplativa, ma poi inserito, come il seguito il ramo femminile delle “Piccole Sorelle di Gesù” fondato da Madeleine Hutine nel 1947, a pieno titolo nel mondo del lavoro (tutti i religiosi devono provvedere al proprio sostentamento svolgendo un lavoro manuale), con una scelta preferenziale per le condizioni più umili e gli ambienti più poveri[11].
Anche molti laici, in quegli anni, cercarono di indirizzare la propria vita nel senso di una condivisione delle condizioni dei più poveri. Un esempio in questo senso è l’assistente sociale cristiana Madleine Delbrêl (1904-1964) che, all’età di ventinove anni, decise di trasferirsi nella città industriale (e marcatamente comunista) di Ivry e di vivere in una comunità-alloggio femminile, prendendo i voti di povertà, castità e obbedienza ma rimanendo in condizione di laicato perpetua per restare in contatto con gli “ultimi”, come ricorderà, dopo aver addirittura collaborato nei lavori preparatori del Concilio Vaticano II, nel suo libro Ville Marxiste, Terre de Mission[12].
Insomma, anche dal punto di vista dei fermenti interni alla Chiesa, il terreno era maturo per una esperienza come quella dei preti operai.
Per il suo sviluppo un ruolo centrale fu assunto dalla cosiddetta “Missione di Parigi”, nata sulla spinta degli studi sociologici dei due cappellani dello JOC Henri Godin e Yvan Daniel, che, nel loro testo La France, Pays de Mission? erano giunti alla conclusione il proletariato urbano vivesse completamente separato dalla Chiesa e che la sola possibilità di riportare il messaggio cristiano tra i lavoratori risiedesse nell’istruire alcuni sacerdoti a vivere nei contesti industriali più poveri e nel formare parrocchie diverse da quelle delle aree borghesi e più consonanti con le necessità dei lavoratori[13]. Il Cardinale di Parigi Emmanuel Suhard, impressionato dai risultati di tale investigazione, creò, dunque, la Missione con lo scopo di formare religiosi votati alla ri-cristianizzazione dei proletari e finanziò la costituzione di due nuove comunità, formate da quindici preti e due suore laiche in aree sub-urbane sottoproletarie. In realtà, l’esperimento fu inizialmente fallimentare: non bastava cambiare area di predicazione per penetrare nel mondo operaio, ma era necessaria una prospettiva completamente nuova[14].
In questo senso, iniziarono i primi timidi approcci con rappresentanti marxisti, per lo più legati al sindacato CGT, approcci che portarono alla partecipazione di alcuni preti alle assemblee di quartiere promosse dal Partito Comunista e che riuscirono a far cadere molti dei pregiudizi da entrambe le parti in causa.
A poco a poco, l’attività della Missione di Parigi cominciò ad espandersi anche fuori dalla capitale: dall’autunno 1944 nacquero in molte città industriale “equipe” di preti operai e, all’inizio degli anni ’50 i sacerdoti operai erano più di cento[15]. Il principio su cui si basava la loro opera missionaria era molto semplice: se il centro della vita dell’operaio era la fabbrica, era in fabbrica che gli evangelizzatori dovevano essere presenti e per far questo essi dovevano forzatamente lavorare in catena di montaggio esattamente come ogni altro lavoratore.
L’esperienza diretta della situazione operaia portò, in questo periodo, molti religiosi ad avvicinarsi sempre più alla CGT, l’unica struttura che si occupasse attivamente delle condizioni di lavoro e di vita del proletariato[16]. Ciò non mancò di provocare fortissime tensioni con l’azione Cattolica, con gli ambienti ecclesiastici più conservatori e con gli stessi sindacati cattolici, accusati di essere troppo accomodanti con i capitalisti.
Oltre a partecipare a scioperi e rivendicazioni, molti preti operai si avvicinarono al movimento pacifista, rappresentato in quel periodo in particolare dal “Mouvement de la Paix”, una organizzazione formata da ex partigiani e marcatamente di sinistra che si impegnava per la fine della guerra in Indocina, per l’abolizione delle armi nucleari e per l’uscita della Francia dalla NATO[17]. Entrambe le cose non mancarono di richiamare l’attenzione pubblica su questi ecclesiastici così lontani dagli stereotipi comuni e quando due preti operai, nel 1952, vennero arrestati durante una manifestazione pacifista, lo “scandalo” divenne pubblico: l’immedesimazione del clero operaista con i valori proletari era giunta al punto da portarli verso una militanza para-marxista.
La Curia Romana, già dalla metà degli anni ’40, aveva espresso forti perplessità sull’esperimento francese, in particolare riguardo a due aspetti: l’immagine del sacerdozio che ne poteva derivare e la eccessiva prossimità al comunismo[18]. In Vaticano vi chi si chiedeva se la vita di fabbrica potesse essere compatibile con la vita ecclesiastica, sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista dell’espletamento dei quotidiani doveri sacerdotali, ma, soprattutto, molti si domandavano quanto la condivisione del lavoro di catena di montaggio potesse essere utile al raggiungimento dell’obiettivo[19]. Per quanto riguarda, poi, i dubbi sulla “prossimità” al comunismo, dobbiamo leggerli nel quadro del viscerale anti-marxismo della Santa Sede negli anni immediatamente seguenti la pubblicazione della Quadragesimo Anno di Pio XI (1939) che condannava ogni teorizzazione socialista come incompatibile con lo status di cristiano[20].
Non fa, dunque, specie che, dopo la questione dell’arresto dei due preti a Parigi, la Curia richiamasse a Roma i tre Cardinali Feltin, Gerlier and Liénart che, dopo aver discusso con la Congregazione per i Seminari, il Sant’Uffizio e il Papa stesso, tornati in Francia, pubblicarono la seguente nota (novembre 1953): “Dopo dieci anni di vita, l’esperimento dei preti operai […] nella sua forma corrente non può essere proseguito. Preoccupata di mantenere i contatti sino ad oggi stabiliti tra Chiesa e mondo del lavoro, la Chiesa vede di buon occhio che preti che abbiano dato prova di essere sufficientemente qualificati continuino il loro apostolato tra i lavoratori. Ma la Chiesa desidera che: essi siano scelti espressamente dal vescovo, ricevano un solido addestramento sia riguardo alla dottrina che alla guida spirituale, si dedichino a lavori manuali solo per periodi limitati per poter attendere ai loro doveri ecclesiastici, non assumano ruoli laici che devono essere lasciati a sindacalisti e laici e laiche, non vivano isolati ma in comunità ecclesiali o in parrocchie e diano il loro contributo alla vita parrocchiale”[21].
Immediatamente, come reazione a questo comunicato, i Gesuiti ritirarono immediatamente il loro appoggio (e con esso i loro sette religiosi) al progetto dei preti operai e, poco dopo, i Domenicani fecero lo stesso[22].
Ancora all’inizio del 1954 i vescovi francesi pubblicarono una nuova dichiarazione in cui si enfatizzava l’incompatibilità tra vita clericale e vita operaia e, in una lettera privata a ogni prete operaio, imposero una rigida irregimentazione delle loro attività che comprendeva il ritirarsi da ogni attività considerata laica, un massimo orario di lavoro di tre ore giornaliere e l’ordine di non iscriversi ad alcun sindacato, pena gravi sanzioni canoniche[23]. In particolare il secondo punto, con il suo limite orario assolutamente incompatibile con ogni attività lavorativa segnava, di fatto, la fine dell’esperimento.
In reazione alla presa di posizione vescovile, 73 preti operai firmarono un manifesto pubblico (poi pubblicato da “Le Monde” nel febbraio 1954) in cui rifiutavano di obbedire ad un comando che ritenevano iniquo e in cui, tra l’altro, si legge: “Questa decisione si basa su motivazioni religiose. Noi non crediamo, in ogni caso, che la nostra vita operaia ci impedisca di rimanere fedeli alla nostra fede e al nostro sacerdozio. Noi non comprendiamo come si possa, in nome del Vangelo, impedire a dei preti di compartecipare delle condizioni di vita di milioni di persone sfruttate e di mostrare solidarietà con la loro lotta”[24].
In pratica, comunque, dal marzo 1954, circa metà dei preti operai lasciarono le fabbriche, mentre l’altra metà incorse in sanzioni ecclesiastiche e, in gran parte, ritornò al laicato sposandosi o ruppe completamente i ponti con la Chiesa (pur mantenendo strettissimi legami con gli ex-confratelli). Il conflitto ebbe una risonanza notevole: molti intellettuali espressero la loro solidarietà con i preti operai, anche con racconti e libri su di loro (per la fine degli anni ’60 se ne conteranno ben 78[25]) e una buona parte dei credenti si schierarono dalla loro parte. Come giustamente osservato da Ulrich Peter, non si trattava solo della questione privata di un centinaio di sacerdoti, ma dell’intero ruolo della Chiesa cattolica[26].
Per altro, con la presenza di molti sacerdoti comunque impegnati in campo lavorativo, il problema rimaneva aperto. Ancora nel 1957, i vescovi francesi dovettero creare un “Apostolato per il Lavoro” per coordinare le attività dello JOC e di altre federazioni laiche nelle quali molti sacerdoti lavoravano, seguendo le indicazioni vaticane, solo tre ore al giorno (definendosi, per distinguersi dai “prêtres ouvriers”, “prêtres au travail”)[27].
Nel 1959, l’Arcivescovo di Parigi Cardinal Feltin ottenne una udienza particolare da Papa Giovanni XXIII e gli sottopose il problema, chiedendogli, al contempo, una dispensa per quei preti operai che ancora lavoravano a tempo pieno nelle fabbriche. La lettera di risposta del Segretario del Sant’Uffizio, Cardinal Pizzardo, sebbene privata, divenne presto di dominio pubblico: al suo interno si ribadiva il divieto, ritenendo che il diventare operai non fosse essenziale per l’apostolato dei preti e che significasse unicamente sacrificare i doveri della vita sacerdotale in nome di una visione erronea dell’attività missionaria. Piuttosto, in questo campo, potevano essere sostituiti da laici appartenenti a congregazioni religiose secolari[28]. In questo modo, per la prima volta, il divieto di lavoro manuale sacerdotale riceveva una giustificazione teologica.
Nel frattempo, però, si stava aprendo il Concilio Vaticano II, in cui molti preti operai vedevano una possibilità per riaprire la discussione. Tre padri Conciliari francesi e due belgi fecero in modo, attraverso lettere personali d’invito, che due preti operai fossero sempre presenti a Roma durante le tre sessioni conciliari e, sebbene questi non avessero uno status formale di “consiglieri”, riuscirono a sostenere la loro causa attraverso conversazioni con i teologi vaticani e persino in una udienza privata con il Santo Padre[29].
Grazie all’appoggio di teologi come Yves Congar e Marie Dominique Chenu, il movimento ottenne che nel Decreto sulla vita consacrata Presbyterorum Ordinis (1965) fosse inserito il seguente passaggio: “A prescindere dai loro vari compiti, i preti offrono al genere umano il loro servizio sacerdotale. Tutti sono inviati a compiere la stessa opera, sia che lavorino come ministri parrocchiali o con ruoli che trascendono la parrocchia, sia che si dedichino alla scienza o all’insegnamento, sia che, qualora appaia opportuno e sia approvato dalle autorità responsabili, lavorino persino manualmente e, di conseguenza, condividano l’esperienza degli operai, sia che compiano altre opere apostoliche o lavorino per l’apostolato”[30].
In pratica, grazie a questa clausola, la proibizione di undici anni prima veniva cancellata e ciò portò numerosi consacrati francesi a impegnarsi in questa forma di missione: già nel 1965, 15 preti s’impiegarono in fabbrica; tra 1968 e 1970 furono seguiti da altri 124 religiosi e da 104 tra 1971 e 1974; nel 1979 i preti operai erano più di 950![31]
Forse a causa delle mutate condizioni socio-politiche, ma anche sulla scorta delle esperienze dei loro predecessori, i nuovi preti operai mantennero un profilo più basso, ma ciò non significò un minor impegno sociale: come uno di loro, Jean Risse, intitolò la sua autobiografia, “Leur Silence est Parole”. Stante la nuova posizione della Chiesa, molti di loro si consociarono in una organizzazione chiamata ENPO (“Équipe National de Prêtres-Ouvriers”) che collabora tuttora attivamente con il “Consiglio Episcopale per la Missione tra i Lavoratori” e che pubblica (dal 1972) il mensile “Courrier P.O.”[32]
Ovviamente, dalla Francia, l’esperienza si estesa anche ad altre realtà in cui è tutt’ora presente:
– in Belgio, dove erano esistiti preti operai anche prima del Concilio, il loro numero salì fino ad una cinquantina di unità nel 1983[33];
– in Italia, dove già dal 1955 alcuni sacerdoti (primo fra tutti don Carlo Carnevalis alla FIAT di Torino) si erano impiegati in fabbrica, tra il 1966 ed il 1972 venti seminaristi torinesi e veneziani decisero di interrompere gli studi per due o tre anni per inserirsi nella realtà operaia e, nel 1998, i preti operai assommavano a 250 circa[34];
– in Germania venne formata una emanazione dello JOC (CAJ) e, a partire dal 1973, preti operai appartenenti al Clero secolare, ai Francescani, ai Domenicani, agli Oblati e alle Piccole Sorelle di Gesù si riunirono in un circolo chiamato “Fratelli e Sorelle degli Operai”, attivissimo, dopo il 1989 anche nell’evangelizzazione della nuova manodopera proveniente dall’Est[35];
– in Spagna e Inghilterra nacquero piccoli movimenti che, sebbene non divennero mai particolarmente numerosi, ebbero una certa risonanza per la loro capacità di inserirsi in ambiti operaistici storicamente molto chiusi[36].
– Più recentemente, il movimento, ormai piuttosto esiguo in Europa, ha attecchito decisamente in Sud America e in Africa, dove l’impegno lavorativo si è connesso ancora più fortemente all’impegno missionario[37].
Dall’osservazione dello sviluppo del movimento dai suoi inizi ai giorni nostri è possibile trarre alcune osservazioni di fondo.
1) Il movimento dei preti operai dalla sua riammissione in seno alla Chiesa, ha avuto per circa vent’anni, una crescita esponenziale a partire dal primo nucleo francese, evidentemente dimostrandosi una forma di apostolato consona alla vocazione di molti giovani religiosi del tempo.
2) Gran parte dei preti operai (circa l’85% del totale europeo[38]) ha oggi più di 60 anni e, dunque, si avvicina alla pensione o è già pensionato (pur, in molti casi, mantenendo ruoli importanti nel sindacato e nell’apostolato). Ciò sta a significare che, nonostante la presenza di alcuni corsi creati “ad hoc” nei seminari (soprattutto tedeschi), la prospettiva operaista non sembra più riscuotere un grande interesse tra i sacerdoti, forse anche a causa della scarsa informazione in materia fornita all’interno delle Facoltà Teologiche.
3) Dopo un primo periodo strettamente “operaistico”, la gamma di lavori svolti dai preti operai si è, certamente anche a causa della contrazione del settore secondario, ampliata verso molti generi di attività, per lo più spostandosi verso l’artigianato e la piccola imprenditoria privata, di norma inquadrata nell’ambito del “commercio equo e solidale”[39].
4) Iniziata all’interno della Chiesa Cattolica, l’esperienza dei preti lavoratori si è estesa anche a numerose altre Confessioni Protestanti, soprattutto in Germania, e, conseguentemente, ha coinvolto anche Ministre di Culto, che si sono affiancate ad un nutrito gruppo di operatrici cristiane e di suore laiche[40].
5) Dal punto di vista politico, il movimento ha continuato, lungo tutto l’arco della sua esistenza, il suo impegno all’interno dei sindacati ma tale impegno si è esteso, nel tempo anche ad altri ambiti quali pacifismo, anti-discriminazione e terzomondismo, con numerosi preti operai impegnati in organizzazioni quali “Attac”, “Amnesty International” o “Ordensleute gegen Ausgrenzung” (“Religiosi contro le Espulsioni”)[41].
Anche dal punto di vista teologico, si è assistito ad un cambiamento e ad un approfondimento dell’impegno. Se i primi preti operai erano più propensi alla pratica concreta della condivisione che alla riflessione teologica, negli ultimi 15 – 20 anni si è assistito ad una loro teologizzazione sempre più imponente che ha, in molti casi, mosso i suoi passi, soprattutto in Sud America, dalle teorizzazioni dei teologi della liberazione riguardanti le “strutture del peccato” e la questione della “giustizia sociale” e che ha comportato una opera di evangelizzazione che dal proletariato si è mossa verso il sottoproletariato e le aree di emarginazione[42].
[1] J.E. Flower, “Forerunners of the Worker-Priests” in “Journal of Contemporary History” II-1967, pp.183-199
[2] H.Godin, A.Michel, Priest and Worker, Catholic Book Club1964, p. 179
[3] G. Siefer, The Church and Industrial Society, Darton, Longman, and Todd 1960, p. 51
[4] C.Peter, The Worker Priests Odissey, Carmel 2004, pp. 32-33 e “Arbeiterpriester” 1957: XIII
[5] C. Loew, Modern Rivals to the Christian Faith, The Westminster Press 1956, passim
[6] H. Perrin, Priest and Worker: The Autobiography of Henri Perrin, Holt, Rhinehart and Winston 1956-1964, passim
[7] Ivi, pp. 41-42
[8] Ivi, p. 120
[9] Ivi, p. 313
[10] A. Louth, The Wilderness of God, Abingdon Press 1997, pp. 103 ss.
[11] R. Voillaume, Come Loro, nel Cuore delle Masse. Vita e Spiritualità dei Piccoli Fratelli di Gesù, San Paolo Edizioni 1999, passim
[12] M. Delbrêl, Noi delle strade, Gribaudi 1988, passim
[13] H.Godin, A.Michel, Citato, passim
[14] N. Viet-Depaule, La Part Des Militants: Biographie Et Mouvement Ouvrier, Autour Du Maitron, Dictionnaire Biographique Du Mouvement Ouvrier Francais, Editions de l’Atelier 2002, pp. 6ss
[15] O.L. Arnal, Priests in Working-Class Blue: The History of the Worker-Priests (1943-1954), Cambribge U.P. 1986, pp. 531-532
[16] O.L. Arnal, Citato, pp. 534–544
[17] “Arbeiterpriester” II – 1957, p. 37
[18] N. Viet-Depaule, Citato, pp.287-353
[19] J. Famà, Working Clergymen, Edmont 1998, pp. 26 ss.
[20] Pio XI, Quadragesimo Anno, Ed. Vaticana 1931, in particolare Par. 117 e 120
[21] “Herder-Korrespondenz”, Vol. 8/2, novembre 1953, p. 110
[22] F. Leprieur, Quand Rome Condamne, Plon – Cerf 1989, pp. 199–205
[23] “Herder-Korrespondenz” Vol. 8/6, marzo 1954, pp. 259 ss.
[24] Ivi, p. 262
[25] O.L. Arnal, Citato, pp. 529-530
[26] C.Peter, Citato, p. 37
[27] R. Poterie, L. Jeusselin, Pretes-ouvriers. 50 Ans d’Histoire et de Combats, L’Harmattan 2003, pp.136–139
[28] “Herder-Korrespondenz”, Vol. 14/2, novembre 1959, pp. 76-77
[29] R. Poterie, L. Jeusselin, Citato, pp. 139 ss.
[30] Concilio Vaticano II, Presbyterorum Ordinis, No. 8, Ed, Vaticana 1965
[31] R. Poterie, L. Jeusselin, Citato, pp. 160 e 280.
[32] S. Rougier, Prêtres de la Mission de France, Centurion 1991, pp.211-213
[33] “Belgium Flagothier”, N.6/2, febbraio 1998, pp. 11-12.
[34] R. Poterie, L. Jeusselin, Citato, pp. 168–173
[35] “Dokumentation”, marzo 1992, pp. 63 ss.
[36] J.P.Pinillos, Los Curas Obreros en Espaňa, Nueva Utopia 2004, passim e L. Erlander, Faith in the world of work – on the theology of work as lived by French worker priests and British Industrial Mission, Acta Universitatis Upsala 1991, passim
[37] T. Schmidt, “Liberation Theology and Working in an Enterprise” in “Frankfurter Arbeitspapiere”, n. 43, giugno 2005, passim
[38] “La Croix”, N. 21./22, febbraio 2004, p. 3
[39] “Dokumentation”, marzo 1992, p.49
[40] V. Strassner, “Die Arbeiterpriester: Geschichte und Entwicklungstendenzen einer in Vergessenheit geratenen Bewegung”, in “Deutsche Arbeit”, N.7, agosto 2005, pp. 21-23
[41] Ivi
[42] T. Schmidt, Citato, pp. 257 – 258.
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