Risorgere e combattere

“La morte per la Patria, come l’eternità della vita”
B. Mussolini

La raccolta Risorgere e combattere, che riunisce i discorsi della Repubblica Sociale e il testamento politico di B. Mussolini unitamente ad alcune belle e significative fotografie d’epoca (di cui la copertina, riprodotta anche a p. 138, è un esempio delicato e grave), costituisce un’operazione editoriale controcorrente e benemerita, in più sensi: anzitutto, vi è il significato storico-politico (e militare-combattentistico) dei discorsi; inoltre, il testamento-intervista del Duce conserva una pregnanza “esistenziale”, oltre che politica, esemplare, assumendo anche un carattere “profetico” quando per esempio vi si afferma: “Con la caduta del fascismo, la Chiesa cattolica si ritroverebbe di fronte a nemici di ogni genere: vecchi e nuovi nemici. E avrebbe cooperato ad abbattere un suo vero, sincero difensore” (p. 169).

La RSI, come afferma il prefatore L.L. Rimbotti, era animata da “una volontà di rivolta e combattimento” (p. 19); tuttavia, “la nuova Repubblica fu anche un laboratorio politico e sociale”, all’insegna di un “socialismo nazionale” e di una “civiltà del lavoro” che, fondati su di uno Stato corporativo e “popolare”, avrebbero riportato il fascismo ai suoi albori, come affermato dallo stesso Mussolini nel discorso pronunciato da Radio Monaco il 18/9/1943, appena dopo aver ricordato le radici repubblicane dell’indipendenza e il loro apostolo Mazzini (p. 44): in particolare, era necessario “annientare le plutocrazie parassitarie e fare del lavoro, finalmente, il soggetto dell’economia e la base infrangibile dello Stato” (p. 45). In un lasso di tempo così breve (venti mesi), si recuperavano le origini del fascismo (p. 96, Discorso al Lirico di Milano, 16/12/1944) – il suo senso più autentico, che si riverberava in specie nel carattere avanguardistico delle sue applicazioni sul piano sociale: si pensi al “comunismo idealistico”, ossia la riforma del marxismo prospettata da G. Gentile -, ciò che non venne del tutto negato, nei fatti se non nelle parole, dalla stessa Costituzione repubblicana del 1948 (e, ancor più obliquamente ma non sempre incongruamente, dal passaggio di molti politici del tempo dal PFR al PCI).

Tra l’altro, il socialismo nazionale di Verona si poneva in contrapposizione per diametrum a quello borghese-reazionario, visto che per la prima volta nella storia moderna, con riferimento al contesto italiano e parallelamente alle (tarde) elaborazioni nazionalsocialiste, “indicava il fine ultimo della guerra nella realizzazione di una ‘comunità europea’” (n. 8 del “Manifesto” di Verona), fondata su una comune eredità bio-storica e su di un comune destino (pp. 24-25). Al proposito, Mussolini afferma: “la costituzione di una comunità europea è auspicabile e forse anche possibile, ma […] noi non ci sentiamo italiani in quanto europei, ma ci sentiamo europei in quanto italiani” (p. 102, Discorso al Lirico di Milano). L’Europa è quindi intesa quale comunità nazionale, nel senso etimologico del termine natio: di popolo, di popoli e di destino, all’insegna della condivisione, della custodia e della trasmissione di uno specifico, venerabile, inalienabile patrimonio “culturale”. Ciò costituì anche una spinta decisiva, in senso combattentistico, che mosse molti volontari ad una autentica “guerra di civiltà”, contro la tenaglia materialista e internazionalista del capitalismo anglosassone e del comunismo sovietico (p. 26). Piuttosto, in caso di vittoria dell’Asse, il mito di Roma come Kultur si sarebbe forse scontrato con l’orientamento più marcatamente “razzista” del gotha nazionalsocialista, pure mitigato, negli ultimi anni di guerra, da una riconversione in senso “paneuropeo” (si pensi alla costituzione delle Waffen SS europee).

D’altra parte, il fascismo rappresentò una delle massime manifestazioni della “nazionalizzazione delle masse”, con la partecipazione reale del popolo alla politica (p. 17), tanto che qualcuno ha parlato, in riferimento ai primi anni dell’esperienza italiana, di “democrazia autoritaria”; e l’instaurazione di una “dittatura popolare” costituì l’esito politico coerente del processo storico in oggetto (v. il Discorso sulla dittatura di Donoso Cortés), in cui capo carismatico e partecipazione popolare si completavano vicendevolmente, sebbene un Evola volesse rimanere fermo su principi “tradizionali”, che negavano a priori lo “Stato popolare” e “del lavoro”, e che vedevano nel “culto del capo” fascista solo una degenerazione di segno demagogico-bonapartista.

Tuttavia, ci pare evidente come il nuovo contesto storico esigesse che la tradizione fosse calata nella modernità: in politica come, ad esempio, in architettura. Giustamente, Rimbotti ricorda l’unicità dell’esperienza della RSI (pp. 11-12), che raccolse adesioni e simpatie in gran numero anche da parte della grande cultura (p. 22), pur ponendosi fondamentalmente come mezzo di testimonianza nell’ambito di una guerra già perduta, anche (soprattutto) a causa dei nemici interni del fascismo (Massoneria, Chiesa, Monarchia, Stato Maggiore dell’esercito, gerarchi infedeli, alta borghesia capitalista, tutte classi dirigenti rimaste sempre liberali e reazionarie, ed inquadrabili nel tanto vituperato termine di “plutocrazia”) (p. 10). Per quanto concerne l’antifascismo organizzato, verso il quale Mussolini non manifestò generalmente il rigore che oggi gli è falsamente imputato, se alla fine del 1944 egli sosteneva che “i sei partiti antifascisti si affannano a proclamare che il fascismo è morto, perché lo sentono vivo” (p. 114), oggi noi possiamo assistere al curioso fenomeno per cui gli antifascisti non fanno altro che latrare che il fascismo è vivo (ciò che, metapoliticamente, è vero!): precisamente, perché essi stessi sono già morti. Ad ogni modo, torniamo a dire, la guerra era probabilmente già perduta, nel 1943, anche se “all’indomani della fine della battaglia di Stalingrado [febbraio 1943], le posizioni tedesche erano ancora tali che […] la diplomazia di Stalin produsse il suo massimo sforzo per pervenire ad una pace separata con il Terzo Reich” (p. 15 n. 4). Certamente, le cause della sconfitta non sono esclusivamente riducibili a fattori militari, anche se gli errori compiuti a Dunkerque e in Grecia furono determinanti. Pure, l’”abbattimento profondo dell’anima nazionale” (Mussolini, citato a p. 15) ingenerò “un certo collasso etico di tipo anche antropologico” (p. 16): si può dire che si passò, piuttosto repentinamente, dai tentativi fascisti di edificare l’”uomo nuovo” alla costruzione dell’”italiano medio”.

In questo torno di tempo Mussolini, autentico “volto della Patria”, era certamente indebolito dalle traversie, provato ed angosciato per le sorti dell’Italia: ma non vinto, e comunque politicamente lucidissimo, come è facile constatare dalla lettura di quanto raccolto nel volumetto qui recensito. La sua fu una vicenda emblematica, non solo dal punto di vista politico, ma anche – tragicamente – esistenziale: una vicenda in cui fatti pubblici e privati si intrecciarono, e non è operazione semplice – né utile, forse – il districarne la matassa. Tra i discorsi più significativi pronunciati dal Duce tra il 1943 e il 1945 vi è senza dubbio quello del Lirico di Milano, in cui Mussolini affermava l’idea di un ritorno alle origini sansepolcriste, ma anche di una continuità ideologica tra fascismo-regime e RSI (pp. 30-31). Le forze che le difficoltà nel governare, le debolezze umane e le contingenze (il “cono d’ombra” ricordato da Mussolini nell’intervista del 1932 a E. Ludwig) avevano spesso frenato furono semplicemente “liberate” in un contesto di guerra, più scevro dalle procedure della politica e da certe tendenze compromissorie: il Duce afferma infatti che “bisognava porre le basi con le leggi sindacali e gli organismi corporativi per compiere il passo ulteriore della socializzazione” (p. 96, Discorso al Lirico di Milano), attraverso cui “il lavoratore esce dalla condizione economico-morale di salariato per assumere quella di produttore, direttamente interessato agli sviluppi dell’economia e al benessere della Nazione” (pp. 103-104). Inoltre, “se le vicende di questa guerra fossero state favorevoli all’Asse, io avrei proposto al Führer, a vittoria ottenuta, la socializzazione mondiale. […]: frontiere esclusivamente a carattere storico; abolizione di ogni dogana; libero commercio fra Paese e Paese, regolato da una convenzione mondiale; moneta unica e, conseguentemente, l’oro di tutto il mondo di proprietà comune e così tutte le materie prime, suddivise secondo i bisogni dei diversi Paesi; abolizione reale e radicale di ogni armamento. Colonie: quelle evolute erette a Stati indipendenti; le altre, suddivise fra quei Paesi più adatti per densità di popolazione, o per altre ragioni, a colonizzare ed a civilizzare; libertà di pensiero e di parola e di scritto regolate da limiti: la morale, per prima cosa, ha i suoi diritti […]. Ogni religione liberissima di propagandarsi” (pp. 167-168 [corsivo nostro]).

Un tentativo abortito sul nascere, quello dell’instaurazione della socializzazione in Italia, di cui però vale la pena mettere in luce la grandezza: una sorta di “cavalcare la tigre” della tecnica, trasformando in uomo e liberando il lavoratore dal giogo oppressivo del materialismo anglosassone e sovietico. Nel “testamento politico”, inoltre, Mussolini afferma significativamente: “[…] abbiamo spaventato il mondo dei grandi affaristi e dei grandi speculatori. […] Ma il colmo è che i nostri nemici hanno ottenuto che i proletari […] si schierassero anima e corpo dalla parte dei plutocrati, degli affamatori, del grande capitalismo” (pp. 34-35): ciò di cui, visto che la storia corre e ricorre, abbiamo anche oggi una dimostrazione patente. Nell’ultima, impressionante intervista concessa da Mussolini (20/04/1945), il Duce sostiene: “Voglio solo dire che, a fine maggio e ai primi di giugno del 1940, se critiche venivano fatte, erano per gridare allo scandalo di una neutralità definita ridicola, impolitica, sorprendente. La Germania aveva vinto […]. Non si poteva rimanere neutrali se volevamo mantenere quella posizione di parità con la Germania che fino ad allora avevamo avuto. I patti con Hitler erano chiarissimi. Ho avuto e ho per lui la massima stima. Bisogna distinguere tra Hitler ed alcuni suoi uomini più in vista” (pp. 159-160). La decisione di entrare in guerra si colloca infatti nel contesto più ampio di una politica, quella fascista, che da un lato voleva impedire alla Germania di rompere l’equilibrio continentale, dall’altro intendeva rivedere i trattati, restituendole ciò che essa legittimamente chiedeva: “ecco quello che avrebbe impedito la guerra” (p. 162; v. anche p. 167). Chi volle, allora, la guerra su scala mondiale?

Si può affermare che quella fascista fu, in specie negli ultimi venti mesi, radicale azione metapolitica: un mantenersi su “linee di vetta” più afferenti al dominio “spirituale” (si pensi alle elaborazioni della “mistica fascista”, che in alcuni non rimasero lettera morta) che a quello meramente politico. Sappiamo di non essere originali nel sostenere ciò: ma vale la pena tener sempre ferma la distinzione nicciana tra “piccola” e “grande politica”. Il partito era infatti “un ordine di combattenti e di credenti, organismo di assoluta purezza politica, degno di essere il custode dell’idea rivoluzionaria” (p. 99, Discorso al Lirico di Milano [corsivo nostro]).

“Chi teme la morte non ha mai vissuto […]. La vita non è che un tratto di congiunzione tra due eternità: il passato e il futuro […]. Io andrò dove il destino mi vorrà, perché ho fatto quello che il destino mi dettò”, afferma Mussolini nel testamento, qualche giorno prima di morire, aggiungendovi: “io sono come il grande clinico che non ha saputo fare la cura” (p. 166). Il tono è grave, e malinconicamente rassegnato. Ad ogni modo, qualunque siano gli orientamenti del lettore, non si può non considerare sine ira ac studio – a maggior ragione oggi! – la diagnosi mussoliniana; e nessuno, se non altro per il rispetto di ciò che è evidente, potrà dire che le legioni repubblicane non abbiano combattuto con onore contro la corrente degli eventi, aderendo ad un inesorabile imperativo interiore: “necessario vincere, più necessario combattere”.

B. Mussolini, Risorgere e combattere. I discorsi della Repubblica Sociale e il testamento politico, Passaggio al Bosco, 2020.

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  1. Piero Bomba
    | Rispondi

    Salve
    Articolo bellissimo e libro da acquistare
    Piero

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