Nel suo “Manifesto” (“La società industriale e il suo futuro”), apparso per la prima volta il 19 settembre 1995 in un inserto speciale di sette pagine sul “Washington Post”, T.J. Kaczynski (1942-2023) espose alcune tesi radicalmente “inattuali” sulla società industriale, nelle sue relazioni strutturali con la scienza, la tecnologia (in primis l’informatica), l’economia e nei suoi modi di gestione del potere. Già E. Jünger, tra gli altri, aveva espresso la “intenzione di contrapporsi all’automatismo” proprio dell’occidentalizzazione (Trattato del Ribelle, Milano 1994, tr. it. p. 90); l’autentico ribelle è ontologicamente libero, poiché attraverso la sua libertà vince la paura della morte. In questo senso, la ribellione deve essere in primis di ordine interiore, e “passare al bosco” significa liberamente “andare verso la morte” (cfr. l’heideggeriano “essere-per-la-morte”); la rivolta esige, nel contesto attuale, oltre che enormi sacrifici personali e sociali, una profonda presa di coscienza “autocentrante”, ed è ormai possibile solo sul piano individuale. L’individuazione del nemico passa per l’identificazione dei meccanismi del potere – e non semplicemente dei cdd. “poteri forti”, che pure esistono –, che fonda la sua capacità di dominio soprattutto sulla tecnologia informatica (scienza della raccolta di dati mediante procedure automatizzate): chi osserva, ed osservando controlla, detiene oggi il potere. Da un lato, questa tecnologia non costituisce, come si sente spesso cantilenare, un mezzo neutrale, essendo espressione quintessenziale dell’ideologia “progressista” (nichilista, diremmo): l’artificio non costituisce un elemento accessorio del sistema, ma è l’espressione precipua della sua Weltanschauung; dall’altro, è bene distinguere nettamente tra tecnologia come manifestazione della quantitativa “ragione calcolante”, finalizzata al dominio delle masse, e “tecnica” tradizionale quale “saper fare” qualitativo, tramandato dalla tradizione ad uso comunitario.
Kaczynski afferma: “Nella nostra società […] gli individui non soddisfano i propri bisogni psicologici in autonomia, bensì funzionando come parti di un’immensa macchina sociale. Al contrario, l’autonomia di cui le persone godono nello svolgimento delle proprie attività sostitutive appare massima” (p. 52); questo squilibrio, questa inautenticità sarebbero all’origine delle patologie depressive, per eccesso o assenza di sforzo (p. 61) e per coscienza più o meno profonda dell’assenza di senso (in quanto destinazione e significato) dell’esistenza: “una prolungata incapacità di conseguire i propri obiettivi [non indotti, n.d.a.] nel corso della vita porta […] alla depressione” (p. 48), che è l’abbandono della lotta che costituisce la vita, e quindi l’abbandono della vita stessa, la resa all’artificio. Questa subdola patologia, ormai tratto caratterizzante la Stimmung di Occidente, potrebbe quindi essere strutturalmente connessa alla assenza di libertà reale (che in qualche modo inibisce la volontà), di cui è manifestazione palese la “fabbrica delle necessità” su cui si fonda la cd. “economia di mercato” neocapitalistica: il bisogno indotto, ovvero la percezione di un bisogno reale, è artatamente stimolato dalla “creazione” di domanda da parte dei “persuasori occulti”, che condurrà ad un consumo parossistico di merci superflue, inutili o addirittura nocive. Una tale economia, d’altra parte, costituisce la continuazione della guerra moderna con altri mezzi, sia perché si basa sul principio della competizione senza freni, sia perché le sue forme ed i suoi strumenti sono stati costruiti a partire da modelli militari.
Le “attività sostitutive”, definite come “obiettivi artificiali” che le persone che non hanno bisogno di sforzarsi per soddisfare i propri bisogni elementari si impongono surrettiziamente (p. 49), sembrano analoghe al “surrogato” (Ersatz) marxiano, che conduce alla alienazione ed alla soggezione, e quindi è specifico del mondo moderno: “l’uomo moderno si trova a dover soddisfare le proprie necessità relative al processo del potere attraverso bisogni artificiali creati dall’industria pubblicitaria e del marketing, e tramite attività sostitutive” (p. 62). Ciò ricorda anche le riflessioni evoliane sull’artificiosità del cd. “tempo libero”, “divertimento” tramite cui l’uomo moderno tenta di “evadere” da un lavoro e da una realtà alienanti. Anche l’ideologia può configurarsi come “attività sostitutiva” (p. 84), e tuttavia “non è un’ideologia a guidare il sistema, bensì la necessità tecnica” (p. 95) universalmente omologante (p. 95 n. 27); a nostro parere, invece, l’ideologia che fonda la “necessità tecnica” è quella del progresso, le cui parole d’ordine (ed operazioni) della scienza e dell’economia di mercato non possono essere messe in discussione. Interessanti risultano anche le riflessioni dell’A. sul tipo psicologico dell’uomo di sinistra, posseduto dall’ideologia (pp. 33-34; pp. 155-165) e prossimo al patologico.
Oltre che l’artificio, la virtualità di una società fondata sul ni-ente e la percezione accelerata del tempo (latori di angosce) costituiscono due tratti essenziali della modernità. L’acquisto di una (o più) auto, di un cellulare (con tutto quello che ne deriva), di un pc, di una TV, di una connessione ad internet — rendendo “confortevole” e velocizzando la vita e la raccolta e trasmissione di dati –, non costituiscono opzioni libere, ma, di fatto, sono obblighi socialmente indotti, rifiutando i quali si è emarginati dalla collettività e dalle relazioni (in buona parte anche dal “mondo del lavoro”): i mezzi di comunicazione e di trasporto, che hanno carattere “totalitario”, da un lato tendono a “sovrasocializzare” (pp. 41-46: la sovrasocializzazione essendo, secondo l’A., uno degli attributi fondamentali dell’uomo di sinistra) chi ne fa uso — col risultato di scatenare dapprima inibizioni, volizioni e sentimenti socialmente determinati, per far inevitabilmente emergere poi gli sfoghi delle nevrosi le più varie –, dall’altro, paradossalmente, rendono gli uomini più lontani tra loro (p. 102). L’incomunicabilità, come è noto, non è solo caratteristica precipua del mondo attuale – per cui non ci si sente amati e si ha l’impressione di non aver vissuto pienamente –, ma costituisce anche uno strumento attraverso cui il sistema di potere attuale agisce più efficacemente sulla monade neoliberale, imbrigliandola nella rete di “surrogati” che irretisce la persona, essenzialmente sola nella folla anonima.
Inoltre, la “immensa macchina sociale” ha trasferito il potere, tramite la cd. “deregulation”, dagli Stati alle grandi multinazionali, inaccessibili perché apolidi e senza volto, che controllano ubiquamente tramite ristrettissime élites la società, prevedendone e indirizzandone gli sviluppi (p. 65 e n. 61); e sono proprio i fini del dominio, anche attraverso la previsione e la sperimentazione (si pensi agli esperimenti di ingegneria sociale, di cui quello relativo al Covid-19 è stato esempio palese), a caratterizzare dapprima la magia, e quindi le sue “evoluzioni” in scienza e tecnologia quali ideologie diffuse. Ad es., “i contenuti dei programmi di intrattenimento si configurano come una potentissima forma di propaganda” (p. 68), che induce “le persone a desiderare quanto già per esse è stato confezionato” (p. 94), ciò che ricorda le elaborazioni del Debord de La società dello spettacolo (pubblicità e immagine come mezzo di “conquista delle coscienze”, e quindi di controllo, nelle società “democratiche”). D’altra parte, Braudel ha acutamente scritto che la Rivoluzione industriale non fu altro che “una trasformazione dei desideri” (Civilization and Capitalism, vol. II [The Wheels of Commerce], NYC 1982, tr. it. p. 183): con il che, si avviò il processo che ridusse l’uomo ad una “macchina desiderante” (Baudrillard). Se l’uomo è una macchina desiderante, mero ingranaggio di una enorme macchina sociale, che a sua volta costituisce un gigantesco sistema di desideri artificialmente indotti (ma la natura del desiderio sta proprio nella impossibilità di essere soddisfatto!), l’esito della ciclotimia di massa non è poi così inspiegabile.
Pure, il permissivismo concesso “in ambiti irrilevanti rispetto al funzionamento del sistema” è ordinato al mantenimento dell’ordine neocapitalistico (ibidem), ma la tecnologia — espressione della società industriale contemporanea, che l’A. ritiene immodificabile coi mezzi del riformismo tradizionale (pp. 90-91) — resta il nemico fondamentale dell’autentica libertà (p. 80; pp. 92-97), sapientemente e rigidamente circoscritta dai “padroni del discorso” (panem et circenses in cambio di autonomia: si pensi ai vacui divertissements dell’ambiguo mondo LGBT+). La libertà non è comfort o benessere (p. 103 n. 30), che anzi ottundono la mente e svuotano la volontà, rendendo schiavo chi si crede libero (Seneca).
Quella di Kaczynski, sebbene spesso penetrante, è però una elaborazione monca, comprensibilmente reattiva e distruttiva, ma che sceglie consapevolmente di non dotarsi di una pars construens “politica” (p. 32) e “trascendente”, che assuma il peccato originale come origine del divenire. L’esito “positivo” della rivolta non può certo consistere in un primitivismo antistatuale che nega la storia: è proprio qui che si manifesta la tragica impossibilità di una rivoluzione auspicata (e auspicabile), ossia nella incomprensione del dato che sono le idee a fare la storia. D’altra parte, l’A. non sfugge (non può sfuggire) ai limiti del paesaggio culturale statunitense, un contesto-recettore che inevitabilmente deforma o limita ogni tentativo autenticamente “radicale” entro il proprio universo ideologico; inoltre, l’irrefrenabile chiacchericcio dei media relega immancabilmente posizioni pure acute (e coraggiosamente coerenti sino al limite delle possibilità umane) nelle secche dell’irrilevanza e della stravaganza (quando non della criminalità, come in questo caso). L’A. si è detto esser stato ”costretto” ad uccidere (p. 82), per dare una visibilità, altrimenti non conseguibile, alle proprie tesi: cavalcando così la tigre dei media, che però, di rimando banalizzando e guardando consapevolmente al dito e non alla luna, riescono a “satanizzare” (a ridicolizzare, a ridurre allo psicopatologico) i critici più radicali del sistema col potere incontrastato dello storytelling e dell’immagine. “Unabomber” ha combattuto e perso una battaglia che non si poteva vincere; ma, nonostante tutto, è ancora dentro di noi.
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