Parlare di Ray Bradbury significa far correre subito il pensiero ai suoi due capolavori, Cronache marziane (1950) e Fahrenheit 451 (1953), anche se lo scrittore, deceduto ieri a Los Angeles a quasi 92 anni (li avrebbe compiuti il 22 agosto), ha avuto una carriera più che settantennale (avendo esordito a 21 anni nel 1941, su Weird Tales) nel corso della quale ha pubblicato storie di tutti i generi, e non solo quel particolare tipo di fantascienza che a suo tempo si definì «umanistica», comunque tutte caratterizzate dal suo tocco personale, dal suo stile unico, evocativo, dalla singolare aggettivazione che avvolge il lettore senza che se ne accorga.
Con lui scompare uno degli ultimi rappresentanti (è ancora vivo Frederik Pohl, classe 1919) della grande e irripetibile «età d’oro della fantascienza». Pochi lo sapevano, ma negli ultimi anni era bloccato su una sedia a rotelle, però continuava a scrivere con regolarità pur se per interposta persona: ogni mattina per tre ore dettava telefonicamente alla figlia Alexandra, perché non poteva più usare la sua vecchia macchina da scrivere meccanica a causa di un malanno al braccio.
A suo tempo, negli anni Cinquanta-Settanta, ciò che colpì di Bradbury fu la visione malinconica e tragica del destino dell’uomo contemporaneo e futuro preda della massificazione totale, dello sradicamento dell’Io individuale e della sua personalità, succube di una macchinificazione della vita, intendendo con questo non solo i marchingegni meccanici e robotizzati, ma anche la virtualità che in America si stava già imponendo a metà del Novecento, mentre da noi ci si sarebbe accorti di tutto questo soltanto a partire dagli anni Ottanta con il moltiplicarsi dei canali televisivi. Non c’è dunque da meravigliarsi che lo scrittore nei suoi ultimi interventi pubblici se la sia presa con gli aggeggi elettronici che hanno invaso la nostra vita e la condizionano. «Abbiamo troppi telefonini. Troppo internet. Dobbiamo liberarci di quelle macchine», ha detto in un’intervista per il suo novantesimo compleanno al Los Angeles Times. Perché meravigliarsene, come fece a suo tempo qualcuno? È la logica conseguenza delle critiche che alle «macchine», anche se di altro genere, Bradbury ha fatto in tutte le sue opere e specialmente in Fahrenheit 451: anche cellulari, iPad, iPod, lettori elettronici, smartphone lo sono e producono conseguenze. Delle chat e di Facebook ha detto: «Perché tanta fatica per chiacchierare con un cretino col quale non vorremmo avere a che fare se fosse in casa nostra?». La sua crociata contro i deficienti e l’incultura risale ai primordi della sua carriera. Un precursore di certe critiche oggi comuni, insomma.
Tutto sta in quel capolavoro antiutopico che è appunto Fahrenheit 451. Un libro che è l’esaltazione dell’uomo e della cultura vera dell’uomo, quella trasmessa dai libri e non dalle finzioni virtuali della televisione. Già nel ’51-53 Bradbury immaginava schermi grandi come una parete e la vita falsa che trasmettevano tramite quelle che oggi si chiamano sitcom e vanno avanti per decenni quasi fosse una realtà parallela a quella del telespettatore, o reality show dove la gente comune diventa protagonista attiva (tema, questo, di molti suoi tragici racconti come il famoso La settima vittima). È contro la pandemia televisiva che lo scrittore si scaglia in difesa di un altro tipo di cultura che questa cercava di sommergere e annullare, e non aveva affatto di mira il senatore McCarthy o una specifica dittatura parafascista o paranazista, come volevano dare a intendere certi critici «impegnati» qui in Italia. Fu lo stesso scrittore, con grande delusione di certi suoi fans, a confermarlo: nel 2007, sempre in un’intervista al Los Angeles Times, affermò che il suo famoso romanzo non si doveva interpretare come una critica alla censura o specificatamente al senatore McCarthy, perché era piuttosto una critica alla televisione e al tipo di (in)cultura che essa trasmette. Insomma, Bradbury ce l’aveva e ce l’ha avuta sino all’ultimo, contro la pseudo-informazione, la pseudo-vita, gli pseudo-fatti, quelli che Gillo Dorfles ha battezzato «fattoidi», e che sono ormai la «normalità» delle tv di tutto il mondo, specie in Italia.
In un’altra intervista ha detto: «I libri e le biblioteche sono davvero una parte importante della mia vita, perciò l’idea di scrivere Fahrenheit 451 è stata naturale. Io sono una persona nata per vivere nelle biblioteche». Scoramento profondo, quindi, di tutti i suoi lettori e analizzatori progressisti: nessuna motivazione politica e/o ideologica dietro il famoso romanzo strumentalizzato in tal senso per decenni, anche se, leggendo bene quel che Bradbury scriveva, non era affatto impossibile afferrarlo. Tanto è vero che spesso, negli Stati Uniti, Bradbury si è platealmente irritato quando qualcuno gli voleva spiegare quel che aveva scritto, le sue intenzioni. Come si vede, la tanto apprezzata e semplicistica equivalenza fantascienza/progressista e fantastico/reazionario è una solenne sciocchezza, anche se purtroppo ancora qualcuno ci crede, magari forzando le tesi espresse dagli scrittori nelle loro opere. Bradbury è sempre stato sostenitore di una cultura umanistica e ci ha dato una fantascienza di questo genere con veri e propri capolavori: ma non sta scritto da nessuna parte che ciò sia sinonimo di progressismo ideologico e politico.
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Tratto da Il Giornale del 7 giugno 2012.
ekaros
Quando dall'alto vidi che ogni parola era vana,perche non mia ma degli enti di cui io ero composto,capii l'errore e il vicolo chiuso in cui mi muovevo…. E quindi entrai nel silezio…
E vidi il limite di ogni forza di cui ero composto e a cui avevo creduto…
E nel silenzio tutto si mostrò di una lucidità sublime…
E vidi la sogente che animava il tutto,e capii l'errore del limite in cui ero caduto…
Ero dominato dal limite,ma ora mi accorgevo sempre di più che il limite non era altro che uno dei tanti servitori di quella perenne sorgente luminosa che ora mi sorreggeva oltre gli angusti confini a cui ero assoggettato.