“Il grano cresce se Stalin lo guarda!”. Quel russo dalla lunga barba profetica che all’inizio degli anni Novanta recitava una curiosa filastrocca in onore di Iosif Dzughasvili (Stalin) sui gradini della Chiesa di Sant’Atanasio in via del Babbuino ogni tanto alzava gli occhi acquosi al cielo e reiterava il gustoso ritornello: “Il grano cresce, se Stalin lo guarda!”. Era sicuramente ubriaco: non solo per i concetti che cantilenava, ma anche perché, scambiando il giovinetto che aveva di fronte per un fedele comunista, non esitò a gridare “Tieni, compagno!” e ad offrire una copia della poesia a chi in realtà lo guardava con patetico disprezzo. “Il grano cresce, se Stalin lo guarda!”; quindici anni dopo aver buttato via il foglio regalatomi dal bolscevico ebbro di via del Babbuino, quel ritornello mi ritorna in mente ora che esce il libro di Donald Rayfield su “Stalin e i suoi boia” (Garzanti, maggio 2005): a pagina 11, sotto il titolo del primo capitolo, l’autore riporta un’altra poesia dedicata a Stalin, stavolta da un poeta autentico, Pavel Vasiliev. Ovviamente fucilato nel 1937. “O musa, canta oggi di Dzughasbvili, il figlio di puttana,/ egli ha magistralmente unito la testardaggine del mulo e l’astuzia della volpe,/ tagliando un milione di cappi si è fatto strada verso il potere”. Si può immaginare il tono con cui prosegue questa litania irriverente; si può capire anche quanto sia falsa l’aura di “signore della fecondità”, “padre della terra russa”, che vecchi nostalgici russi o nuovi “eurasiatisti” nostrani amano ritagliare attorno alla testa baffuta di Iosif. Il grano non cresceva affatto quando Stalin lo guardava: nel 1939, venti anni dopo il trionfo della rivoluzione, le condizioni del settore primario dell’U.R.S.S. secondo statistiche certe lasciavano rimpiangere i raccolti della Russia zarista. In compenso cadevano falcidiati a milioni – sotto lo sguardo di Stalin… – i contadini russi, gli Ucraini ridotti alla fame e al cannibalismo. Alcuni dicono che Hitler fosse uno squilibrato perché voleva conquistare il mondo. Più pacatamente si può ribattere che Hitler mancava di equilibrio perché se ne avesse avuto non avrebbe attaccato l’U.R.S.S.: avrebbe atteso che cadesse tra mani teutoniche come una mela marcita.
A proposito dei due dittatori (alleati tra loro nel fugace preludio alla seconda guerra mondiale), scrive opportunamente Rayfield: “Lo studio parallelo di Stalin e Hitler risulta spesso fuorviante. Le differenze sono notevoli come le somiglianze. I nazisti avevano un rapporto simbiotico con l’industria e l’esercito tedeschi e la loro aggressione omicida era diretta ad altri, che fossero slavi o ebrei, omosessuali o comunisti. Un comune cittadino tedesco con enormi paraocchi, pur tenendo conto degli orrori della guerra totale, avrebbe potuto vivere… L’aggressione di Stalin si abbatté invece sui suoi simili: contrario a muovere guerra ai vicini, uccise i suoi generali, la sua èlite di professionisti, persino la propria famiglia, persone dalle quali dipendevano la sua vita economica e politica”. Dopo la caduta dell’Impero Comunista, a Mosca, i nostalgici del “Comunismo” e i nostalgici dell’”Impero” si sono trovati d’accordo nel “riabilitare” Stalin, spogliandolo delle vesti di esecutore del marxismo-leninismo, e presentandolo come un nazionalista russo, come uno statista fondamentalmente animato da impulsi patriottici e misticheggianti (!). Questo giudizio è rimbalzato su alcune riviste italiane di nicchia, dove è stato rilanciato a caldo da certi “pensatori” che in odio all’Occidente sarebbero capaci di rivalutare anche Attila e Gengis Khan. Ovviamente il giudizio sa di vodka, di vinaccia andata a male, esattamente come la poesia sul grano. E’ vero che il dittatore georgiano trasformò il marxismo in una mera sovrastruttura ideale del nazionalismo slavo, ma è anche vero che degli slavi fu il boia, più che il padre. Prima di Stalin (e di Lenin e di Trotzsckij) la Russia aveva speranze, dopo di lui (e dei suoi compagni di rivoluzione) solo macerie morali e desolazione materiale. Si dice che ogni nazione ha i capi che si merita, ma su questo punto Rayfield chiarisce il suo pensiero: “Ogni paese ha un retaggio che gli eredi non possono rinnegare con facilità, ma il destino della Russia del XX secolo non può essere liquidato come quello di un paese barbaro e semifeudale che esplose in una violenza primordiale. Dal punto di vista economico, la Russia del 1900 e del 1910 era rimasto indietro rispetto al resto dell’Europa e le sue istituzioni politiche avevano enormi difetti. Ma la cultura che donò al mondo romanzieri del calibro di Dostoevskij e Tolstoi aveva anche storici, magnati della stampa, filosofi, avvocati, dottori e politici come qualunque altro paese. Aveva una classe meda e professionale esigua ma assai motivata e un ceto nobile e mercantile che non aveva perso la sua coerenza sociale. La Russia del XIX secolo era più brutale, corrotta e ignorante dell’Inghilterra e della Francia, ma non di molto. Quello che subirono le vittime innocenti dell’Unione Sovietica non era tipico dei regimi totalitari: la differenza sta nel fatto che gli orrori si consumarono in patria e colpirono gli individui della stessa nazionalità”.
Alla luce di tali considerazioni potrebbe acquisire valore l’interpretazione biografica che insiste sulla natura psicopatologica del personaggio, e dei volenterosi sudditi che lo attorniarono. Rayfield in effetti propende per questo genere di analisi. Tuttavia liquidare un personaggio storico come “pazzo”, lascia sempre un po’ insoddisfatti chi si attende dalla storiografia spiegazioni, tentativi di “razionalizzazione” del reale. Più che della pazzia, l’indole di Stalin appare come espressione di un contesto sociale per certi versi inesplicabile alla mentalità dell’Europa. Un contesto sociale segnato da rapporti di sudditanza assoluta o di ribellione furiosa, nella quale i capi devono trattare come nemici gli stessi popoli che ad essi si affidano. Per quanto siano valide le puntualizzazioni di Rayfield sulla situazione pre-1917, rimane tuttavia il fatto che la storia russa molto spesso ha ballato intorno a questo vulcano di smisurata violenza. E si possono apprezzare quei sovrani, quei riformatori (come il conte Vitte o al limite lo stesso Rasputin contrario all’avventura bellica del 1914) che cercarono di introdurre in essa barlumi di “misura”: piccola e media proprietà, attività industriale, equilibrio tra diritti-e-doveri individuali, sobrietà nel sentimento religioso, rapporti pacifici con gli Stati vicini. Stalin non fu tra costoro. Per tale motivo, adesso, soli lo osannano gli ammiratori di Attila e Tamerlano.
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La pubblicazione sul sito del Centro Studi La Runa di questa recensione originariamente apparsa sul quotidiano diretto da Gennaro Malgieri, L’Indipendente, richiede un chiarimento. La polemica contro gli “eurasiatisti” che pervade tutto l’articolo non deve essere affatto confusa con una ostilità nei confronti della Russia o del mondo slavo in generale. Chi scrive ritiene anzi proficua ogni forma di integrazione politica, economica, militare tra le nazioni dell’Europa “latino-germanica” e l’area che trova nella Russia la sua parte preponderante. Ovviamente si auspica che questa integrazione segua gli orientamenti di un rinnovato spirito europeo e non rappresenti una deriva verso l’Asia. Noi non condividiamo i vecchi pregiudizi di un Rosenberg, ma neppure idolatriamo la storia e le tendenzialità russe: la sobrietà del pensiero logico, l’etica del lavoro quotidiano, il forte senso della personalità individuale, l’impulso alla chiarezza che non viene meno anche nel dominio religioso e crea un argine ad ogni misticismo sono valori dell’autentico spirito europeo che si vorrebbe veder diffusi anche nell’area della Rus’. I cosiddetti “eurasiatisti” rappresentano nel panorama della cultura politica italiana una inevitabile reazione all’estremismo degli occidentalisti “neo-cons”, ma il guaio è che essi sono troppo “asiatisti” e per nulla “europei”.
Alcuni esaltano il principio biologico del Sangue (il Blut) e sono portati a fraternizzare con i commercianti di Vancouver perché hanno gli occhi azzurri, ma questi altri idolatrando il Suolo (il Boden) arrivano a concepire unità e com-unità che nella realtà storica non esistono. Si può teorizzare un grande impero di Eurasia-Islam, sta di fatto però che gli Islamici non concepiscono alcuna fraternità “euroasiatica”, ma solo la distinzione tra devoti di Allah e nemici (con la zona grigia dei sottomessi). Alcuni eurasiatisti sono di fede islamica, tanto vale che dichiarino apertamente il loro intento: la sottomissione dell’Europa all’Islam. Altri eurasiatisti sono invece cristiani, magari russofili: credono forse che i seguaci della legge coranica o i pratici cinesi tutto a un tratto si invaghiscano dei misticismi di Soloviev?
Certo, che si giunga un giorno a una sorta di tavolo permanente in cui siedano pacificamente le grandi potenze della massa continentale è auspicabile. Ma pensare che lo stile di vita dei tartari, degli armeni, dei collettivisti cinesi, dei wahabiti dell’Arabia possa rappresentare qualcosa di “condivisibile” da parte degli Europei è un idea che è difficile digerire. L’Europa non è un’appendice dell’Asia, non esiste nessuna “unità trascendente delle tradizioni” che possa giustificare una islamizzazione o una mongolizzazione del continente. La sintesi di scienza e spiritualità, di alta tecnologia e valori “arcaici” è la meta che l’Europa ha davanti a sé. Il senso dell’individualità, i principi del Logos, l’amore per la natura, per la donna e per l’arte intese come manifestazioni della bontà divina sono valori che connotano la nostra morfologia di Europei. Valori non diluibili.
Quanto agli ambienti russi che con orgoglio hanno ripreso il tema della III Roma, sarebbe bello che essi si impegnassero a diffondere nella Santa Madre Russia i valori dell’unica e autentica Roma: quella di Cesare e di Virgilio, dei pensatori sobri e razionali, degli efficienti creatori di città e colonie. La “Roma” delle processioni ortodosse, dei mistici in overdose di incenso e vodka, la “Roma” che si rassegna all’avverarsi della cupa profezia di Maometto mettiamola pure da parte.
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Pubblicato su L’Indipendente del 22 luglio 2005.
Donald Rayfield, Stalin e i suoi boia. Un’analisi del regime e della psicologia stalinisti (IBS) (BOL)
evoliano
Non posso che concordare,al giorno odierno,nell'area nazbol,poi,che divide tutte le forze del mondo in "atlantisti" e "eurasiatisti",si parla tanto di Stalin,mostrato come un santo ed un eroe, arrivando a dire che egli sterminò"la vecchia guardia lenininiana"(composta da Bucharin,Zinoviev,e tutti quelli che con Lenin avevano fatto la rivoluzione)non perchè paranoico ma perchè aveva riconosciuto in essa degli atlantisti!E che addirittura Stalin (dopo Lenin)intendeva liberare l'Europa ma che non ce la fece sempre per gli atlantisti;si può ben vedere quanto stupide siano le loro teorie specialmente quest'ultima dato che sappiamo come liberò il continente europeo il dittatore.