“…una guerra totale contro l’apparato
sovversivo marxista che rappresenta
l’incubo del mondo moderno e ne
impedisce il naturale sviluppo”.
Pio Filippani-Ronconi era reduce da una esperienza di guerra intensa e tuttavia scevra da furore ideologico. Il suo arruolamento nella Legione di Volontari delle SS italiane aveva avuto meno il significato di una dichiarazione di fede nazional-socialista che non di una testimonianza di fedeltà ghibellina agli ideali della alleanza tra i popoli tedesco e italiano, nel momento in cui a guerra in corso tale alleanza risultava sovvertita.
Nel corso di tutto il dopoguerra, coerentemente con tale premessa, il conte si sarebbe tenuto in disparte da quegli ambienti che lucravano (modeste) fortune elettorali sulla memoria del Duce, o sulla ripetizione degli slogan socialistici del fascismo della fine. Dal punto di vista del ragionamento politico Filippani esprimeva le sue perplessità riguardo al tentativo di perpetuare un partito-ghetto di nostalgici; dal punto di vista spirituale combatteva con vigore i tentativi di “politicizzare” la ricerca esoterica. Nell’ottica di Filippani, non era da un cambiamento di sistema politico che doveva attendersi l’impulso a un rinnovamento esistenziale (individuale, o collettivo), bensì da una autentica Scienza dello Spirito capace di orientare l’individuo verso le esperienze superiori dell’anima. D’altra parte, non essendo un anti-moderno egli non pativa quell’atteggiamento di terrore nei confronti dell’ “età del ferro” (l’età degli uomini abbandonati a se stessi dagli Dei, posti dunque di fronte alla prova dell’indipendenza) che tanti casi di auto-emarginazione aveva suscitato nell’ambiente del tradizionalismo integrale.
Il ritorno alla vita civile, dopo un breve periodo di prigionia militare, non coincise pertanto con il tempo della nostalgia e del ripiegamento su se stessi. Leggiamo da un sito internet, che in maniera sinistra ne ricostruisce la biografia a partire dal dopoguerra: “Ufficialmente è impiegato, con diversi gradi via via che passano gli anni, all’ufficio radiodiffusione per l’estero della presidenza del consiglio; ma lavora per i servizi segreti: fa il traduttore e, grazie alla sua conoscenza del sanscrito, diventa un grande esperto in decriptazione di messaggi intercettati dai servizi italiani. All’inizio degli anni Cinquanta compie una missione in Persia, con il compito di raccogliere informazioni politiche e militari nell’area. Collabora anche con i servizi di sicurezza dell’America Latina : intorno al 1950 produce ad esempio uno studio sulla situazione politico-militare della Bolivia, “prevedendo una rivoluzione che scoppiò di lì a pochi mesi”. Nel 1959 comincia una carriera accademica di tutto rispetto all’Istituto Orientale di Napoli. Ma continua a lavorare per i servizi segreti almeno fino alla metà degli anni Settanta (così ammette egli stesso nel 1995, in uno degli interrogatori a cui è sottoposto nel corso delle ultime indagini sulla strage di Piazza Fontana). La notizia biografica può essere integrata osservando:
a. che già prima della guerra, giovanissimo studente universitario, per la sua padronanza delle lingue Filippani era stato impiegato alla filodiffusione per l’estero come lettore di radiogiornali in lingua straniera.
b. che già durante la guerra una sua certa capacità di intuizione era stata messa a profitto per individuare postazioni nemiche ed eventuali movimenti.
c. che la ragione dei ripetuti viaggi di Filippani in Persia non è forse del tutto estranea alla circostanza che egli sia stato uno dei più autorevoli studiosi dello zoroastrismo, delle correnti sciite ismailite, della civiltà iranica in generale.
d. che gli interrogatori sulle stragi hanno escluso qualsiasi forma di coinvolgimento, come peraltro riconosce lo stesso sito internet citato (“Indagato no, non ha mai ricevuto alcun avviso di garanzia”).
Precisazioni a parte, dalla sintesi biografica emerge l’immagine di un uomo d’azione, dalle qualità non comuni, indifferente alle sirene della mobilitazione politica, ma deciso ad offrire il proprio contributo a quel fronte articolato che si opponeva alla marea del comunismo, sia detto per gli immemori: il sistema totalitario più brutale dell’età moderna.
Gli anni Sessanta si erano aperti con l’edificazione del Muro di Berlino, che poneva il sigillo sull’universo concentrazionario dell’Est. Già qualche anno prima gli Ungheresi, i Polacchi, i Tedeschi dell’Est erano insorti inutilmente contro il regime di Stalin, e Bertold Brecht, cantore della liberazione marxiana del mondo, aveva inneggiato alle mitragliate dei Vopos sulla classe operaia in rivolta. L’impero rosso copriva l’immensa distesa dell’Heartland: la roccaforte del mondo, ovvero la distesa eurasiatica individuata dai maestri della geopolitica come centro strategico del pianeta. Bandiere rosse sulla Romania, che tra le due guerre aveva vissuto una felice stagione culturale; sulla Ungheria dove ancora erano visibili le realizzazioni dell’amministrazione asburgica. Sull’Ucraina che per due volte aveva accolto i Tedeschi più come liberatori che come nemici. E mentre nell’Oriente asiatico il “grande balzo in avanti” di Mao spingeva nella fossa cinquanta milioni di cinesi, nell’Est europeo identità culturali venivano annullate, popoli smembrati, cancellati, stretti in catena. Sotto il tiro dei mitra risorgevano gli Stati fantoccio del 1919: la Cecoslovacchia – convivenza coatta tra Boemi e Slovacchi –, la Jugoslavia, mostruosa concentrazione di genti germanizzate (i Croati), mussulmani di Bosnia e Kosovo, di slavi delle montagne. L’esempio della Jugoslavia, pur riottosa al dominio di Mosca, suscitava una particolare impressione sugli Italiani onesti. Il comunismo slavo passava come un rullo compressore sulle coste e sulle isole che da Ragusa a Capodistria per secoli avevano goduto dell’azione civilizzatrice di Venezia. Nomi di città tutto a un tratto cambiavano, la terra inghiottiva i corpi senza riuscire a nascondere il sangue. E in fondo, le perdite imposte dalla immutata legge di Brenno furono contenute. I comunisti italiani nel 1945 avrebbero voluto che non solo Trieste ma la stessa Venezia fossero offerte all’ingordigia jugoslava-comunista. L’ideologia rendeva indifferenti di fronte alla eventualità che le madri di Venezia subissero il medesimo oltraggio delle donne di Berlino.
Il comunismo che era stato concepito da Marx alla metà dell’Ottocento ed era fallito come idea già alla fine dello stesso secolo, imposto a mezzo mondo da Lenin e da Stalin, radunava una umanità composita: il caudillo di Cuba, dedito alla gestione del turismo sessuale e del traffico di stupefacenti, il medico argentino Guevara de la Serna che proprio nelle carceri di Cuba sperimentava i propri metodi di tortura; la miriade di popoli, etnie, tribù che dalla pianura russa fino al fiume giallo accettavano in fondo il comunismo perché mai avevano sperimentato nella loro storia il clima delle libertà individuali.
Su popoli di consolidata civiltà l’ Uomo Nuovo di Stalin attecchiva come un fenomeno di corruzione antropologica. I Tedeschi dell’Est un tempo erano i Prussiani e sotto il loro tacco tremava la terra. Per qualche decennio la Repubblica Democratica Tedesca fu il più efficiente regime dell’Est: indubbiamente non per gli effetti della ideologia, ma per le doti della sua etnia. Il sangue però non può compensare la corruzione dello spirito. Quelli che un tempo erano i Prussiani in pochi decenni sarebbero divenuti gli “Ossi”, gli indolenti Orientali che oggi se ne stanno seduti sull’uscio di casa a stendere la mano in attesa di una elemosina da parte dello Stato sociale.
Chi è nato negli anni in cui Mister Gorbaciov era costretto a dichiarare bancarotta e la centrale di Cernobyl vomitava sul mondo gli ultimi veleni del socialismo realizzato stenta a capire il clima che si respirava negli Stati d’Europa del dopoguerra. Certo sul fuoco del pericolo comunista soffiava l’America e lucrava i vantaggi di una divisione del mondo che essa stessa aveva propiziato, ma il pericolo c’era. Una maggioranza di persone tutto sommato avvedute, operose, equilibrate (la cosiddetta “maggioranza silenziosa”) avvertiva in Europa il pericolo; una minoranza chiassosa lo esaltava, muovendosi nelle strade come un immenso serpentone ipnotizzato. Ancora oggi, dalla geenna della storia, la sirena comunista continua ad ammaliare le menti dei più offuscati.
L’ipnosi oscurava anche intelletti non banali: e se nel 1954 Scalfari pronosticava l’imminente sorpasso dell’URSS sugli USA nel campo della produzione industriale e del benessere, per Moravia le file davanti ai negozi alimentari a Mosca erano preziosi momenti di socializzazione e per Ingrao Mao-Tse-Tung non era un serial killer di milioni di compatrioti, ma semplicemente un poeta.
Il fatto che le bombe atomiche di USA, Inghilterra, Francia creassero un deterrente all’armata rossa non impediva all’arma non convenzionale dell’ideologia di infiltrarsi in tutte le vene della società civile. Il PCI affermava con orgoglio di essere la quinta colonna di Mosca. Del resto l’URSS pagava bene i propri dipendenti e concedeva anche qualche soddisfazione: l’onesto Berlinguer quando inventò l’“eurocomunismo” e quando dichiarò di accettare le rassicurazioni offerte dalla NATO chiese ed ottenne preventiva autorizzazione da Mosca. Intanto i sindacati nel 1969 candidamente confessavano che l’obiettivo delle loro lotte era la distruzione del sistema produttivo; i giudici politicizzati teorizzavano la “giustizia di classe”; i professori di storia negavano il più immenso genocidio di tutti i tempi perpetrato dall’Istria fino alla Cambogia di Polpot.
Al di là dei ristretti ambiti militari si poneva pertanto un duplice problema:
1. Combattere all’interno della società civile la penetrazione della ideologia comunista.
2. Valutare il caso estremo di una invasione da Est, o di un’insurrezione su larga scala promossa dall’Est, articolando i termini di una possibile difesa e risposta. Parade e Reponse per dirla alla francese, ma si sarebbe anche potuto dire: resistenza e contrattacco. Edgardo Sogno, capo partigiano antifascista, fu tra i più attivi sostenitori di una nuova resistenza, per questo non mancò di diventare il bersaglio di certi ambienti che ramificavano la loro influenza nei settori della magistratura e del giornalismo.
I medesimi ambienti avrebbero utilizzato strumentalmente per anni gli atti del convegno tenuto all’Hotel Parco dei Principi nel 1965 dal centro studi strategici intitolato ad Alberto Pollio. Convegno che vide nella relazione di Pio Filippani-Ronconi uno dei momenti più significativi.
Indubbiamente in un paese in cui la connivenza col nemico, spesso pagata,a volte addirittura gratuita e l’alto tradimento nei confronti del proprio Stato vengono scusate, mentre al contrario i membri di uno struttura regolare della NATO dalle ovvie finalità vengono inquisiti è più facile capovolgere l’interpretazione storica. Ma se è vero che mandanti ed esecutori delle stragi dal 1969 al 1984 rimangono avvolti in una nube oscura, se è anche vero che è lecito ipotizzare responsabilità diverse – anche, forse soprattutto, internazionali – se è anche possibile pensare che alcuni fanatici neofascisti strumentalizzabili abbiano fatto in qualche caso da manovalanza è cento volte più vero che dopo ogni strage a partire dagli anni Settanta scattava un copione fisso come il rituale di una religione di stato: sciopero generale, mobilitazione antifascista, deputati democristiani e comunisti insieme sul palco. Si creava nel paese un’immensa “tensione”, una tensione elettrica che riduceva in cenere le aspirazioni politiche di ogni gruppo marcatamente o vagamente “nazionale”, mentre affermava l’imperativo categorico – come un “Vincere!” d’altri tempi – del compromesso storico, ovvero dell’assimilazione dei comunisti al governo. Con questo non si vuole affermare una pista dell’Est per le stragi: non ci sono le prove, mentre vi sono le prove di una regia dall’Est per le imprese delle Brigate Rosse fino all’assassinio di Moro e per l’attentato a Wojtila. Si vuole semplicemente fare una constatazione: in un paese in cui l’opinione pubblica era fortemente sollecitata dai mezzi di comunicazione (che erano strumenti nelle mani dei partiti e dei potentati economici), tale opinione – come in un rituale – veniva orientata dopo ogni strage in direzione della assimilazione al potere del partito eterodiretto da Mosca. Detto ciò si possono immaginare mandanti di ogni colore e nazionalità, ma al di là della immaginazione ipotetica rimane la percezione dei fatti storici. Dopo ogni strage si scatenava una tensione che salvava i democristiani al governo associandoli ai comunisti, con i risultati che ne venivano: il piccolo imprenditore, spina dorsale del sistema produttivo, inciampava in mille tagliole; il militare veniva umiliato e l’esercito privato di ogni reale efficienza; le stesse forze dell’ordine venivano ridicolizzate (si pensi a tutte commedie di serie B sui carabinieri) con effetti non trascurabili; il teorico della politica critico nei confronti della Costituzione del 1948 veniva denunciato come fascista; e i politici fascisti latu senso rinchiusi in un ghetto che si sarebbe riaperto solo nel 1993 con l’avvento di Silvio Berlusconi.
Chi oggi dicesse che tutti i mali della società italiana sono causati dagli immigrati, che tutti i mali dell’economia sono causati dagli ebrei, che tutti i problemi della cultura sono dovuti all’egemonia dei comunisti verrebbe facilmente accusato di essere un mistificatore che cerca un capro espiatorio. Il “blocco” fascista-militare è stato accusato di essere il mandante delle stragi e di ogni complotto da un ampio sistema di potere politico-giudiziario-giornalistico: quel blocco ha fatto da capro espiatorio mentre il fronte politico dell’arco antifascista prendeva ogni potere. È qui il caso di dire: chi agita la teoria del complotto, è proprio lui il cospiratore! Una piccola minoranza di anticomunisti-duri è stata accusata di ogni nefandezza per imporre a una maggioranza di italiani anticomunisti-moderati l’intesa di governo catto-comunista. In questo contesto l’Istituto Pollio e il suo convegno sulla lotta al comunismo è divenuto il fulcro della demonizzazione. È passata l’idea che combattere il comunismo e volere le strage fossero i due termini di una equazione. Come se non fosse stato il comunismo essenzialmente una strage di dimensioni planetarie. L’anarchico Valpreda teorizzava apertamente la guerriglia stragista a base di bombe (“bombe, sangue e anarchia!”), ma viene oggi considerato un innocuo ballerino; invece, attraverso interpretazioni “metaforiche” dell’intervento di Pio Filippani-Ronconi si è voluto leggere in esso il manifesto della strategia della tensione.
Filippani intervenne l’ultimo giorno dei lavori all’Hotel Parco dei Principi e solo in seguito scrisse il testo del suo intervento, poi raccolto negli atti del convegno.
Sosteneva Filippani che “l’errore fondamentale delle cosiddette controrivoluzioni” è quello di aver schierato le forze “su una sola linea ideale e pratica – quindi individuale”, una linea destinata in caso di sconfitta alla distruzione totale. Bisognava pertanto operare per “preparare sin da ora uno schieramento differenziato, su scala nazionale ed europea delle forze disponibili per la difesa e l’offesa”.
A tal scopo si proponeva un sistema basato su tre livelli di organizzazione: il primo formato da individui disposti a “un’azione passiva, che non si impegni in situazioni rischiose” in grado di fungere da “schermo di sicurezza per i livelli successivi”; un secondo livello che – parole testuali dell’autore – “potrà essere costituito da quelle persone naturalmente inclini o adatte a compiti che impegnino azioni di pressione, come manifestazioni sul piano ufficiale, nell’ambito della legalità, anzi in difesa dello Stato e della Legge conculcati dagli avversari. Queste persone che suppongo , potrebbero provenire da associazioni di Arma, nazionalistiche, irredentistiche, ginnastiche, di militari in congedo ecc… dovrebbero essere pronte ad affiancare, come difesa civile, le Forze dell’Ordine (Esercito, Carabinieri, Pubblica Sicurezza ecc.) nel caso che fossero costrette ad intervenire per stroncare una rivolta di piazza”.
“A un terzo livello – aggiungeva Filippani-Ronconi – molto più qualificato e professionalmente specializzato, dovrebbero costituirsi – in pieno anonimato sin da adesso – nuclei scelti di pochissime unità addestrati a compiti di controterrore e di “rotture” eventuali dei punti di precario equilibrio, in modo da determinare una diversa costellazione di forze al potere. Questi nuclei, possibilmente l’un l’altro ignoti, ma ben coordinati da un comitato direttivo potrebbero essere composti in parte da quei giovani che attualmente esauriscono sterilmente le loro energie in nobili imprese dimostrative…
Di là da questi livelli dovrebbe costituirsi, con funzioni “verticali”, un Consiglio che coordini le attività in funzione di una guerra totale contro l’apparato sovversivo comunista e dei suoi alleati, che rappresenta l’incubo che sovrasta il mondo moderno e ne impedisce il naturale sviluppo.”
Il giudice istruttore di Milano Guido Salvini scrive nella sua sentenza-ordinanza su Piazza Fontana che nelle parole di Filippani-Ronconi si trova “una vera e propria sintesi teorico-operativa della strategia della tensione”.
Chiunque abbia frequentato un modesto corso allievi ufficiali può accorgersi invece che il discorso di Filippani-Ronconi è squisitamente militare e si riferisce a tipiche operazioni che avvengono in presenza di una insurrezione su larga scala spalleggiata da potenza nemica (e all’epoca ne avveniva una ogni anno…). Le riflessioni si inserivano in un contesto che è difficile dimenticare: la presenza dei paesi comunisti sovietici ai confini di Trieste, alle porte di Bayreuth. L’azione di un partito di massa assolutamente subordinato a Mosca. L’eventualità che per effetto di una crisi sociale, se non di una guerra guerreggiata, si potesse rompere il fragile equilibrio della coesistenza pacifica. In tale eventualità l’URSS avrebbe avuto i suoi volenterosi ascari in Italia e l’Italia un suo governo collaborazionista, di tipo bulgaro o cecoslovacco.
In questo scenario che non si è verificato (perché il sistema comunista – ben fronteggiato – è imploso all’interno prima di poter provocare una ulteriore esplosione esterna) ma che indubbiamente era ipotizzabile, si inserisce la strategia della guerra controrivoluzionaria. Qui l’ex ufficiale delle SS delinea paradossalmente un sistema di “resistenza” per una guerra di liberazione: il primo livello che deve portare soccorso e rifugio ai combattenti d’élite si concepisce in un territorio sottoposto a violazioni della propria sovranità. I nuclei scelti di controterrore si inseriscono nello scenario di una insurrezione interna (appoggiata dall’estero o addirittura concomitante ad una invasione) che paralizzi il tessuto delle forze armate regolari. Il fatto che le unità combattenti d’élite agiscano separatamente senza sapere l’una delle altre è un classico accorgimento per evitare che una rete che agisce in territorio insidiato venga smantellata come una maglia che si sfila tutta tirando un solo filo. Infine che le unità debbano essere coordinate da una centrale è cosa troppo stravagante o la magistratura democratica ritiene che il coordinamento sia il principio della dittatura? Si potrebbe continuare a disquisire di tattica e di logistica, ma il livello della esegesi che ha voluto collegare il Parco dei Principi a Piazza Fontana è più prosaico ed è anche più ridicolo. È possibile che fascisti e militari rivelino in un convegno la preparazione di un orrendo crimine? Ed è concepibile che un ex ufficiale decorato dichiari che c’è bisogno di una armata divisa in quattro livelli per mettere una bomba da attribuire all’avversario? I servizi segreti talvolta compiono operazioni che in gergo si definiscono “dirty flag”, con bandiera sporca, attribuendo una azione al nemico per provocare una reazione. Ma cose del genere somigliano al sesso: chi le fa non ne parla.
Checchè se ne dica, il pericolo russo per tutti gli anni del lungo dopoguerra era reale. Reale anche il pericolo di un’infiltrazione a tutti i livelli di emissari comunisti. A ben vedere il primo pericolo – più evidente – è stato sventato, grazie all’energia produttiva dell’Occidente, alla efficienza militare dei paesi NATO, grazie anche a quella coscienza della libertà che nonostante tutto caratterizza le nazioni di origine latino-germanica. Il secondo pericolo, più sottile, è stato avvertito da pochi, combattuto per quanto era possibile, non del tutto sventato. Lo scenario apocalittico che aleggiava sulle considerazioni dei relatori del Convegno del C.S. Pollio non si è verificato, ma indubbiamente quel deterioramento della situazione nazionale che Filippani notava in gran parte è avvenuto.
Non vi è stato fortunatamente bisogno di corpi d’élite per organizzare la Parade e la Reponse al comunismo, ma è pur vero che la volontà reattiva dell’Occidente secondo una strategia che si snoda dal Piano Marshall fino agli Euromissili ha contribuito ad annientare un regime che destinava alle spese militari una percentuale massiccia del proprio prodotto interno. D’altra parte il dilettantismo dei movimenti di destra, il loro muoversi in attività di mera dissipazione di energia, il deprecabile teppismo di talune frange (fino a giungere all’aberrante terrorismo di altre) hanno prodotto per la destra politica un esito autolesionistico che Filippani aveva previsto quando esortava a dedicarsi ad attività più pratiche o più spirituali. Il comunismo è crollato – perché questo era per dirla con gli Indiani il suo inevitabile karma – ma la destra che il comunismo “nobilmente” fronteggiava spesso è caduta trappola delle criminalizzazioni o delle strumentalizzazioni.
Va detto, per onestà, che Almirate propose la pena capitale per i terroristi di destra; la sinistra propone ancora oggi per i suoi terroristi una “comprensione intellettuale” che in taluni casi sfiora la giustificazione.
SILIO VALENTI
Tiranni democratici, in guardia! Se questa cultura sommersa fosse nota agl'Italiani degni di questo nome, di tutto l'obbrobrioso Sistema che muta gli uomini in maiali non resterebbe pietra su pietra. Silio Valenti de Wiederschaun