L’Oiw celtico: forza e debolezza di un popolo

«Che la Forza sia con te!». Chi non ha mai sentito questa celeberrima battuta di Guerre Stellari? Ma quanti si sono chiesti da dove gli sceneggiatori della fortunata serie filmica (inizialmente George Lucas, poi Brackett, Kasdan e Hales per gli episodi successivi) abbiano tratto ispirazione per creare una sorta di mondo parallelo, con una storia, un folklore e una spiritualità propri?

In realtà, per quanto riguarda la spiritualità delineata nella serie (ma anche per molti altri suoi elementi), la fonte ultima d’ispirazione risulta piuttosto evidente e risiede essenzialmente nella cultura celtica. In questo scritto focalizzeremo la nostra attenzione in particolare su un elemento cardine della costruzione filmica: proprio quella “Forza” menzionata in apertura, che risulta essere un chiarissimo calco dal concetto druidico di “Oiw”. Concetto, per altro, di non facilissima comprensione e spesso dibattuto in ambito storico, con opinioni divergenti sia sulla sua natura che sul suo sviluppo storico. Cos’è, dunque, l’Oiw?

Alexei Kondratiev, Il tempo dei celti. Miti e riti: una guida alla spiritualità celtica Per capire qualcosa di più su di esso, dobbiamo partire dalla sua base di sviluppo, cioè dalla società in cui la concezione di “Forza” trae origine. Sostanzialmente, se dal punto di vista sociale notoriamente, come in molte culture arcaiche coeve (con elementi perduranti fino almeno all’inizio del basso medioevo), la società celtica si struttura in una classica tripartizione tra “coloro che combattono”, “coloro che pregano” e “coloro che lavorano”, dal punto di vista culturale possiamo notare una nettissima divisione tra una classe colta, di cui fanno parte druidi, bardi, parzialmente il nucleo più “spirituale” dei guerrieri nobili, e una classe “popolare”, comprendente tutti gli altri. Una tale divaricazione si riflette naturalmente anche nella comprensione spirituale e nel vissuto religioso quotidiano (1).

In quest’ottica, uno degli elementi di più comune conoscenza in relazione al popolo celtico riguarda il suo straordinario pantheon, comprendente addirittura 374 divinità. In effetti, molte di tali divinità erano “copie” (in ambito regionale e con denominazioni e, talora, caratteristiche lievemente differenti) di altre, per cui possiamo in effetti parlare di circa 60 dei veri e propri, che risultano essere per lo più impersonificazioni di forze naturali (2).

In questo pantheon il dio più importante di tutti era Lug, in grado di suonare l’arpa, lavorare i metalli, combattere coraggiosamente e compiere magie e prodigi grazie alle sue incredibili conoscenze: è evidente che ci troviamo di fronte alla rappresentazione del druida perfetto e non stupisce, dunque, che proprio i druidi fossero visti, in un meccanismo simbolico di scambio di ruoli tipico dell’immaginario collettivo (Lug esiste come massima espressione druidica e i druidi, a loro volta, vengono associati alla sua figura come suo riflesso concreto) come suoi rappresentanti terreni.

A. Cerinotti (cur.), I celti. Alle origini della civiltà d'Europa E’ vero che da Lug, in una fase storica di difficile determinazione, probabilmente antecedente alla civiltà di Halstatt, derivò il culto di una triade di suoi (presunti) discendenti Teutate, Eso e Tarani, che ricorda molto da vicino la trinità divina germanica Wotan-Odino, Donar-Thor, Ziu-Tyr, ma che non necessariamente ha punti di origine comuni con essa (il concetto di trinità è, in effetti, molto ricorrente nelle religioni dei popoli di origine orientale) ma è altrettanto vero che, comunque, Lug mantenne sempre una prevalenza definitiva su tutti gli altri dei, in continua proliferazione nel culto popolare grazie alla ricchezza delle saghe e alla permeabilità di un politeismo sempre propenso ad affiancare eroi locali divinizzati (come l’irlandese Cu Chulainn) a divinità pre-esistenti (3).

Ciò che è necessario comprendere è che stiamo parlando di un livello appunto popolare, in cui la forma si fa sostanza e concetti astratti devono essere concretizzati in figure rappresentabili per essere compresi da tutti. Ciò non significa che il senso ultimo, appunto astratto, si perda: risulta chiaro a chiunque che, ad esempio, pregando Cernunnos, dio degli animali e della loro fertilità, e facendogli offerte votive, ciò che conta è il senso ultimo del “pregare per la fertilità degli animali”, di cui la “forma Cernunnos” si fa solamente tramite e istanza simbolica. Semplicemente, tale forma concretizza l’istanza e permette, come tutte le altre deizzazioni di altrettante istanze simboliche, lo sviluppo di una mitologia parabolistica ed educativa.

A livello più alto, cioè a livello druidico, una tale trasmutazione risulta assolutamente inutile: l’istanza astratta può rimanere tale perché il druida, grazie alla sua preparazione culturale (della durata minima di 19 anni di studi!), non necessità di alcun lavoro di filtro.

E’ in quest’ottica che, come fonte ultima di ogni manifestazione cosmica, come minimo comun denominatore di ogni elemento naturale, e dunque come elemento costitutivo e radicale di ogni istanza successivamente concretizzata nelle varie divinità, la classe sacerdotale (e ricordiamo che, prima ancora che sacerdoti, i druidi, come facilmente comprensibile anche dalla origine indo-europea del loro nome, *dru-wid-es, che ha la stessa radice del latino videre (4), erano dei sapienti in varie materie, dall’astronomia all’erboristeria, dalla storia alla letteratura) individuava la “Forza”, intesa come forza vitale e denominata “Oiw”. Intendiamoci: non è necessario, come fa ad esempio Taraglio (5), ipotizzare una sorta di monoteismo druidico pre-cristiano: come ben chiaro da tutta la documentazione storica sui celti, il druidismo rimaneva strettamente politeistico e la distinzione era piuttosto, come detto, tra un politeismo mitologico popolare ed un politeismo spirituale sacerdotale.

Elena Percivaldi, I celti. Un popolo e una civiltà d'Europa L’individuazione dell’“Oiw” come elemento costitutivo primo di ogni elemento esistente è, sostanzialmente, solo l’individuazione di una qualità necessaria e sufficiente all’esistenza stessa, cioè l’essere percorso da energia vitale. Così, nel momento in cui gli dei esistevano ed esistevano le astrazioni in essi concretizzate, necessariamente ciò doveva avvenire per la presenza del principio primo vitale, l’Oiw. Dunque, le divinità non erano, come pensano alcuni (6), espressioni diverse di un unico principio vitale, di una unica entità divina chiamata Oiw, ma piuttosto entità distinte viventi (come ogni altra cosa al mondo) grazie all’Oiw.

Risulta chiaro, allora, tutto il senso della profondissima meditazione druidica su questa forza vitale, una meditazione che arriva a delineare una sorta di metafisica dell’Oiw. Sostanzialmente, allora, il principio unico e increato dell’Oiw viene corredato da gerarchie celesti, che si manifestano nelle forze della Natura. Il Sole diventa, nel solito processo di “visibilizzazione” dello spirituale, il simbolo evidente dell’Oiw, e da esso emanano tre raggi, ovvero le tre forme di energia da cui dipende l’ordine dinamico del cosmo (Amore, Forza, Conoscenza). La materia è, di conseguenza, solo ciò che dà prova di questo dinamismo, nelle sue svariate e continue determinazioni (7).

E’ alla luce di questo quadro generale che deve essere interpretata anche l’organizzazione della società. La tripartizione a cui si accennava all’inizio tra sacerdoti, guerrieri e lavoratori, infatti, corrisponde perfettamente alle tre forme che l’Oiw può assumere, secondo uno schema molto chiaro:

1) i lavoratori erano legati all’aspetto femminino dell’Oiw (detto Karantez), caratterizzato dall’amore e dalla riproduzione. Sostanzialmente si tratta di un calco dell’antico culto della Dea Madre terra che, appunto lavorata dai contadini, dà frutti dal suo ventre e, dal punto di vista della religiosità popolare, è questo aspetto che viene impersonificato da dee quali Myrionyme (preposta alla generazione) e Cerridwen (dea dell’amore);

2) i guerrieri erano sotto l’influsso dell’aspetto mascolino dell’Oiw (Nertz), che, naturalmente, era l’aspetto della forza, dell’impeto e del desiderio di potere, legato a Lug, di cui abbiamo già trattato (ma solo nei suoi aspetti bellicosi) e a Nudd, capo della della stirpe divina dei Tuatha de Danann (probabilmente una divinizzazione di un antico clan irlandese);

3) ai druidi era, infine, legato l’aspetto della saggezza dell’Oiw (Skiant). Tale aspetto nasceva dall’unione (cioè, in un’ottica fortemente sincretica come quella celtica, dal compimento e perfezionamento) di principio maschile e femminile e rappresentava l’Oiw nella sua interezza, attraverso il collegamento con il simbolo solare (8).

Alwin Rees - Brinley Rees, L'eredità celtica Bisogna, comunque, fare attenzione a non mescolare indebitamente i piani. La tripartizione sociale non nasce, come sostenuto da qualche studioso (9), dalla tripartizione degli aspetti dell’Oiw, essendo, fondamentalmente, la classica suddivisione di ogni società arcaica.

L’attribuzione di diversi aspetti a diverse categorie sociali si configura unicamente come lavoro ex post di riconoscimento di principi vitali di stampo differente ma di origine comune nelle diverse categorie sociali, un riconoscimento che si compie con un notevole lavoro di speculazione sulle caratteristiche psico-sociologiche della piramide sociale.

A partire da questo presunto “informare di sé” che l’Oiw compie su tutti i livelli della società, la penetrazione, più o meno consapevole, della “filosofia della forza” si attua, nel concreto, in ogni aspetto della vita celtica, attraverso un intensa opera di sviluppo di corollari che si diramano dalla concezione di base fino a formare un sistema di pensiero omninglobante.

Così, ad esempio, tutte le manifestazioni della natura, anche quelle più violente, vengono vissute come un’ incarnazione dell’energia assoluta che presiede alla creazione e alla distruzione del mondo, in un processo ciclico di nascita e morte che si rinnovava continuamente e da cui deriva anche il concetto celtico della reicarnazione. Da questa concezione ciclica dei tempi e degli eventi e non, come molti ritengono, dalla paura o dalla superstizione (comunque ben presente a livello popolare) nasceva l’assoluto rispetto per la natura, vista, con un ottica quasi orientale, come possibile sede di reincarnazione.

In realtà, comunque, più che di ciclicità temporale vera e propria sarebbe più consono parlare di continua evoluzione dell’Oiw a tutti i livelli. Persino il divino era visto come un principio in perenne sviluppo, che si manifestava in quattro stadi (o mondi) diversi: dal centro (Oiw assoluto) si passava, attraverso cerchi concentrici, allo stadio della conoscenza spirituale, poi al mondo fisico, infine allo stato della materia incorporea inanimata. Più che in una reincarnazione come trasmigrazione da un corpo all’altro, allora, i celti credevano in un passaggio tra stadi di conoscenza e consapevolezza diversi, ottenibile tramite iniziazione: dopo la morte, il corpo del defunto entrava nel mondo dell’invisibile dove manteneva la memoria dell’esistenza terrena e come tale, poteva entrare in contatto con i vivi, in particolari momenti dell’anno (Samhain); poi la memoria andava via via affievolendosi fino all’oblio definitivo, che apriva le porte o all’immortalità o di nuovo al mondo fisico. Da questo processo traeva senso la divinazione, spesso ottenuta tramite trance: il veggente, in uno stato di coscienza alterata, entrava in contatto con i morti o con gli dei, che, nel continuum spazio-temporale celtico, vivevano semplicemente in uno spazio parallelo (ctonio per i morti, empireo per gli dei, con i quali il contatto era possibile anche tramite l’osservazione degli astri) da cui era possibile vedere ciò che alla vista umana era precluso (pur essendo comunque già esistente,con una concezione del futuro simile ad una sorta di “presente prossimo”).

Se, comunque, i druidi erano coloro che vivevano immersi nello “spirito dell’Oiw”, quasi paradossalmente coloro che più di ogni altro vedevano ogni tratto della loro vita concreta completamente influenzato da questa “filosofia della forza” non erano loro (e, anzi, la loro posizione privilegiata di intellettuali e “uomini sacri” preposti al contatto e, per certi versi, all’“incanalamento” della Forza, i sacerdoti celti finivano per essere più liberi delle altre classi sociali dalle maglie tradizionali che questa concezione imponeva a tutta la società (10)) ma i guerrieri (11).

Peter Berresford Ellis, L'impero dei Celti Per comprendere questo punto dobbiamo cercare di analizzare più in profondità il senso dell’essere guerrieri all’interno di un clan o di una tribù. Sostanzialmente, si arrivava a esercitare la funzione guerriera solo dopo una lunga e articolata iniziazione che includeva tanto il rito del passaggio dalla minore alla maggiore età, che per il giovane celta avveniva a diciassette anni, quanto l’addestramento a passare da uno stato normale a uno stato superiore di coscienza, che comportava la capacità di attivare e controllare energie straordinarie al momento del combattimento. In questo modo sia sul piano sociale sia su quello operativo il guerriero diveniva semplicemente una completa l’incarnazione dell’Oiw. Solo dopo tale addestramento il guerriero, assunto in piena consapevolezza il suo ruolo sociale, morale e religioso, godeva della protezione divina. Da quel momento in poi, egli doveva divenire, in qualunque momento della sua vita, espressione vivente della Forza. Anche per questo, durante il periodo di preparazione, viveva solo insieme ad altri maschi, fino al momento del matrimonio, anche dopo il quale continuava, comunque, a frequentare prevalentemente comunità maschili.

L’oiw segnava ogni suo gesto: dai grandi banchetti, vere e proprie agapi in cui, tra abbondanti libagioni (anche il mangiare e bere molto erano espressioni della Forza), non solo si rinnovavano i rituali di coesione interni al clan, ma, attraverso il canto di gesta eroiche, si otteneva il riconoscimento per il propria Oiw (per i celti la fama era la cosa più importante) e, eventualmente, attraverso duelli, si risolvevano le contese interpersonali, alla scelta dell’acconciatura (a cui si prestava grande importanza, con chiome fluenti, spesso tenute dritte con impacchi di gesso, che erano considerate una riprova della prestanza fisica del loro proprietario).

Naturalmente, però, il luogo principe per la dimostrazione del proprio Oiw era il campo di battaglia. Il guerriero celta, in battaglia, si dipingeva il volto (normalmente di blu), urlava a squarciagola e, cosa stupefacente per i popoli mediterranei che si scontrarono con gli eserciti celtici, combatteva praticamente nudo, coperto solo da un leggero perizoma. Ognuno di questi gesti aveva un senso rituale molto forte: si urlava sì per spaventare il nemico, ma soprattutto per accrescere, quasi a livello parossistico, il furor omicida che la Forza faceva nascere dentro di sé; ci si dipingeva il volto per attirare e convergere le forze della natura verso la propria testa, sede dell’Oiw; soprattutto, si combatteva nudi per avere il massimo contatto con il nemico, con il suo sangue e con la terra, che infondeva il “calore del furore”.

Ancora l’Oiw era alla base di una delle pratiche considerate più “barbariche” dei celti: quella di tagliare le teste dei nemici uccisi e impalarle davanti alla propria casa come trofei. In realtà, il significato profondo era quello di interiorizzare la forza del nemico e di mostrargli rispetto, dal momento che una tale pratica stava ad indicare che il nemico ucciso, nella prossima vita, non avrebbe avuto più la testa (e la forza in esso contenuta) e, per questo, sarebbe stato un avversario meno forte che nella vita precedente. Un significato tutt’altro che “barbarico”, dunque, per un popolo che, tra l’altro, a differenza di ogni altra “razza civile” dell’epoca, si rifiutava di praticare la tortura, ritenuta disonorevole e stupida!

Venceslas Kruta, La grande storia dei celti. La nascita, l'affermazione e la decadenza Infine, sempre il concetto dell’Oiw fu, in buona parte, causa dell’annientamento bellico delle popolazioni celtiche da parte dei romani. Mossi dall’Oiw, i guerrieri celti prediligevano il corpo a corpo e la carica d’impeto. Per questo con le spade colpivano, menando dei fendenti, che non si rivelavano mai colpi mortali. Polibio (12) racconta addirittura che le loro piccole spade si piegavano dopo i primi colpi.

Gli scudi, poi, ben rifiniti ed incisi, erano piccoli rispetto al corpo, sempre perché i Celti confidavano nell’impeto dell’assalto. Dunque i Celti, per via del loro furore e della scarsa tattica, erano destinati a perdere le battaglie contro un esercito organizzato, cosa che, contro Roma, puntualmente avvenne.

Questa particolarità costituì un serio pericolo per Annibale, nella sua calata in Italia, poiché, in battaglia, la parte celtica del proprio fronte di attacco era la prima a cedere. Il generale punico seppe utilizzare questo potenziale difetto a proprio vantaggio, inserendo i Celti al centro del proprio schieramento, dando origine alla sua famosa tattica a tenaglia, nella quale il centro cedeva e risucchiava il nemico che veniva finito dalle ali, ove era presente la cavalleria, ma l’unico re celtico che capì che, in battaglia, bisognava usare una strategia oltre al furore fu il gallo Vercingetorige, che minava a colpire gli approvvigionamenti dei Romani, ottenendo qualche successo e avendo compreso che se avesse accettato lo scontro diretto con i Romani avrebbe perso. Fu però un caso isolato.

Così, l’individualismo guerriero basato sul furor dell’Oiw venne meno al confronto con la fredda e calcolata strategia militare. «Se vuoi sapere come i Romani hanno conquistato il mondo conosciuto,» afferma il grande scrittore fantasy ed esperto di strategie militari David Gemmell, «la risposta è il gladio, la corta spada che usavano. Una lama di 18 pollici con cui effettui affondi è diversa da una spada di tre piedi con cui fai dei fendenti – questo significa che puoi stare spalla a spalla su un muro, dove una lama calata di taglio ti manterrebbe a sei piedi in ogni direzione dai tuoi compagni. Non importa quanto i Celti superassero in numero i Romani, al momento del contatto erano tre a uno per i Romani» (13).

In questo modo, dunque, la più grande civiltà dell’età del ferro, con la sola eccezione di Scozia e Irlanda, venne sottomessa, inglobata nell’Impero, colonizzata e romanizzata, snaturandosi e finendo per “scomparire” per oltre 2000 anni.

Note

1) Cfr. B.Cunliffe, The Ancient Celts, Penguin, London 1999, pp. 207-218.
2) Cfr.A. Macbain, Celtic Mythology and Religion, Cosimo Classics, Edimborough 2005, passim.
3) Ivi.
4) Cfr. www.celticpedia.org.
5) Cfr. R. Taraglio, Il vischio e la quercia, L’Età dell’Acquario, Torino 2001, passim.
6) Cfr. D.Spada, Gnomi, fate, folletti e altri esseri fatati in Italia, Sugarco, Bologna 2007, citato in Il monoteismo celtico e i molteplici aspetti dell’OIW, www.esoteria.org.
7) Cfr., qui e altrove, http://spazioinwind.libero.it/popoli_antichi/Celti/Celti-indice.html
8) Cfr. O.Davies and T.O’Loughlin, Celtic Spirituality (Classics of Western Spirituality), Paulist Press, Londra 2002, pp. 86 ss.
9) Cfr. Cfr. R. Taraglio, Il vischio e la quercia, cit.
10) Cfr. P.Berresford Ellis, A Brief History of the Druids, Carrol & Graf Publishers, New York 1994, passim.
11) Per la trattazione sui guerrieri cfr. S.Allen, Lords of Battle: The World of the Celtic Warrior, Osprey Publishing, Bristol, 2007, passim e www.celticpedia.org.
12) Cfr. Polibio, Storie, II.
13) Citato in F. Truppi, La riscoperta di una civiltà, in www.celticworld.it

Condividi:
Segui Lawrence Sudbury:
Nato a Londra nel 1968 ma italiano di adozione, si laurea a 22 anni con il massimo dei voti in Lettere Moderne presso l'UCSC di Milano con una tesi sui rapporti tra cultura cabbalistica ebraica e cinematografia espressionista tedesca premiata in Senato dal Presidente Spadolini. Successivamente si occupa di cinema presso l'Istituto di Scienze dello Spettacolo dell'UCSC, pubblicando alcuni saggi ed articoli, si dedica all'insegnamento storico, ottiene un Master in Marketing a pieni voti e si specializza in pubblicità. Dal 2003 si interessa di storia e simbologia religiosa: nel 2006 pubblica Il Graal è dentro di noi, nel 2007 Non per mano d'uomo? e nel 2009 L’anima e la svastica. Nel 2008 ottiene, negli USA, "magna cum laude", un dottorato in Studi Religiosi a cui seguono un master in Studi Biblici e un Ph.D in Storia della Chiesa, con pubblicazione universitaria della tesi dottorale dal titolo Nicea: what it was, what it was not (2009). Collabora con riviste cartacee e telematiche (Hera, InStoria, Archeomedia) e portali tematici, è curatore della rubrica "BarBar" su www.storiamedievale.org e della rubrica "Viaggiatori del Sacro” su www.edicolaweb.net. Sito internet: http://www.lawrence.altervista.org.

  1. Urien
    | Rispondi

    Finalmente leggo un articolo sui Celti con il quale posso dirmi completamente d'accordo!

    "Intendiamoci: non è necessario, come fa ad esempio Taraglio (5), ipotizzare una sorta di monoteismo druidico pre-cristiano: come ben chiaro da tutta la documentazione storica sui celti, il druidismo rimaneva strettamente politeistico"

    Complimenti!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *