Sono ormai proverbiali gli equivoci e i disguidi burocratici dovuti a nomi e cognomi identici. Eppure finora non se n’è mai discusso il Parlamento benché la Corte Costituzionale, più di quindici anni fa, avesse auspicato una sollecita riforma. Anzi, una recente proposta di legge della senatrice diessina Vittoria Franco, lo ignora totalmente perché mira soltanto a ristabilire in questo campo il principio di parità fra donna e uomo: propone infatti che i genitori possano scegliere se trasmettere ai figli il cognome della madre o del padre; e e non si accordassero potrebbero farli registrare entrambi in ordine alfabetico. Ad esempio Mario Rossi assumerebbe il cognome Bianchi, se si scegliesse il cognome della madre, Bianchi Rossi se i genitori non si accordassero. La proposta di legge ha tuttavia un inconveniente: richiederebbe una rivoluzione negli uffici dell’anagrafe; renderebbe non facile la ricerca genealogica perché verrebbe a mancare un criterio unico; e creerebbe motivi di tensione all’interno delle famiglie. In ongni modo non sarebbe risolto il vero problema: quello delle omonimie. È un problema che in Italia si è riproposto periodicamente fin dall’antica Roma.
Nel periodo arcaico i pastori dei sette colli si chiamavano semplicemente per nome. Ma quando, dopo la fondazione della città, cominciò ad aumentare la popolazione cittadina, si decise di aggiungere al nome personale, detto prenomen, il cognome, chiamato nomen, il quale indicava la gens, ovvero la casata cui si apparteneva. Verso la fine del VII secolo a.C. nei ceti cittadini con pieni diritti si aggiunse un terzo elemento, il cognomen che in realtà era un soprannome, per individuare meglio una persona. Poteva capitare infatti che in una famiglia due persone avessero in comune il prenomen e il nomen, come succede a noi: per esempio Publius Cornelius. Sicché si aggiungeva un terzo elemento, un cognomen: per esempio Scipio. Ma poteva anche succedere che il figlio di Scipio ereditasse tutti e tre gli elementi. Così capitò ad esempio a Publius Cornelius Scipio che sconfisse i Cartaginesi nella seconda guerra punica; come distinguerlo dall’omonimo genitore? Aggiungendo un quarto elemento onomastico, detto supernomen, ovvero un secondo soprannome. Venne così a chiamarsi Publius Cornelius Scipio Africanus perché aveva combattuto valorosamente in Africa. Forse quella forma quadrinomica era eccessiva nella sua volontà di evitare l’omonimia; tant’è vero che nelle più antiche famiglie dell’aristocrazia romana si tornò con il tardo impero alla formula trinomica.
Ma nel frattempo la diffusione del cristianesimo aveva compiuto una nuova rivoluzione, cioè letteralmente un ritorno al punto di partenza: molti artigiani, mercanti, contadini convertiti vollero chiamarsi per umiltà con un solo nome che spesso era quello di un martire o di un apostolo. Successivamente il deterioramento della vita sociale, causato dalle invasioni barbariche, contribuì al processo di riduzione onomastica. E se talvolta nell’ambito di un villaggio capitava un caso di omonimia, lo si risolveva dicendo ad esempio che Maurus era figlio di Jacobus.
Ma intorno all’anno Mille, quando lo sviluppo dei commerci cominciò a incrementare gli atti amministrativi e notarili, si ripropose il problema di individuare meglio i cittadini con un secondo nome. Nacque così il cognome moderno, usato ancora oggi. Il più semplice fu quello già adottato nella pratica quotidiana per distinguere due persone con lo stesso nome personale: si cominciò a scrivere Antonius filius Mauri, poi il filius cadeva e restava Mauri. Un altro tipo di cognome indicava la provenienza che indicheremo per comodità nella versione in volgare: Napolitano, Valle, Dal Borgo. Un terzo invece s’ispirava al mestiere o alla professione, come Cavallari, Barbieri, Fabbri. C’erano infine dei cognomi che erano in realtà soprannomi perché indicavano una caratteristica fisica o morale di una persona: Onesti, Zoppi, Rosso, Neri, Biondi, Gobbi. Si era tornati nuovamente alla formula binomica, che oggi, come si diceva, è diventata insufficiente.
In Spagna il problema si è risolto da molti secoli con l’attribuzione di almeno due cognomi, il primo paterno e il secondo materno. Ad esempio Ignacio Cepeda Fernandez. Questo signore lo faremo sposare con Pilar Ramirez Fuentes. Il loro figlio a sua volta si chiamerà Jaime Cepeda Fuentes, ereditando dal padre il nome del nonno paterno e dalla madre quello del nonno materno. Complicato? Certamente più utile a evitare gli equivoci che suscita la nostra forma binomica. Rimane però un problema che, a quanto pare, sta molto a cuore alle nostre deputate e ministre neofemministe, di destra e di sinistra: il cognome della madre è destinato a scomparire alla seconda generazione. Come risolvere il problema? Le neofemministe opterebbero per un criterio diverso privilegiando il cognome della madre, cioè la discendenza matrilineare. Si potrebbe proporre un compromesso ispirato all’usanza spagnola che permette di portare anche quattro o addirittura otto cognomi: quattro, composti dai due paterni e dai due materni; sei, se si aggiungono il secondo del nonno paterno e il secondo della nonna materna; otto, se si aggiungono anche il primo della bisnonna paterna e il primo di quella materna.
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Tratto da Il Giornale del 20 settembre 2002.
jing hoo
ad ogni modo anche i cognomi dati dalle madri sono a loro volta i congomi dei padri delle madri…