Da tempo chi vive nel benessere ma anche nel vuoto del materialismo consumistico, tipici delle società occidentali, fa esperienza del fascino che esercita il pensiero orientale. Ma quale reale appeal può avere, nel mondo disincantato della tecnica, l’idea che tutto ciò che i sensi attestano sia soltanto un’illusoria parvenza, un velo di Maya? O che le anime individuali siano destinate a trasmigrare in altri corpi fino alla definitiva espiazione delle loro colpe? E chi è davvero disposto a credere in immagini mitologiche come il samsara e il nirvana, che Schopenhauer, per rendercele più familiari, paragonava alla città terrena e a quella celeste di sant’Agostino?
Per la mentalità occidentale che non separa la filosofia dal suo vocabolario greco è arduo entrare nel complesso delle dottrine metafisiche della tradizione indù. Soltanto dopo il celebre saggio di Schlegel Sulla lingua e la sapienza degli indiani e la valorizzazione dell’insegnamento vedico-upanisadico a opera di Schopenhauer, dunque da meno di due secoli, tale tradizione di pensiero ha cominciato a interessare anche i filosofi occidentali. La tendenza dominante è rimasta comunque quella che assegna le dottrine orientali alla storia delle religioni piuttosto che a quella del pensiero. A confermarlo, basta sfogliare i manuali di storia della filosofia oggi in uso: quanti contemplano anche il pensiero orientale? Eppure, la tradizione di studi nel frattempo affermatasi – rappresentata da nomi come Giuseppe Tucci, Raniero Gnoli, Mario Piantelli – impone oggi una diversa visione delle cose, e non solo a livello specialistico, ma anche sul piano della cultura generale. Tra le importanti iniziative volte a promuovere questa nuova visione spiccano – oltre alla Biblioteca orientale di Adelphi – le pubblicazioni delle Edizioni Âsram Vidyâ di Roma, che hanno fatto conoscere in Italia i due maggiori pensatori della tradizione indù: Gaudapâda e Sankara. Esse offrono ora un’impeccabile edizione, con introduzione, traduzione, note e il testo sanscrito traslitterato, di uno dei grandi monumenti di tale tradizione: il Brahmasûtra con il commento di Sankara.
Si tratta di una raccolta di 555 aforismi (sûtra) che trattano del Brahman, il Principio assoluto da cui ha origine il mondo. La loro compilazione scritta, articolata in quattro capitoli o libri, è attribuita a Bâdârâyana, maestro della cui vita quasi nulla si conosce, ed è fatta risalire al III secolo a. C. oppure ai primi secoli d. C., ma già in precedenza gli aforismi erano tramandati in forma orale.
La raccolta è il compendio e la codificazione dottrinale dell’insegnamento Vedânta, termine che significa la “fine dei Veda” nel duplice senso di parte conclusiva di tali testi e scopo finale della conoscenza tradizionale. L’opera è chiamata per questa ragione anche Vedântasûtra. I Veda costituiscono il fondamento unitario di cui le altre concezioni metafisiche dell’India non sono che sviluppi o “punti di vista” (darsana). Il Vedânta è uno dei sei darsana della spiritualità indù e si basa su una “triplice testimonianza”, ossia su tre fonti: le Upanisad vere e proprie, che contengono la rivelazione non-umana e fanno parte della tradizione udita (sruti); la Bhagavadgîtâ, ovvero il Canto del beato, che con l’intero Mahabharata (di cui fa parte il Codice di Manu) appartiene alla tradizione rammentata (smrti); infine il Bramasûtra che precisa la retta interpretazione da dare alla tradizione udita e rammentata, costituendone l’espressione culminante, “fondata sulla ragione” (nyâya), in quanto gli insegnamenti Vedânta vi sono raccolti ed esposti secondo un ordine e un’ argomentazione logico-razionali.
Il tema fondamentale è la ricerca dell’Assoluto, del Principio incondizionato che sta oltre ogni determinazione e ogni qualità, ma da cui tutto discende. E tale ricerca è intesa sia nel senso teoretico di conoscere l’Assoluto, sia in quello pratico di trasformare tale conoscenza in un’esperienza di vita che porti alla liberazione (moksa).
Nei quattro capitoli o libri dell’opera si mostrano rispettivamente: 1) la “Concordanza”, ossia che tutti i testi vedici si riferiscono al Brahman (Concordanza); 2) l'”Assenza di contraddizione”, ossia che non c’è conflitto tra il Vedânta e gli altri testi sacri; 3) la “Disciplina spirituale”, cioè i mezzi per raggiungere il Brahman e risolversi in esso; 4) il “Frutto”, ossia il risultato cui conduce la conquista di esso, ovvero la liberazione.
Una serie di problemi, resi più ardui dallo stile conciso e criptico degli aforismi, legittima la successiva opera dei commentatori, che diedero origine a diverse scuole esegetiche. In primo luogo: nelle Upanisad è detto che Brahman è il tutto, ivi incluse la materia e le anime individuali, ma si dice anche che, in quanto Assoluto, esso è radicalmente altro da ogni cosa; nasce allora il problema di conciliare le due posizioni metafisiche estreme che ne derivano, la dottrina della non-dualità (advaita) e il dualismo (dvaita). Un’intera serie di interrogativi sorge in secondo luogo quando si vuole precisare quale rapporto sussista tra Brahman, l’anima individuale e la materia. Un terzo gruppo di problemi riguarda la causalità creatrice di Brahman. Resta infine da spiegare come il dolore umano derivi dall’ignoranza (avidyâ) e come essa possa essere superata soltanto mediante la retta conoscenza del Brahman. Il commento più antico e autorevole pervenutoci è quello di Sankara, uno dei grandi maestri dell’induismo, sostenitore della tradizione vedanta monistica, non duale (Vedânta Advaita). Nella presente edizione esso accompagna – con un prezioso apparato di note dei curatori appositamente studiato per il lettore occidentale – il testo del Bramasûtra e lo illumina dall’interno stimolando l’esigenza della sua reale conoscenza.
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Tratto da Repubblica del 10 settembre 2000.
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