Così come un grande albero nasce dal piccolo seme, in cui è contenuto come pura potenzialità e “volontà d’essere” rappresa in un punto, così nell’accingermi a scrivere qualche considerazione sul libro di Stefano Arcella Misteri antichi e pensiero vivente non posso esimermi dal partire proprio dal titolo in cui è contenuto in verità lo spirito dell’opera. Il libro si pone come vero e proprio ponte operativo tra la spiritualità dei Misteri e le esigenze dell’uomo mentalizzato e materializzato, esiliato nella dimensione della quantità e della frammentazione. Potremmo riproporre, parafrasandola, la nota domanda di Benedetto Croce su “cosa sia vivo e cosa sia morto nella filosofia hegeliana”, nella forma “cosa sia vivo e cosa sia morto dei misteri antichi”.
Io mi azzarderei a rispondere che ciò che è vivo è sicuramente l’esigenza di risvegliare il principio divino addormentato nel profondo di ogni essere e precipuamente in ogni essere cosciente, quindi quello della trasformazione interiore dell’Uomo o del suo indiarsi, apotheotunai, o detto in termini più familiari quella esigenza “religiosa” di re-ligare, riallacciare un legame con il Mondo Spirituale che nella quotidianità postmoderna sembrerebbe ormai perduto. Ciò che è morto, invece, o meglio, da riattualizzare sono gli strumenti per realizzare la trasformazione.
Per chi come il sottoscritto sia stato abbagliato dai fulgori dell’Individuo Assoluto delle opere giovanili di Evola e si sia azzardato in solitudine, con non grandi successi (per fortuna aggiungo!), in verità, sul sentiero dello Yoga Śaktico della Mano sinistra così come proposto ne L’Uomo come Potenza o del Satipattāna, attinto da La Dottrina del Risveglio, così come lo Yoga di Patanjāli piuttosto che i mantra delle Upanişad, questa problematica è stata ed è della massima importanza. Ebbene, mi scontrai quasi subito col problema di riattualizzare, rendere fruibili a me, un giovane calato nella metropoli, pervaso da interessi ed impegni che sembravano esulare da qualsiasi spiritualità, le tecniche e le tradizioni che con il mio mondo sembravano inerire poco o nulla. Cosa c’entrava l’immagine della serpe cosmogonica avvolta attorno allo Śiva Lingam all’imbocco di Suşumnā con l’esame universitario e il volto arcigno dell’impiegato di segreteria che mi intimava di concludere gli esami prima della scadenza dell’anno accademico ed il conseguente pensiero ossessivo che a malapena riuscivo a tenere a bada nonostante Uddhyāna Bandha, Mūla Bandha e Praņayāma. Oppure come conciliare la pratica del Satipattāna e quindi l’esigenza di essere un Vāņaprastha, uno che è partito per andare a meditare nella foresta con l’impellenza che amicizie e conoscenze imponevano ad un ragazzo di 20 anni ben inserito nella socialità a lui contemporanea. Ebbene tutto questo si agitava in me come un fiume sotterraneo, esigenza inespressa, problema inconscio di molti che si sentono uomini della Tradizione, quindi “individui differenziati” ma non sanno come esprimere quella vocazione se non a rischio di sentirsi dei disadattati. Come può un uomo, divelto da ogni tradizione e legame visibile con i templi misterici, gettato in un mondo secolarizzato, circondato dal materialismo, fagocitato da impegni e scadenze varie, intraprendere un sentiero spirituale senza correre il rischio, senza guida, di naufragare.
Tutto questo finché non mi capitò tra le mani, grazie ad un caro amico e compagno sulla Via[1], un plico di una trentina di fogli fotocopiati, tratti dal Manuale pratico della Meditazione di Massimo Scaligero, in cui si spiegava con geometrica purezza la struttura occulta dell’Uomo e l’esigenza di partire dal pensiero, quel pensiero ordinario col quale si pensa tanto la tassa da pagare, l’amico da incontrare, il bicchiere per bere oppure la Kuņdalinī avvolta per tre spire e mezzo all’imbocco della più che sottile. Il problema era ed è proprio quello: come può il pensiero ordinario pensare in modo vivente lo Spirito e al contempo pensare a cose così prosaiche e tuttavia come fare ad evitarlo senza far cadere anche la coscienza di veglia che sul suo flusso si regge. Qui non si trattava più di allontanare o fermare le proliferazioni mentali (prapañca, citta vŗtti) ma afferrare la forza che sta alla base del pensiero individuale, pensiero che non va evitato ma conosciuto e contemplato. Si tratta di osservare il pensiero come si osservano gli oggetti della realtà fisica, come lo scienziato osserva i fenomeni fisici per svelarne le leggi, con la differenza che l’indagatore del mondo fisico osserva e comprende il mondo col pensiero, l’indagatore interiore, invece, osserva il pensare stesso, il pensare che si manifesta nell’atto di pensare qualsiasi cosa, il pensare osserva il pensare, realizzando il pensiero pensante. Considerando che l’uomo ordinariamente è immerso nel suo pensiero, è, in un certo senso, “pensato” dai pensieri più che pensarli, questo trarsene fuori anche per alcuni minuti al giorno riveste già un carattere eccezionale. Ma questo è solo il primo passo, poiché questo pensiero preparato, costruito per essere contemplato a partire dal più semplice ed insignificante oggetto costruito dall’uomo (un bicchiere, una matita, un posacenere ecc)[2], è solo lo strumento utilizzato per far affiorare il momento conoscitivo del conoscere, il momento intuitivo che emerge quando si comprende un significato, vale a dire il concetto, o meglio il suo potere formativo e sintetico, tale “comprendere nel comprendere” va poi contemplato e voluto, saturato di volontà fino ad acquisire i caratteri di concretezza e “tangibilità” della percezione sensoria. Questa è la prima esperienza spirituale individuale cosciente dell’Uomo moderno, perché il concetto è tenuto vivo dal fuoco volitivo dell’attenzione cosciente ma la forza appartiene ad un ordine super-individuale, è volontà pre-individuale. Non a caso, a tale proposito l’Autore cita un passo di Massimo Scaligero in cui questi, senza mezzi termini afferma :
La conquista delle forze latenti formatrici del concetto, mediante la retta concentrazione, è l’impresa pre-iniziatica del discepolo moderno. Passare dal riflesso alla Luce, significa per lui passare dall’antica Via Lunare alla Via Solare, ossia trasferire il centro dell’attività interiore, dal corpo astrale all’Io in quanto Io immanente. È un atto decisivo, perché mediante esso l’asceta supera l’originario guasto dell’anima: il guasto che in antico rendeva necessaria verso il Divino una via trascendente o metafisica, piuttosto che immanente. [3]
Proprio di questo parla Arcella nel capitolo 12 del suo testo, il capitolo decisivo, partendo dalla individualizzazione della coscienza e dalla sua progressiva mentalizzazione che va di pari passo con la progressiva “ossificazione” della realtà fisica e la conseguente chiusura dell’uomo nella sua corporeità e la percezione del mondo esterno come assolutamente altro; concezione, questa, tipicamente moderna e che vede in Cartesio, come giustamente nota l’autore, il suo antesignano e più illustre rappresentante con la sua opposizione insolubile tra res extensa e res cogitans. Tuttavia, nota Arcella, questo processo se da un certo punto di vista è sicuramente un regresso costituisce da un’altra prospettiva una possibilità sconosciuta alle epoche passate, sviluppare facoltà e forze più alte e profonde dal punto più basso mai raggiunto, dall’esilio più lontano. Il Kali Yuga è più buio che mai ma proprio per questo la luce può splendere ancora più gloriosa e vittoriosa per chi la sappia accendere.
Si intuisce, pertanto l’inattualità di metodi che tendano a riesumare stati di coscienza trascorsi rinunciando al pensante lucido, conquista del moderno tipo umano, retrocedendo, dunque, invece di procedere riconquistandoli con la lucida coscienza pensante. Molto opportunamente, infatti, l’Autore cita questo passaggio di M. Scaligero a riguardo:
Così, cercando la dimensione sovrasensibile, crede di dover retrocedere verso stati di coscienza trascorsi; rinunciando al contenuto dell’attuale coscienza lucida, piuttosto che procedere, riconquistando tali stati mediante la coscienza lucida. Si dedica a metodi psichici, a yoga o ascetiche, promettenti forza, equilibrio, auto dominio, che egli può attingere solo dal centro di sé, in quanto riesca a percepire la forza mediante la quale il concetto diviene contenuto cosciente nell’anima… [4]
Il processo di liberazione del pensare va di pari passo con l’apertura cosmica di cui parla Stefano nel paragrafo 4 dello stesso capitolo. Se la mentalizzazione porta la chiusura ad ogni “rivelazione” proveniente dal mondo delle percezioni, la tanto paventata morte del grande Pan, la liberazione della forza pensiero porta ad un progressivo scioglimento del percepito nella sua matrice originaria fatta di luce pensante. Come insegna Scaligero infatti, nel percepire, l’unità dell’Io con il mondo è già in atto, l’immagine del mondo è già rapporto interiore, relazione ideale, perciò il mondo ci appare in forme e colori, poiché la materia, l’opacità, il negativo della luce, viene cesellato e modellato dalla luce dell’anima che inavvertita, poiché fluente da una zona nella quale ordinariamente l’uomo è addormentato, scorre verso la realtà sensoria attraverso i sensi. È il pensiero alienato che si rappresenta un Mondo alieno ed un Io irrimediabilmente separato da esso, mondo costituito da un ente rigido e impenetrabile che egli chiama materia, ma la materia stessa è sempre un pensato, frutto di un pensare che così se la rappresenta; oltre questa alienazione vi è un unico Pensiero Vivente, fatto di luce autocosciente ed auto sussistente, essenza della realtà universale.
Altra esigenza del moderno ricercatore, sottolineata da Arcella è quella di armonizzare il Pensare, il Sentire ed il Volere, le tre facoltà dell’Anima attraverso una metodica costante e progressiva che ha come suo fulcro e cardine i sei esercizi di liberazione delle facoltà proposti da Rudolf Steiner ai discepoli della classe esoterica, che costituiscono la base per qualsiasi cammino ulteriore. Cammino costituito da altre pratiche di trasformazione interiore descritte e commentate da Rudolf Steiner, per la prima volta nel libro L’Iniziazione, pietra miliare del cammino spirituale dei nuovi tempi. Altra preoccupazione, non secondaria, dell’autore è quella di illustrare come si inserisce la via proposta dalla Scienza dello Spirito nel dibattito culturale dei tempi che la videro sorgere, descrive pertanto la temperie culturale della Mitteleuropa ai tempi di Rudolf Steiner, l’importanza che le idee di Goethe ebbero per lui e le linee guida della Filosofia della Libertà, e delle altre opere filosofiche del Maestro austriaco, come l’Introduzione agli scritti scientifici di Goethe, Linee generali per una gnoseologia della concezione goethiana del mondo e Verità e Scienza.
Paragrafo a parte è dedicato alla cosiddetta Operatio Solis, operazione di alchimia interiore di importanza decisiva. A tale scopo introduce un’altra figura centrale nel panorama spirituale europeo e mondiale, quella del medico romano Giovanni Colazza, che in un’opera di commento a L’Iniziazione di Steiner, la descrive con grande chiarezza. Essa consiste nel formare un centro o organo sovrasensibile nella testa, in cui è assiata la coscienza di veglia del moderno, in un luogo “simbolico” tra la ghiandola pineale e la ghiandola pituitaria, dove confluisco le correnti sottili del Pensare (corpo pineale) e del Volere (corpo pituitario) e iniziare da qui la discesa al centro del Cuore, passando per il centro della Gola, andando a costituire la colonna di luce dei nuovi tempi che unisce la coscienza individuale alla realtà totale e che va a realizzare quella trascendenza immanente che è lo scopo ultimo dell’esperienza terrestre.
L’ultimo paragrafo del capitolo 12 è dedicato ad un esercizio che riassume e rende esplicito il messaggio di fondo della Scienza dello Spirito: la meditazione sulla Rosa Croce: la croce nera, simbolo dell’opera al nero, dell’arsione dell’ego inferiore o del corpo lunare, su cui fioriscono sette rose rosse fiammeggianti, simbolo della trasformazione degli istinti e delle passioni fluenti nel sangue in forze superiori dell’anima.
Pertanto, concludendo, l’opera di Arcella, lungi dall’essere un’opera di semplice erudizione è una lettura dei misteri antichi sub specie interioritatis, un’opera nella quale Egli coglie pienamente lo spirito dei Misteri al di là della loro forma, necessariamente transeunte, scorgendone l’assoluta consonanza con la via del Pensiero Vivente, forma adatta all’umanità attuale, la forma di cui lo Spirito, nei tempi moderni, si serve per manifestarsi come nuova rivelazione cosciente.
Stefano Arcella, è bene sottolinearlo, non scrive un’opera da semplice studioso delle vie al Divino, pur padroneggiandone testi ed esegesi, ma da praticante ultratrentennale, parla, dunque, dal punto di vista di chi anela alla trasformazione interiore e non di chi semplicemente si intrattiene oziosamente presso il colonnato del tempio perpetrando indefinitamente la dialettica dello Spirito, che è la sua contraffazione ed inversione.
Note
[1] La persona in questione è Alfonso Piscitelli che non ringrazierò mai abbastanza per avermi fatto conoscere la Scienza dello Spirito e avermi messo in contatto con un maestro come Pio Filippani Ronconi, amico di Scaligero, di Colazza, di Evola e ultimo epigono di una serie di maestri e anello di una nobile catena che si perde nell’imponderabile e nell’invisibile.
[2] L’insignificanza e la semplicità dell’oggetto scelto, insieme al suo essere un oggetto artificiale, cioè prodotto dall’uomo sono parte essenziale dell’esercizio di concentrazione, esercizio di cui Arcella lascia la descrizione a Massimo Scaligero a p. 197, traendola da Tecniche della concentrazione interiore, p. 14.
[3] P. 176.
[4] P. 177.
Lascia un commento