Lo spirito della religione greca antica

La cultura tedesca, dalla fine del Settecento fino alla prima metà del Novecento, ha dibattuto il tema del Nuovo Inizio. Molti dei suoi interpreti l’hanno letto quale possibile ritorno alla Grecia e ai suoi valori. In termini esplicativi, valgano questi versi di Stefan George, Meister dell’omonimo Kreis: «Un piccolo gruppo percorre taciti sentieri/ Fieramente discosto dal fermento operoso/ E come motto porta sulle sue bandiere:/Alla Grecia in eterno il nostro amore». In sequela di questa concezione, lo storico delle religioni Walter Friedrich Otto dette alle stampe, nel 1956, una delle sue opere più note e belle, Teofania. Lo spirito della religione greca antica. Il volume è ora riproposto dalla casa editrice Adelphi (pp. 184, euro 15,00), per la cura del germanista Giampiero Moretti, autore, inoltre, di una chiarificatrice postfazione, utile per contestualizzare le tesi di Otto.

L’obiettivo perseguito dallo studioso tedesco è chiaro: «L’intento vero e proprio di questo libro consiste nell’avvicinarsi alla comprensione della forma del divino quale si è rivelata ai Greci, e in tal modo mettere in luce lo spirito della religione greca» (p. 161). Come ricorda Moretti, Otto è in sintonia con Schelling che, tra i primi: «aveva posto l’accento sull’autorivelarsi del divino come fenomeno percepibile all’uomo nell’età precristiana» (p. 177). Il riferimento all’ “auto rivelazione del divino” ci pone al centro delle problematiche affrontate dallo storico delle religioni . Egli muove dal presupposto che gli dei greci siano stati forme, nelle quali si è data, concretamente, una rivelazione extraumana. Tale concezione, da tempo, era stata espunta dalla Scienza delle religioni ufficiale. Ciò spiega perché, nella prima parte del volume, Otto faccia i conti con le principali esegesi del mito prodotte da suoi illustri predecessori, Heyne, Görres, Creuzer, Usener, in alcuni casi latrici di vere e proprie equivocazioni.

Otto si sofferma sull’ermeneutica del mito propria della psicologia del profondo: «il percorso più fuorviante. Questo tipo di psicologia infatti asseconda nella maniera più nefasta il fatale narcisismo dell’uomo moderno» (p. 31), ritenendo di poter pervenire all’individuazione di immagini mitiche attraverso l’analisi dei sogni di soggetti psichicamente turbati. Al contrario: «il mito genuino […] è sempre spiritualmente ricco […] non nasce da sogni dell’anima, bensì dalla lucida contemplazione dell’occhio spirituale spalancato sull’essere delle cose» (p. 33). Tratto più rilevante dell’esegesi del divino in Otto è da individuarsi nel fatto che tale rivelazione sia esperita in prossimità al mondo degli uomini e della storia. Lo si evince con chiarezza dalla tesi secondo la quale la Grecia non ha sentito alcun bisogno di una rivelazione autoritativa. Ciò è chiarito da   Schelling: «Il gran beato è Dio […] proprio perché tutti i suoi pensieri sono costantemente all’interno di quel che gli è all’esterno» (p. 47). Ai greci fu concesso di pensare gli dei liberamente: essi si mostravano in ogni accadimento, in ogni essere, tanto che non si ebbe, presso di loro, incredulità. Il dio per i Greci fu un’esperienza, un mostrarsi esplicito. Il loro antropomorfismo, in realtà, fu una forma di teomorfismo.

L’annuncio religioso dell’Ellade, sostiene Otto, trovò voce nelle Muse: il poietes aveva contezza di svolgere funzione medianica, in quanto in lui parlavano le potestates divine, nel cui canto  «risuonava la verità di ogni cosa come essere ricolmo degli dei» (p. 51). La loro è lontananza-prossimità estrema, atta a tacitare i lamenti umani, a conferire pienezza all’esistenza. Gli uomini, dagli dei, traevano una spinta anagogica, la vita si configurava come tensione inesausta verso il cielo, escludente qualsiasi primato del soggettivo: «Quel che agita l’interiorità degli umani è l’essere afferrati da forze eterne che agiscono ovunque in maniera divina» (p. 71): esse sono presenti in tutta la natura. Il perseguimento del bene era privo del tratto moralistico che avrebbe assunto in seguito.  Gli dei erano vicini all’uomo greco, tanto che questi veniva: «sollevato nel divino nell’attimo più significativo» (p. 78) del proprio agire. Gli dei lo proteggevano, del resto, anche nella colpa, come testimoniato da tanti luoghi della letteratura ellenica. Il dolore, lo si evince dalla tragedia attica, era sempre commisto alla gioia. In tale religione, ruolo essenziale era svolto dal culto dei morti. I passati, erano venerati come: «l’essere di ciò che è stato» (p. 85), era loro conferita una realtà superiore a quella dei viventi.

Le pagine più intense e belle, a parere di chi scrive, sono quelle che Otto dedica  al Pudore come sacro timore e a Cháris, ciò che è gioioso. Il primo è: «pudore nei confronti di ciò che è inviolabile, della tenerezza di cuore e di spirito, del riguardo, del profondo rispetto […] e purezza nella vita sessuale» (p. 108). Tale sentimento rinvia alla Cariti, le Grazie romane, benedicenti tanto le più nobili creazioni, quanto: «le ore della più dolce felicità», stigma della vita religiosa greca. Otto chiarisce che tale sapere della pienezza divina nulla ha a che fare con il panteismo, anzi il politeismo ellenico rappresenta la forma più spirituale di monoteismo. Gli dei sono i diversi volti del divino nel mondo, che è retto dalla forza simpatetica di Eros. Lo studioso presenta, nella parte conclusiva del volume, alcune figure divine emblematiche: Afrodite, che: «appena toccò terra, il suolo fiorì» (p. 131), Artemide, il cui regno è la selva : «intimamente connessa a tutto quel che vive libero in natura» (p. 141), Apollo, il dio che nel tumulto: «appare all’improvviso, e il suo braccio teso impone la quiete» (p. 147), Atena dea della chiarezza e dall’azione consapevole, Dioniso dio del mondo primigenio. Ognuno di questi dei, correttamente inteso, è per Otto un mondo intero.

A dire di Moretti, la lezione di Otto è rilevante. Egli si pone sul confine del dibattito che vide coinvolti romantici ed antiromantici, conclusosi paradossalmente in Nietzsche. Ne La nascita della tragedia, questi condusse ad esiti estremi il dibattito sul dionisismo, celebrandone la fine. Nietzsche sostenne l’impossibilità di conciliare paganesimo e cristianesimo. Egli negò: «l’intuizione bachofeniana secondo la quale la religione è il motore della storia» (p. 181). L’esegesi di Otto rifiuta la concezione dualistica della grecità, che poneva la religiosità olimpica al fianco di quella misterica, centrata sull’immortalità dell’anima individuale. In Teofania, lo studioso, contro Nietzsche, difende l’apollineo nei termini di una conoscenza: «di cui il dionisiaco continua a far parte» (p. 183). In tale struttura conoscitiva si rivelerebbe, non una scelta volontarista, ma il divino: «centro pulsante di significati sì mondani e realistici, e però mai prodotto dell’uomo» (p. 183). Da ciò l’attuale inattualità di questo libro.

Condividi:
Segui Giovanni Sessa:
Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".
Ultimi messaggi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *