Infuriava la guerra franco-prussiana allorquando un precoce professore di Lingua e letteratura greca dell’Università di Basilea si incamminava sulle tracce di un dio ignoto – Dioniso, il nato due volte. Friedrich Wilhelm Nietzsche in quegli anni intravedeva nella musica totale di Wagner, nella filosofia di Schopenhauer e parzialmente in quella di Kant la speranza che sotto nuove spoglie potesse risorgere uno spirito tragico ed eroico proporzionato al valore dei tedeschi e dei loro remoti, ineguagliati avi: i greci antichi. Dal dialogo tra l’apolide e il nume silvestre scaturì, a scuotere il terso cielo della accademia germanica, La nascita della tragedia dallo spirito della musica. In quest’opera del 1872, osteggiata dal futuro filologo Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff e reinterpretata nel tempo dallo stesso pensatore di Röcken, il giovane Nietzsche spiega come l’anima dell’antico popolo greco non fosse da ricercare nella impassibile serenità degli dèi olimpici, ma appunto in un dio tellurico, per certi versi simile a Pan, a Demetra, a Persefone e, in qualche modo, ai Titani – fatali squartatori dello stesso dio.
Secondo Nietzsche il dolore più grande per l’uomo è che lo stesso dolore non abbia alcun senso e che la vita sia in sé irrazionale. Nella Nascita della tragedia il concetto è elaborato in riferimento ai greci. Il filosofo si rivolge infatti a loro chiedendosi come sia riuscito “un popolo dalla sensibilità così recettiva” e “così unicamente dotato per il dolore” a far fronte alla esistenza. Un mito descrive tale insensatezza mediante le parole del vecchio satiro Sileno, maestro di Dioniso: “L’antico mito racconta di come il re Mida abbia dato la caccia per molto tempo al saggio Sileno (…). Quando infine gli cadde tra le mani, il re chiese quale fosse la cosa in assoluto migliore e maggiormente desiderabile per gli uomini. Rigido e immobile, il demone tace; finché (…) erompe in queste parole: “Miserabile stirpe d’un giorno, figli del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te sarebbe vantaggiosissimo non sentire? La cosa in assoluto migliore per te è del tutto irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la seconda cosa migliore per te è – morire presto”.
A questa tremenda saggezza fa da eco il significato del mito di Dioniso-Zagreo secondo cui il dio dell’ebbrezza sarebbe stato fatto a pezzi durante la sua fanciullezza dai Titani. Lo smembramento del dio allude alla metamorfosi dello stesso in aria, acqua, terra e fuoco. Dal sorriso di Dioniso dilaniato nacquero gli dèi, dal suo pianto gli uomini. “Coloro che vedono”, gli epopti, speravano che Dioniso risorgesse e che ogni individuazione venisse riassorbita nell’Uno – quale segno di questa speranza rifulse la gioia di Demetra nel momento in cui apprese che avrebbe potuto “partorire Dioniso ancora una volta”. L’enigmatico mito cela
“una concezione del mondo profonda e pessimistica” che sta alla base della “dottrina misterica della tragedia”: “la conoscenza fondamentale dell’unità di tutto l’esistente, la considerazione dell’individuazione come causa originaria del male, l’arte come speranza gioiosa che si rompa l’incantesimo dell’individuazione e come aspirazione a una ripristinata unità”.
Soltanto se si considera tale costellazione si può concepire l’entrata in scena di due celebri figure: Apollo e Dioniso. I due dèi provocherebbero sull’uomo effetti che appaiono opposti: il dio dorico della luce Apollo avrebbe giustificato il mondo della individuazione nella contemplazione estetica e, creando gli dèi olimpici, avrebbe issato sugli uomini un favoloso velo di Maya in grado di redimere nella bella forma la vita e il dolore. Apollo è infatti “il trasfigurante del principium individuationis” tramite il quale si può raggiungere “la redenzione nell’apparenza”; in un altro senso il principio apollineo avrebbe avvolto l’esistenza e il dolore nella “gloria superiore” degli dèi conferendo loro un senso fulgidamente ultramondano e rendendo la vita degna di essere vissuta. Viceversa, Dioniso – l’orgiastico, l’estatico – incarnando l’oltrepassamento di ogni confine individuale, avrebbe fatto a pezzi questo velo e avrebbe ricondotto l’uomo nel cuore pulsante dell’unità primordiale facendogli esperire l’eternità dell’Uno: “con il grido mistico di giubilo di Dioniso viene spezzato l’incantesimo della individuazione e si apre la via che conduce alle Madri dell’essere, al più intimo cuore delle cose”. Il dio del πέρας e il dio dell’ἄπειρον avrebbero agito alternandosi fino a che nel VI secolo a.C. – cioè al tempo di Eraclito e di Pitagora – avrebbero inaugurato il miracolo metafisico della Tragedia stringendo tra loro un sodalizio. La tragedia sarebbe sorta dal coro dei seguaci di Dioniso che intonando il ditirambo lo celebravano in occulte cerimonie danzando nella più sfrenata ebbrezza. Da questo sacrale invasamento non solo gli iniziati del dio avrebbero contemplato se stessi quali satiri e amici di Dioniso, ma avrebbero visto lo stesso dio. Allorquando dal coro dei satiri fuoriuscì il corifeo e, più avanti, un attore che metteva in scena la tragica concezione del mondo veicolata dal canto, sarebbe sorta la tragedia, il dramma che mette Dioniso – la sua passione, la sua morte e la sua resurrezione – dinnanzi allo spettatore. Affinché il dio informe potesse essere visto, occorreva l’intervento del nume della forma. Pertanto Apollo nella tragedia attica si fa strumento dell’individuazione del non individuabile dando forma all’infinito. Dioniso parla la lingua di Apollo, le sue maschere sono apollinee. Si afferra così la definizione della tragedia quale “coro dionisiaco che sempre di nuovo si scarica in un mondo apollineo di immagini”. Varcando le soglie del teatro il cittadino della polis veniva coinvolto a tal punto dal canto del coro che si sentiva lui stesso satiro e come satiro percepiva il dio trasmutato tramite Apollo in dramma – azione della forma. Sino a che la musica verso la fine della tragedia non trionfava sulla individuazione e lo spettatore precipitava completamente nella vertigine dell’unità primigenia. Accadeva allora un miracolo nel miracolo: “Dioniso parla la lingua di Apollo, ma Apollo infine parla la lingua di Dioniso: con ciò è raggiunto il supremo scopo della tragedia e in generale dell’arte”.
All’inizio dunque Dioniso si esprime in forma apollinea, ma verso l’epilogo echeggia un “suono che non sarebbe mai potuto risuonare nel regno dell’arte apollinea”; pertanto la forma si piega al dionisiaco e si riverbera nel trionfo estatico della musica. L’apogeo musicale di Dioniso ingenera un effetto che, diversamente dalla catarsi aristotelica, riconduce l’uomo alla “gioia eterna del divenire”; gioia all’interno della quale trova posto anche il piacere di distruggere – per questo la fine tragica dell’eroe eccita il greco che esperisce se stesso oltre l’individualità divenendo forza elementare, insieme creatrice e distruttrice. Il dionisiaco mediante l’apollineo sospinge la forma al suo limite rendendola tra-sparente o trasmutandola in una lente che invece di de-formare la realtà nell’illusione, ne s-vela estaticamente il tragico – gioioso e doloro – mistero. L’uomo “vede” così il dramma dionisiaco dall’interno ed è parte della sua metafisica epifania.
L’equilibrio grazie al quale il greco riuscì a sostenere l’insensatezza della vita non si ruppe a causa di un dio, ma di un demone nuovo venuto: Socrate; il grande poeta Euripide, incarnando nelle sue opere la Weltanschauung socratica, condusse al suicidio la Tragedia aprendo la strada alla nuova commedia attica nella quale l’attore è una sorta di zimbello di se stesso che suscita il riso degli spettatori. Al declino dello spirito tragico corrispose una nuova forma di rassicurazione, un sottile piacere: la ricerca della verità al posto della verità – lo spirito teoretico. Il razionalismo socratico implica che tutto debba essere razionale affinché possa essere compreso. Il principio non si limita al mero ambito della gnoseologia, ma s’insinua nel dominio dell’arte e dell’etica. Il “socratismo estetico” è contenuto nel motto che concepisce l’intellegibilità come criterio esclusivo dell’arte: “tutto dev’essere comprensibile per essere bello”. Appurato che un’opera è bella solo se si capisce, l’arte perde il suo connotato metasensibile e diviene divertimento, “tintinnio di sonagli”. A livello etico s’impone il principio secondo cui “solo il sapiente è virtuoso” e la nozione per la quale è buono soltanto ciò che è cosciente. In altri termini, la virtù è sapere e il peccato deriva dall’ignoranza; ancora più chiaramente: “il virtuoso è felice” – al quale detto il Nietzsche successivo opporrà l’idea tragica secondo la quale il dolore cresce nella misura in cui si sprofonda nella autentica conoscenza. L’uomo socratico ha fede nella possibilità che si possa conoscere tutto e crede che l’inconosciuto sia ciò che ancora non è stato “calcolato”. Egli è ottimista e confida in fondo nella bontà dell’universo e nella sua razionalizzabilità, moralizzazione. Questa concezione si manifesta in alcune variazioni tecniche introdotte nella rappresentazione scenica a partire da Euripide: la consacrazione del deus ex machina che, calato dall’alto alla fine della rappresentazione, dà senso alla trama; l’introduzione del prologo che anticipa allo spettatore come andrà a finire il racconto; il progressivo ridimensionamento del ruolo del coro e, di conseguenza, la rimozione dell’essenza originaria della tragedia: lo spirito della musica. Al posto della visione apollinea nell’arte euripidea si impongono “freddi e paradossali pensieri” e al posto delle estasi dionisiache “pensieri e affetti imitati in modo estremamente realistico”. È chiaro che queste modifiche, insieme alla sostituzione delle azioni eroiche con le faccende di ordinaria quotidianità e con gli approfondimenti psicologistici dei personaggi (dal tipo eroico all’individuo atomizzato), sono in sintonia con la nuova mentalità borghese e rappresentano concretamente l’individualismo ottimistico, il pragmatismo e l’utilitarismo del nuovo cittadino ateniese e della sua mentalità mercantile – per non dire, nietzscheanamente, schiavile.
Ora che abbiamo presentato alcuni dei nuclei a nostro avviso essenziali dell’opera, vorremmo concentrarci su due delle figure più rappresentative: Apollo e Socrate. Sebbene in alcuni passi sia lo stesso Nietzsche ad alludere alla somiglianza tra il socratico e l’apollineo, i due impulsi non incarnano lo stesso principio. È vero che nel de-finire e de-limitare l’apollineo e il socratico si oppongono al dionisiaco, alla pura e indeterminata ζωή; tuttavia la modalità di marcamento dei confini e il tipo di limite non sono gli stessi. Infatti, un conto è conferire forma all’amorfo nel bello; un altro è dare forma all’insensato attraverso la razionalità calcolante. È d’altronde lo stesso Nietzsche a sostenere che “Euripide non è affatto riuscito a fondare il dramma solo sull’apollineo” visto che, anzi, “la sua tendenza anti-dionisiaca si è piuttosto perduta in un naturalismo antiartistico”. Un naturalismo in cui prevale la ricerca delle cause e degli effetti e che tende a non lasciare nulla al caso. L’errore, l’assurdità e l’orrore sono rimossi, la natura è concepita come un freddo meccanismo e l’arte è soltanto la mera imitazione della realtà (μίμησις). Le motivazioni delle azioni, le giustificazioni dei personaggi annientano la nobile tragicità e gratuità di ogni azione eroica a tal punto che anche l’amore per la forma perisce in una modalità di rasserenante-occultante rischiaramento razionalizzante.
Grazie ad Apollo, invece, il dolore è redento nell’opera. Il mondo è esperito secondo una regola estetizzante che conferisce senso agli stessi dèi intesi come forgiatori di una bellezza salvatrice. Apollo presenta l’autentica verità prelogica nella forma ingannatrice della salvifica menzogna artistica. Con Socrate l’insensatezza del dolore – che, come si diceva, è per Nietzsche il più grande dolore – viene neutralizzata in un tipo di piacere che consiste nel sollievo percepito allorquando si dota di senso l’insensato: è il piacere del dis-velamento: “Anche l’uomo teoretico prova infinito appagamento in ciò che esiste, come l’artista, e come quello ne viene protetto contro l’etica pratica del pessimismo e contro i suoi occhi di Linceo, che rilucono solo nella tenebra. Se infatti l’artista, ad ogni disvelamento della verità, rimane sempre attaccato con sguardo estasiato a ciò che adesso, dopo il disvelamento, resta ancora sempre un velo, l’uomo teoretico gode e si rallegra del velo gettato via, e trova il fine massimo del suo piacere nel processo del disvelamento sempre felice, operato con le proprie forze”.
Il piacere insito nella contemplazione del velo non è il piacere conoscitivo dello svelare. Ora, se a questo punto qualcuno concludesse che, conseguentemente, si possa attribuire ad Apollo il regno della bella menzogna e a Socrate il dominio della fulgida ed oggettiva verità, forse sbaglierebbe essendo anche Socrate immerso in un intarsio di veli ingannatori ed innescando il principio socratico in modo quasi meccanico il processo artistico e una forma di incantamento. Infatti Nietzsche, ancora sulla scorta di Schopenhauer, definisce la concezione del mondo socratica “rappresentazione illusoria”. Tale rappresentazione consiste in: “quella fede incrollabile che il pensiero attraverso il filo conduttore della causalità, raggiunga i più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere l’essere, bensì anche di correggerlo. Questa sublime follia metafisica è, come istinto, propria della scienza, e la conduce sempre di nuovo ai suoi limiti, là dove essa deve capovolgersi in arte: che è propriamente lo scopo a cui è inteso questo meccanismo”.
Socrate è l’ottimista teoretico che avendo “fede nella spiegabilità delle cose” attribuisce al sapere “la forza di una medicina universale”. Poiché l’illusione che tutto possa essere compreso è inappagabile, la scienza si estende sino a quando non tocca di volta in volta i suoi limiti mostrando l’illogicità del reale, la sua essenziale inespugnabilità. A questo punto la scienza, che già in sé nasce come reazione di fronte al terrore dell’irrazionale, sospinge nuovamente l’uomo verso l’arte, cioè verso spiegazioni mitiche sempre più universali, indeterminate come se l’uomo teoretico, a dispetto della moderazione socratica, non riuscisse più a fermarsi e dovesse allargare all’infinito la sua faustiana brama di razionalizzazione.
Per questi motivi bisogna riflettere sulla frase chiave secondo la quale una volta che Euripide consigliato da Socrate abbandonò Dioniso, a sua volta venne abbandonato da Apollo. La frase mette in luce un’idea: Apollo che si era alleato col dio dell’amorfo non accetta il sodalizio col demone socratico e abbandona Euripide al suo destino, alla sua responsabilità: mettere fine alla tragedia e alla sua tipica concezione del mondo in combutta con Socrate. Non a caso, l’ultima porzione dell’opera di Nietzsche è in buona parte dedicata a stigmatizzare la vittoria dello dello spirito teoretico che il filosofo identifica quale causa della decadenza e dell’angusta ombra che si allunga fino ai suoi tempi – e, aggiungiamo noi, sino a oggi: “(…) l’influsso di Socrate, come un’ombra che diventa sempre più grande al calare del sole, si è espanso sulla posterità fino al momento presente, ma anche sull’intero futuro, costringendolo, sempre di nuovo a ricreare l’arte – cioè l’arte nel suo vecchio senso metafisico più ampio e profondo – e facendosi garante, con la sua infinitezza, anche della infinitezza dell’arte”.
È così ribadito il rapporto quasi dialettico tra la scienza e l’arte propedeutico alla speranza nutrita in quegli anni dal filosofo che dalle ceneri della vecchia visione scientifica potesse risorgere come una fenice lo spirito tragico. Se da un lato Socrate e Apollo rappresentano istinti e piaceri differenti, dall’altro entrambi difendono l’uomo dalla noumenica irrazionalità del mondo; il primo attraverso la creazione degli dèi olimpici e dell’arte, il secondo attraverso la continua elaborazione di teorie in grado di dotare di senso l’uomo e il suo mondo.
Sullo sfondo, in buona parte inconscia, permane l’origine della sapienza e dell’arte: l’indeterminata e atavica mania di un dio, Dioniso, che come recita il mito, danzante ancora resuscita a dispetto di ogni calcolo e di ogni illusorio smembramento rappresentativo.
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Il presente articolo è stato pubblicato originariamente (con leggere variazioni), per L’intellettuale Dissidente. La versione del libro da cui sono stati estratti i passi di Nietzsche ripresi nell’articolo è la seguente: Friedrich Nietzsche, La nascita della Tragedia, Feltrinelli, 2015.
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